Rifugiati e migranti nel Mediterraneo: geopolitica di una crisi

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L’aggressione militare della NATO alla Jamahiriya libica guidata da Gheddafi, spacciata per continuazione del processo destabilizzatore denominato “rivolte arabe”, ha provocato come conseguenza più evidente e immediata l’impennata degli sbarchi dei migranti in Europa (specie in Italia) attraverso il Mar Mediterraneo. L’attuale guerra alla Siria baathista del Presidente Assad rappresenta oggi l’altro spartiacque che, almeno agli occhi dei mass media occidentali, favorisce inevitabilmente il processo migratorio dal Vicino Oriente all’Italia. Ma le cose stanno davvero così? Esiste un nesso diretto tra guerra e migrazione, oppure il fenomeno di sradicamento degli esseri umani nasconde interessi geopolitici particolari?

L’area mediterranea può essere suddivisa in tre differenti zone: il Maghreb, il Vicino Oriente e i Balcani che si distinguono in diverse tipologie migratorie (dovute a lavoro, riunificazione familiare, solidarietà etnica e religiosa, interessi criminali …) ma anche per una forte interdipendenza economica.
Lampedusa, nell’estremo sud della Sicilia, è a soli 100 km dalla Tunisia, molte isole del Dodecaneso in Grecia si trovano a meno di 5 km dalle coste della Turchia; diverse nazioni interessate dal fenomeno migratorio sono firmatarie della Convenzione Internazionale sui rifugiati, sugli apolidi e sui diritti dei bambini.
Il primo effetto collaterale di questa prossimità geografica si ebbe nel 2011, quando oltre 60.000 migranti (in gran parte provenienti dalla Tunisia) sbarcarono in Italia dopo lo scoppio della “primavera araba”.

La guerra illegale alla Libia – ricordiamo che la Risoluzione dell’ONU 1973/2011 prevedeva l’instaurazione di una no fly zone non solo per i velivoli della Jamahiriya ma anche per gli aerei dell’Alleanza Atlantica – ha ulteriormente intensificato questo fenomeno migratorio, finendo per saldarsi con la “crisi siriana” e alimentando il confronto geopolitico occulto che si sta consumando in Africa tra le ambizioni neocolonialiste occidentali e l’alternativa economica offerta dagli investimenti cinesi e russi.

Fino al 2014 il flusso dei richiedenti asilo in Europa si aggirava sui 200.000 all’anno ma questo dato si è ulteriormente impennato nel 2015 raggiungendo la cifra di 1,2 milioni di persone; lo stesso può dirsi per il numero dei morti che è stato di circa 3.000 nel 2015 e di 3.740 da gennaio ad ottobre 2016.

Secondo i dati dell’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, nel 2015 almeno 1.015.078 persone avevano attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Europa (856.000 in Grecia e 153.000 in Italia), nel 2016 invece sono state “solo” 361.678 persone, di cui 181.405 in Italia e 173.447 in Grecia.

Ad essere aumentato è quindi il tasso dei decessi: nel 2016 una persona ogni 88 (3.740 tra morti e dispersi) che hanno tentato la traversata ha perso la vita, un dato in netta crescita rispetto al parametro di 1 ogni 269 dello scorso anno.

Significativa la provenienza di quanti sono sbarcati nelle isole greche: Siria (50%), Afghanistan (25-30%) e Iraq (tra il 10 e il 20% secondo le stime più recenti), mentre le nazionalità maggiormente richiedenti asilo in Italia giungono da Nigeria (21%), Eritrea (12%), Senegal (6%), Mali e Sudan (5%), Guinea, Gambia e Costa D’Avorio (7% in media ciascuna).

Il primo piano di azione congiunta Unione Europea-Turchia, siglato nell’ottobre 2015, venne non a caso integrato nel febbraio 2016 dalla richiesta formulata alla NATO affinché le sue forze militari gestissero i flussi di immigrati che dalle coste turche si riversano in Grecia.

