La Repubblica Popolare Cinese e l’Africa da Bandung alla fine della Guerra Fredda

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Dal 1991, ogni anno l’Africa si conferma la prima meta intercontinentale del Ministro degli Esteri cinese. La tradizione ha resistito a tre ricambi di leadership, all’emarginazione diplomatica del post-Tian’anmen, alla crisi finanziaria del 2008 e persino al Covid-19. Primo partner commerciale del continente, secondo la China Africa Research Initiative (CARI) della John Hopkins University, negli ultimi venti anni la Cina ha rappresentato la prima fonte di finanziamenti infrastrutturali. Ha costruito ferrovie e autostrade, porti, stadi e scuole. L’arrivo di capitali cinesi ha creato 4.5 milioni di posti di lavoro per la popolazione locale. […] La corsa alle materie prime è il passato; la Cina ex fabbrica del mondo guarda al futuro. Sul lungo periodo, l’Africa si potrebbe dimostrare di importanza strategica non più solo per i metalli, i minerali ed il legname, ma anche e soprattutto per le sue caratteristiche: con una popolazione giovane e in crescita costante il continente possiede manodopera a basso costo e necessita di beni e servizi.

Una storia già sentita? Sì, perché la Cina di ieri sembra riflettersi nellAfrica di oggi. La speranza è che, dopo aver consolidato la propria presenza sul territorio, lex Celeste Impero riesca a trasferire in eredità quel paradigma di sviluppo che gli ha permesso di diventare la seconda potenza mondiale, liberando dallo stato di povertà e sottraendo letteralmente dalla fame 800 milioni di persone negli ultimi quattro decenni[1]”.

Alessandra Colarizi introduce così il suo Africa Rossa, parole che permettono di delineare con maggiore chiarezza i tratti del contesto delle relazioni tra la Repubblica Popolare Cinese e il continente africano il cui racconto, troppo spesso, è influenzato dalle narrazioni propagandistiche di stampo occidentale che vorrebbero gli Stati africani minacciati dalla cosiddetta diplomazia della trappola del debito e dalle mire neo-imperiali di Pechino che, secondo questo storytelling, interessato all’Africa soltanto per interessi egemonici globali preceduti dal prefisso geo-, siano essi politici, economici, strategici.


Il seguente articolo fa parte del progetto di ricerca del Centro Studi Eurasia e Mediterraneo “Cina: una potenza responsabile nella crisi geopolitica mondiale”

La guida dell’Occidente collettivo – così, lo si vuole, almeno stando alle ultime definizioni in merito – con il suo ordine delle regole e i suoi privilegi ed interessi egemonici da difendere e che, oggi, si vede erosi (se non proprio messi in discussione), cerca con ogni mezzo possibile di contenere l’ascesa irrefrenabile di Pechino. In questo contesto internazionale di spostamenti più o meno sottotraccia degli equilibri mondiali, tali presupposti portano a pensare che il continente africano possa diventare il campo – se non proprio di battaglia – di attrito tra quelle due Weltanschauung, i due paradigmi – l’uno unipolare, l’altro multipolare – che caratterizzano le odierne relazioni tra Stati e la conseguente organizzazione del sistema internazionale. Dice Sylvain Takoué, ivoriano, presidente di ChinaAfrica International,che questo “privilegio” accordato all’Africa di essere un campo di confronto tra potenze “non è una novità, è un fenomeno che risale a molto tempo fa e, quindi, non è una sorpresa per nessuno, qui, in Africa[2]”.

Per capire questo, basti che pensare che coprendo circa un quinto della superficie mondiale, il continente africano è il secondo per estensione dopo l’Asia ed occupa una posizione strategica sullo scacchiere globale: confina, infatti, a nord con il Mar Mediterraneo, a sud con l’intersezione tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano, a est con il Mar Rosso e l’Oceano Indiano e a ovest con l’Oceano Atlantico. Oltre a questa posizione di rilevanza strategica, il continente ha avuto a disposizione quelle preziose e abbondanti risorse naturali ricercate e ambite nel corso dei secoli; nell’era moderna, l’interesse per le risorse del sottosuolo continentale si è accresciuto notevolmente visto che molte di queste sono utilizzate per le produzioni militari e nelle industrie strategiche: ci stiamo riferendo a risorse quali petrolio, gas naturale, uranio, torio, cromo, cobalto, rame, zinco, titanio, platino, zirconio, manganese, litio e fosfati. Grazie a queste riserve, l’Africa ha sempre attirato l’attenzione delle potenze esterne ed è per questo motivo che, nel corso della storia, il continente è stato oggetto dei disegni imperialisti delle grandi potenze che si sono avvicendate sul grande palcoscenico della Storia. Lotta tra potenze, interessi economici, sopraffazione della popolazione, sfruttamento delle risorse, colonialismo. Queste le parole chiave che delineano nel migliore dei modi la postura degli europei nei confronti dell’Africa; una postura che non è mai stata abbandonata poiché entrata nella forma mentis delle elités occidentali, incapaci di guardare a questa area del globo con occhi diversi da quelli della sottomissione e dello sfruttamento economico a proprio vantaggio.