In realtà la risposta dell’Alleanza Atlantica fu abbastanza fredda: il segretario generale Jens Stoltenberg annunciò che «l’Alleanza fornirà supporto sotto forma di sorveglianza, monitoraggio, riconoscimento e raccolta informazioni per aiutare a contrastare il traffico di esseri umani e smantellare le reti criminali, mentre saranno le guardie costiere turca e greca a salvare, recuperare o respingere i migranti».

In base agli accordi raggiunti da Angela Merkel e Recep Tayyp Erdogan il Governo di Atene sperò che i migranti raccolti venissero respinti in territorio turco, ma sul piano operativo questo non accadde poiché le navi militari greche non possono entrare nelle acque turche e viceversa: quindi Ankara può continuare lasciar passare i barconi diretti alle isole greche senza accettare di riprendersi gli occupanti.

Come giustamente rilevato da alcuni analisti: “Nell’Egeo ci sono la guardia costiera greca e quella turca, la missione Poseidon dell’agenzia europea Frontex e ora anche la flotta della Nato. Tra le coste siciliane e quelle libiche vi sono le forze costiere italiane (Guardia Costiera e Guardia di Finanza), l’operazione Mare Sicuro della Marina italiana, l’operazione Triton di Frontex ed Eunavfor Med, un’altra flotta europea che sulla carta dovrebbe contrastare i trafficanti libici. Di fatto tra l’Egeo e il Canale di Sicilia operano le forze costiere di tre Nazioni e sono attive 5 operazioni militari: una italiana, 3 europee e una della Nato. Insieme mobilitano decine di navi che finora non hanno fermato i flussi migratori illegali né sono riuscite a reprimere o a esprimere una deterrenza nei confronti dei trafficanti di esseri umani.  (1)

Attualmente Triton, l’operazione targata Frontex nel Canale di Sicilia, si compone di 450 addetti, 9 navi, 3 aerei e 2 elicotteri.

Tuttavia nell’ottobre 2016 il Consiglio europeo ha preso nota che i flussi dei migranti “si sono ridotti del 98% verso le isole greche ma restano troppo alti nel Mediterraneo centrale sulla rotta dall’Africa all’Italia, sostanzialmente invariati da due anni”, aggiungendo che a dicembre 2016, durante il vertice europeo, arriveranno le proposte concrete per aiutare l’Italia a prevenire i flussi illegali con la cooperazione dei paesi chiave del migration compact (Senegal, Mali, Nigeria, Niger ed Etiopia) e per la revisione del diritto d’asilo.

Che il nostro Paese possa divenire l’imbuto nel quale conficcare tutti i rifugiati diviene evidente quando si pensa che tra dicembre 2015 e i primi mesi del 2016, Danimarca, Svezia, Austria e in parte anche la Germania hanno manifestato ostilità o almeno perplessità all’accoglimento di altri profughi ripristinando i controlli alle frontiere; le loro rigidità hanno indirettamente causato la chiusura della “rotta balcanica” nel marzo 2016 (Slovenia, Serbia, Croazia e Macedonia hanno sbarrato il passaggio ai profughi).

Ancora più dura la posizione dei Paesi del Gruppo di Visegrad: Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia, nonostante la minaccia di provvedimenti sanzionatori, al vertice tenutosi a Bratislava nel settembre 2016 hanno presentato un documento in cui si illustra una differente visione per l’Unione Europea.

Lo scopo della loro iniziativa è mettere un freno alla gestione caotica dei clandestini, introducendo il concetto di “solidarietà flessibile” nelle politiche dell’immigrazione e riaffermando la possibilità che ogni paese contribuisca “tenendo conto di esperienze e potenziale”, inoltre viene chiesto che “ogni meccanismo di redistribuzione sia volontario”.

Gli Stati europei sono ben lontani dal rispettare gli impegni assunti relativamente al programma di ricollocamento europeo: delle 160.000 persone da redistribuire da Italia e Grecia verso altri Stati europei entro settembre 2017, sono 3056 i richiedenti asilo effettivamente trasferiti stando agli ultimi dati, mentre ad oggi meno del 2% del totale delle quote di ricollocazione è stato realizzato.

Il numero di immigrati in Italia si è triplicato nell’ultimo decennio, mentre è rimasto più o meno stabile in Francia e Germania.
In questo clima il referendum tenutosi in Ungheria il 2 ottobre 2016, pur non raggiungendo il quorum del 50% dei votanti, ha registrato un netta affermazione di quanti sono contrari all’insediamento pro quota dei migranti deciso a Bruxelles; la consultazione voluta dal Governo Orban segue il recente voto favorevole alla Brexit, il cui esito è stato fortemente condizionato dalle paure britanniche sull’arrivo dei rifugiati nel Regno Unito che sarebbero dovuti passare dagli attuali 20.000 a 100.000.

 

Le sanzioni alla Siria hanno migliorato la situazione?

Il 9 maggio 2011, il Consiglio dell’Unione Europea, con la Decisione 2011/273/PESC stabilì l’embargo nei confronti della Repubblica Araba Siriana del Presidente Bashar al-Assad, primo provvedimento di una guerra condotta contro il Governo di Damasco che ha già provocato circa 250.000 morti, 6 milioni di sfollati e 5 milioni di profughi.
A nulla è servito, almeno da questo punto di vista, il provvidenziale intervento militare russo (invocato dal legittimo Governo siriano) che pure ha impedito il dilagare del terrorismo salafo-wahabita dell’ISIS nella regione vicino orientale.

Le sanzioni decise dall’Unione Europea su pressione degli Stati Uniti d’America, che da almeno 25 anni avevano incluso la Siria nell’elenco delle “nazioni canaglia” e adottato provvedimenti punitivi unilaterali fin dal 2007, furono motivate dalla “violenta repressione effettuata anche con l’uso di pallottole vere, delle pacifiche manifestazioni di protesta avvenute in varie località del Paese”.

Ovviamente i burocrati di Bruxelles non avevano minimamente preso in considerazione le modalità di quelle che un po’ troppo frettolosamente erano state definite “rivolte pacifiche”: anonimi cecchini che sparavano dai tetti colpendo indiscriminatamente civili e poliziotti (sistema di diffusione del caos già sperimentato in Romania nel 1989 e in Ucraina nel 2013), l’incendio del Palazzo di giustizia di Daraa (preannunciato tre ore prima dall’emittente degli Emirati Arabi Uniti “al-Arabiya”) o l’assalto alla stazione di polizia a Lattakia (con 10 morti tra le Forze dell’Ordine siriane), manifestazioni di piazza guidate da “uomini mascherati venuti dal nulla e scomparsi nel nulla”. (2)

In particolare l’art. 4 del documento e i suoi vari allegati prevedevano il congelamento di tutti i fondi e delle risorse economiche appartenenti, posseduti, detenuti o controllati da una serie di dirigenti di Damasco, tra i quali persone ed uomini di affari (perfino i Ministri delle Risorse idriche e della Sanità), che provvedevano a vario titolo alla commercializzazione di innumerevoli generi alimentari o attrezzature e pezzi di ricambio indispensabili per far funzionare un forno per il pane, una rete elettrica, un acquedotto, un’apparecchiatura medica … ora non più esportabili in Siria.

A nulla sono serviti finora gli appelli degli esponenti cattolici siriani che hanno denunciato come a causa della guerra e delle sanzioni la situazione nel Paese sia disperata, aggravata dalla carenza di generi alimentari, disoccupazione generalizzata, impossibilità di cure mediche, razionamento di acqua potabile ed elettricità.
L’embargo impedisce anche ai siriani stabilitisi all’estero prima del conflitto di spedire denaro ai loro parenti e familiari rimasti in patria.

La situazione appare ancora più contraddittoria se si considera che il 13 dicembre 2012 l’Italia riconobbe come unica legittima rappresentante del popolo siriano la “Coalizione nazionale degli oppositori siriani” (formazione sponsorizzata dagli stessi sostenitori, nemmeno troppo occulti, dell’ISIS e di Al Qaeda, cioè Qatar ed Arabia Saudita), senza alcuna votazione o discussione parlamentare, promettendo anzi un’intensificazione degli aiuti agli avversari di Bashar al-Assad.

Il 31 maggio 2013 il Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Unione Europea con la Decisione 2013/255/PESC tolse l’embargo del petrolio dalle aree “liberate dai ribelli” i quali, da allora, vendono il greggio siriano alle compagnie petrolifere occidentali.

Nonostante le proteste di alcune nazioni come Austria, Repubblica Ceca, Finlandia, Olanda e Svezia questa Decisione europea consentì addirittura la vendita di armi (anche pesanti) e di sistemi missilistici ai guerriglieri dell’opposizione ad Assad, seguendo anche qui l’analogo cammino già intrapreso dagli Stati Uniti d’America.

Evidentemente la retorica sui profughi che scappano dalla guerra appare ipocrita se nello stesso tempo si continua ad affamare, impedire le cure, negare l’acqua potabile, il lavoro, la sicurezza e la dignità di chi rimane in Siria.
Il 27 ottobre 2016 i 28 Stati membri che siedono al Consiglio europeo hanno aggravato la Risoluzione approvando nuove sanzioni contro ben dieci alti esponenti del Governo di Bashar Al-Assad.

Damasco viene accusata – come si legge in una nota diffusa dal Consiglio stesso – di “crimini contro i civili per via dei pesanti bombardamenti” nell’ambito del sanguinoso assedio che l’esercito siriano sta portando avanti su Aleppo est, al fine di eliminare i gruppi armati ribelli tra i quali spiccano i qaedisti di Al Nusra.

Secondo i principali quotidiani internazionali, al centro di queste sanzioni ci sono alti quadri dell’esercito e alcune delle massime cariche istituzionali, facendo così salire a 217 i siriani sanzionati con il congelamento dei beni e l’interdizione a entrare in territorio europeo.

Teoricamente l’Unione Europea sta prestando assistenza alla popolazione in Siria e agli sfollati sostenendo finanziariamente (circa 4 miliardi di euro stanziati finora) i Paesi limitrofi che accolgono il maggior numero di rifugiati, come la Giordania, il Libano e la Turchia.

Peccato che questi ultimi siano esattamente, insieme all’Iraq, la base di partenza per le aggressioni condotte dai gruppi ribelli wahabiti e salafiti contro la Siria baathista, come delineato nel rapporto del 23 giugno 2015 della Brookings Institution: “Distruggere la Siria: verso una strategia regionalizzata del Paese confederale”, che conferma l’esistenza del piano statunitense di creare “santuari” o “zone cuscinetto” nel nord della Siria fin dal 2012.

Lo steso Accordo raggiunto il 18 marzo 2016 da Unione Europea e Turchia sarebbe in palese violazione di varie convenzioni internazionali e trattati europei, in particolare dell’art. 218 che regola gli accordi tra la UE e i Paesi terzi, inoltre esso non garantirebbe alcuna protezione ai richiedenti asilo e ai rifugiati.

Altri 2 miliardi di euro sono stati invece destinati dalla Commissione Europea all’istituzione di un “Fondo fiduciario di emergenza per la stabilità e per affrontare le cause profonde della migrazione irregolare in Africa”, al fine di migliorare la situazione ed affrontare le cause profonde dei flussi di migrazione irregolare nelle regioni del Sahel, del Lago Ciad, del Corno d’Africa e dell’Africa settentrionale.

La popolazione africana è passata dai 230 milioni del 1950 all’attuale miliardo di abitanti abbondante: oltre il 350% in più in meno di 70 anni e in particolare la Nigeria, paese da cui provengono la maggior parte dei richiedenti asilo in Italia, conosce una demografia esplosiva.

Tra le dieci nazionalità più rappresentate nel sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, otto sono africane (Nigeria, Mali, Gambia, Somalia, Senegal, Eritrea, Ghana ed Egitto) e solo due sono non africane (Afghanistan e Pakistan).

Anche in questo contesto non si può non sottolineare come la guerra condotta dalla NATO in combutta con le petromonarchie del Golfo Persico per deporre Gheddafi abbia non solo ridotto la Libia ad un cumulo di macerie e terreno di scontro tra bande rivali ma eliminato l’unico progetto autoctono di sviluppo per l’intero continente africano.

Dopo essere stata per anni un elemento stabilizzante sul bacino mediterraneo, oggi Tripoli rappresenta un fattore perturbatore degli equilibri tra Europa e Africa e non è nemmeno ipotizzabile tentare di raggiungere un accordo simile a quello, pur contestato, siglato con Ankara.

 

Le ragioni sotterranee di una crisi

Dopo anni di indifferenza permanente, le immagini diffuse a piene mani dai mass media occidentali sul dramma dei profughi nel Mediterraneo hanno risvegliato emozioni sopite da tempo.
Se è vero che dall’inizio delle “rivolte arabe” nel 2011 il numero di persone che cercano di entrare nell’Unione Europea è aumentato notevolmente (626.000 unità nel 2014 che hanno sfiorato 1 milione nel 2015), tuttavia nel 1992 quando la UE comprendeva solo 15 degli attuali 28 Stati la cifra dei migranti (almeno rispetto al 2014) era addirittura superiore (672.000).

Contrariamente a quanto viene poi propagandato, meno di 1/3 dei profughi provengono da zone di guerra: il 20% sono siriani, il 7% afghani e il 3% iracheni, gli altri 2/3 sono migranti economici, a maggior ragione in Italia dove (stando ai dati diffusi dal Viminale l’1 settembre 2016) solo il 5% dei richiedenti asilo ottiene lo status di rifugiato.
I dati alla fine del 2016, per i profughi siriani, includono 2 milioni registrati da UNHCR in Egitto, Iraq, Giordania e Libano, 2.8 milioni registrati dal Governo della Turchia, più di 29,000 rifugiati registrati in Nord Africa.

Tra i primi dieci non c’è alcun Paese europeo; chi scappa da conflitti, persecuzioni, disastri ambientali, in genere, sceglie quelli limitrofi nella speranza di tornare a casa un giorno, mentre quelli abbastanza vicini e ricchi come Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar vengono snobbati dai profughi (o forse questi Paesi non vogliono accettare i rifugiati).

La maggior parte dei rifugiati siriani (circa il 95%) si trova all’interno di campi situati nei Paesi attigui, cioè Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto, mentre quelli abbastanza vicini e ricchi come Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar vengono snobbati dai profughi (o forse questi Paesi non vogliono accettare i rifugiati).

Il dato certo è che dei quasi 58.000 migranti che dal 1 gennaio al 31 agosto 2016 hanno ricevuto risposta alla domanda di asilo nel nostro Paese (meno di 800 erano i siriani che avevano fatto richiesta), oltre 34.000 hanno ricevuto un foglio di via con l’obbligo di lasciare il territorio nazionale entro dieci giorni, cosa che quasi mai accade.
Si tratta quindi, per la maggior parte, di migranti economici e non di profughi, oltre 169.000 solo in Italia, mentre i ricollocamenti in altri Paesi dell’Unione Europea sono inchiodati a 1.318 unità invece delle 40.000 previste dagli accordi firmati a Bruxelles.

 

Perché quindi si insiste sulla questione dell’emergenza umanitaria in Europa?
Una prima risposta possiamo trovarla nelle giustificazioni della politica economica neo-liberista che pervade il Vecchio Continente.

Il Presidente della Federazione Industriali tedesca, Ulrich Grillo, ha auspicato nei mesi scorsi ulteriori 800.000 lavoratori stranieri in Germania, condizione necessaria per diminuire le garanzie sociali dei lavoratori (seguendo il ben noto schema marxiano dell’esercito industriale di riserva); siccome gli accordi europei lo vietano e l’opinione pubblica nazionale è contraria, ha pensato bene di ingigantire la campagna mediatica sulla crisi dei rifugiati per tentare di cambiare le regole di accoglienza.

C’è evidentemente qualcosa di sospetto in quanto sta accadendo se solo si pensa che il passaggio dei migranti dalla Turchia all’Ungheria all’inizio del 2016 costava 10.000 dollari ed oggi è sceso a circa 2.000 dollari: chi paga la differenza?

Un indizio si è avuto il 20 settembre 2016 quando è stata diffusa in Italia la notizia secondo cui lo speculatore statunitense George Soros, recentemente al centro di uno scandalo per l’attività “benefica” della sua Open Society, aveva deciso di investire 500 milioni di dollari per i migranti che vogliono aprire attività e imprese innovative in Europa.

Notizia che conferma quanto sostenuto dal giornalista investigativo statunitense Wayne Madsen: “La Turchia ha anche distribuito manuali ai migranti per istruirli su dove andare una volta giunti in Germania, per avere dal governo l’assistenza sociale. Proprio come si è visto con le rivoluzioni colorate dirette da Soros e CIA nei Paesi arabi e Ucraina, il flusso di migranti è stato istruito via Twitter su dove c’erano controlli alle frontiere e come aggirarli.” 3
All’inizio della guerra contro Damasco, ricordiamo, il Qatar stampava e distribuiva ai jihadisti dei passaporti siriani falsi, così da convincere i giornalisti stranieri che si trattava di “ribelli” e non di mercenari stranieri appartenenti alla ben nota galassia islamista che combatte per gli interessi della NATO fin dalla guerra del 1979 in Afghanistan.
Sono ormai noti gli avvertimenti lanciati dai servizi segreti austriaci e rilanciati da Vladimir Putin durante un’intervista alla tv francese sul ruolo organizzativo degli Stati Uniti nel passaggio in Europa dei rifugiati siriani e non.

L’Alleanza Atlantica, che come abbiamo già osservato è pienamente coinvolta nella crisi, si riserva infatti la possibilità di intervenire militarmente qualora ci siano migrazioni significative e l’insistenza sulla presunta origine siriana dei migranti farebbe pensare ad un pretesto per poter intervenire direttamente contro il Governo presieduto da Bashar al-Assad.

 

Le ragioni geopolitiche della crisi nel Mediterraneo

I leader dell’Unione Europea considerano il Mediterraneo come parte integrante del proprio spazio geopolitico e hanno messo in campo una serie di strumenti per integrare la regione all’interno della sfera di influenza euroatlantica, a partire dalla Partnership Euro-Mediterranea (Euromed) poi divenuta “Unione Mediterranea”.

Ad essa si affianca il “Dialogo Mediterraneo”, un’iniziativa della NATO lanciata nel 1995 e diretta a realizzare forme di cooperazione militare, su scala selettiva, con taluni Stati della sponda sud del Mediterraneo; come ammesso dalla stessa Alleanza Atlantica: “Gli interessi economici e la sicurezza energetica sono ovviamente al centro della politica della NATO nel Mediterraneo, dato che circa il 65% del petrolio e del gas consumati in Europa occidentale passa attraverso il Mediterraneo. Inoltre, gli analisti della sicurezza hanno da tempo previsto che la combinazione di economie stagnanti ed esplosioni demografiche in Africa settentrionale costituiranno delle sfide strategiche a lungo termine per l’Europa sotto forma di immigrazione illegale ed anche di terrorismo. Allo stesso tempo, la proliferazione missilistica in Medio Oriente e in Africa settentrionale influisce direttamente sulla sicurezza dell’Europa e sulla libertà di azione nel Mediterraneo.” (4)

Il Dialogo Mediterraneo è ricalcato infatti sul modello del Partenariato per la Pace che l’Alleanza Atlantica utilizzò per attrarre gli ex membri del Patto di Varsavia nella sua orbita; Marocco, Algeria, Mauritania, Tunisia, Egitto, Giordania e Israele sono tutti partner dell’iniziativa per il Mediterraneo e collaborano a vario titolo con la NATO.
Le sole nazioni arabe che si affacciano sul Mediterraneo e che non risultano coinvolte sono, non a caso, Libia (prima della deposizione di Gheddafi), Siria (aggredita militarmente) e Libano (dove la presenza di Hezbollah costituisce una spina nel fianco alle ambizioni imperialiste atlantiste), mentre l’Algeria mantiene comunque un ottimo rapporto geopolitico con la Russia e viene perciò periodicamente minacciata di destabilizzazione.

Con la scusa della “guerra al terrorismo” gli Stati Uniti richiesero nel 2001 una forte presenza della NATO nelle acque del Mediterraneo orientale e da lì, nel giro di tre anni, estesero questo mandato all’intero bacino.
Se teniamo presente che sulle coste del Mare Adriatico (ramo centro-settentrionale del Mediterraneo) si affacciano la Bosnia Erzegovina e il Montenegro, anch’essi in procinto di entrare nell’Alleanza Atlantica, si può tranquillamente affermare che il Mar Mediterraneo rischia di essere trasformato in un lago sotto il controllo della NATO.
Queste manovre strategiche, oltre a favorire Israele, hanno messo enorme pressione su Siria e Libano; fino a quando le due nazioni arabe rimarranno fuori dal controllo atlantista, verrà impedito l’isolamento dell’Iran e la piena egemonia di Washington e dei suoi alleati nella regione del Vicino e Medio Oriente.

 

Qual è invece il ruolo dell’Unione Europea in questo processo di colonizzazione?

Il Mediterraneo del Sud incarna per Bruxelles l’idea di un mercato del lavoro a basso costo nell’area strettamente legata all’Unione Europea e la possibilità di ridurre drasticamente le distanze geografiche, i tempi, i costi per il trasporto, i consumi di carburante e la dipendenza dalla Cina nel campo dei prodotti manifatturieri ottenuti dallo sfruttamento.

Una volta ridotta la dipendenza economica da Pechino, sarebbe possibile sfidarla con maggiore efficacia sul piano dell’acquisizione delle riserve energetiche e tagliarle, se necessario, i canali di approvvigionamento.

La strategia per la sicurezza europea, che replica in buona parte quanto adottato negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001, prevede per chiunque entri o esca dai confini della UE l’esame delle impronte digitali, lo scanner e una vera e propria schedatura.

Le recenti riforme delle leggi sull’immigrazione sono quindi strumenti che servono a tenere sotto controllo il flusso continuo di lavoratori stranieri provenienti dai Paesi della sponda orientale del Mediterraneo alla ricerca di stipendi migliori.

In realtà mentre i capitali finanziari vengono lasciati liberi di circolare senza regolamentazione, l’afflusso di manodopera verrà controllato scientificamente così da mantenere la disparità esistente nel rapporto tra capitale e lavoro salariato.

L’Eurosur, Sistema europeo di sorveglianza dei confini, monitorerà tutti i punti di accesso dei migranti all’Unione Europea con l’ausilio di immagini satellitari ad alta risonanza ed aerei senza pilota.

I controlli alle frontiere sono stati ulteriormente rinforzati proprio a Ceuta e Melilla, porzioni di territorio spagnolo in Nord Africa che Madrid rifiuta di restituire a Rabat, seguendo l’esempio della Gran Bretagna che si ostina a non cedere Gibilterra al Marocco.

Secondo questo paradigma neoliberista, gli impieghi e le imprese possono essere spostati dagli Stati più benestanti alle nazioni mediterranee, dove la forza lavoro costa meno.

L’Unione Mediterranea vuole anche impedire la formazione di altri blocchi geopolitici nel Mediterraneo, come l’Unione Africana (patrocinata e rafforzata in passato dalla Libia di Gheddafi) o l’Unione Islamica (promossa dall’Iran).

Lo scoppio della “Primavera Araba”, la guerra alla Libia e l’aggressione alla Siria, facendo leva sulle ambizioni regionali di Ankara che mise termine alla sua politica di “zero problemi con i vicini, hanno mandato in frantumi il progetto comune di Teheran che voleva riunire con una rete di accordi di libero scambio Iraq, Iran, Libano, Siria e Turchia.

Nel 2006 il senatore USA Richard Lugar invocò il ricorso all’art. 5 della NATO nel caso in cui gli approvvigionamenti energetici di uno dei suoi Paesi membri fosse messo in pericolo; questa clausola potrebbe cioè fornire il mandato necessario per attaccare militarmente la Russia o altri esportatori di petrolio e gas come Iran, Kazakhstan, Turkmenistan, Angola, Nigeria, Algeria e Venezuela, in nome del rispetto della “sicurezza energetica mondiale”.

Aggiornato al 31 dicembre 2016

Stefano Vernole
*Vicedirettore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici, Responsabile relazioni esterne del Centro Studi Eurasia Mediterraneo.

Note
1 Gianandrea Gaiani, La NATO contro il traffico di migranti, in www.ilsole24ore.com del 13 febbraio 2016.
2 Comitato italiano contro le sanzioni alla Siria, Cosa sono davvero le sanzioni alla Siria, https://bastasanzioniallasiria.wordpress.com, giugno 2016.
3 Wayne Madsen, Il piano Soros/CIA per destabilizzare l’Europa, Strategic Culture Foundation, 24/09/2015. L’oscuro presagio sulla fine dell’Unione europea è stato sollevato, nel marzo 2016, direttamente dalla voce di uno dei rappresentanti più autorevoli dell’establishment europeo, il senatore a vita Mario Monti, ex capo del Governo italiano: “L’Ue sta attraversando una crisi che porta me ed altri a considerare per la prima volta se non si stia puntando verso la disintegrazione”. Analoghe considerazioni sul possibile “collasso dell’Europa” sono state espresse nell’ottobre 2016 dal Ministro degli Esteri tedesco Frank Walter Steinmeier.
4 Mohamed Kadry Said, Una valutazione del Dialogo Mediterraneo della NATO, “Rivista della NATO”, primavera 2004, www.nato.int

Altri articoli consultati:
Thierry Meyssan, La falsa crisi dei rifugiati, in “Cronaca di politica internazionale” n. 144, 6 settembre 2015.
Tony Cartalucci, Orchestrare la crisi dei rifugiati per giustificare santuari in Siria, landdestroyer.blogspot.com, 7 settembre 2015.
Gabriele Martini, Richieste d’asilo respinte: diventa rifugiato solo uno su venti, www.lastampa.it, 1 settembre 2016.
Alessandra Benignetti, Soros investirà 500 milioni di dollari per i migranti, www.ilgiornale.it, 20 settembre 2016.
ISPI, Europe: no migrant’s land?, Epoké, Milano, 2016.
Mahdi Darius Nazemroaya, La globalizzazione della NATO. Guerre imperialiste e colonizzazioni armate”, Arianna editrice, Bologna, 2014.

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