La prima rivalità tra grandi potenze in Africa è quella che scoppia tra il Portogallo e l’Impero Ottomano nel XVI secolo, nel momento in cui le attività coloniali del primo misero in discussione la sovranità della Sublime Porta in Abissinia. La successiva è stata la rivalità tra le potenze europee nella seconda metà del XIX secolo, che ha dato luogo alla brutale spartizione e al saccheggio delle risorse africane. Passando oltre, durante la Guerra Fredda il continente è diventato un’estensione del confronto globale tra blocchi – vale a dire tra Stati Uniti ed Unione Sovietica; mentre l’improvviso crollo dell’URSS negli anni Novanta del secolo scorso ha lasciato gli Stati Uniti senza alcun rivale nel continente, la sua posizione dominante fino ad oggi è stata quantomeno erosa, se non proprio messa in discussione, dall’ascesa della Cina in Africa.

Ci informa il professore Buğra Sari che l’analisi di queste tre epoche di ostilità tra grandi potenze in Africa rivela le diverse dinamiche e caratteristiche di fondo di ciascuna di esse, comprese le diverse strategie che le grandi potenze hanno adottato per raggiungere i loro obiettivi all’interno di ciascuna epoca: “le spedizioni portoghesi del XV e XVI secolo in Abissinia, nell’Africa nord-orientale, furono spinte principalmente da motivazioni economiche, sebbene anche gli ideali religiosi, come la conversione dei pagani al cristianesimo e l’appropriazione delle loro terre, abbiano giocato un ruolo importante. Sfidando la sovranità dell’Impero ottomano islamico sull’Abissinia, le attività economiche e religiose portoghesi provocarono, quindi, una prima rivalità tra grandi potenze, anche se geograficamente limitata. Il Portogallo aveva due obiettivi economici principali: il primo era quello di deviare la rotta commerciale per l’esportazione dell’oro sudanese verso l’Europa attraverso il Nord Africa; il secondo era quello di trovare una rotta marittima verso i mercati indiani della seta e delle spezie. Entrambi gli obiettivi sconvolgevano l’egemonia ottomana sulle relazioni commerciali tra Oriente e Occidente. Gli Ottomani cercarono quindi di frenare i progressi portoghesi in Africa orientale, ma non ci riuscirono perché la tecnologia delle loro navi da guerra oceaniche era molto inferiore a quella del Portogallo. Di conseguenza, le flotte portoghesi presero il controllo degli accessi al Golfo Persico e al Mar Rosso e delle coste dell’Africa orientale, da Socotra al Mozambico”[3].

Con il declino della supremazia portoghese, alla fine del XVI secolo iniziarono le attività coloniali olandesi, britanniche e francesi:A metà del XIX secolo si intensificarono anche gli sforzi degli europei per esplorare l’interno del continente, allontanandosi, così, dai possedimenti costieri: mentre all’inizio queste esplorazioni miravano, principalmente, a fare osservazioni geografiche e naturali, dagli anni Settanta del XIX secolo questi sforzi erano diventati più legati al desiderio di potenza di occupare, dividere e colonizzare l’Africa; la conseguenza fu che, nella corsa al colonialismo per il continente, le attività delle potenze coloniali europee si arricchirono di accesi sentimenti nazionalistici: non deve sorprendere che questo nuovo slancio nell’esplorazione dell’Africa coincida anche con l’emergere di nuove potenze nella politica europea, in particolare Germania, Italia e Belgio. Dopo le varie unificazioni, le loro richieste di una parte delle ricchezze dell’Africa causarono nuove rivalità coloniali sui territori africani. Fu allora che il cancelliere tedesco Otto von Bismarck convocò a Belino una conferenza internazionale per concordare regole e procedure per occupare, dividere e colonizzare pacificamente l’Africa. La conferenza evitò con successo la guerra tra le potenze europee che si accordarono sulle regole e sui confini della spartizione attraverso un’effettiva occupazione. Iniziò così la straordinaria corsa all’Africa delle grandi potenze, il periodo di espansione imperiale più rapido della storia mondiale: all’epoca, solo il 10% del continente era formalmente sotto il dominio europeo, ma nel 1914 la percentuale era salita a quasi il 90%, con solo due Stati africani indipendenti rimasti dopo la spartizione coloniale operata dagli imperi europei: Liberia ed Etiopia”[4].

Gli anni della Guerra fredda e della divisione in blocchi non risparmiò neppure il continente africano – anche se questo assunse un ruolo marginale nella rivalità tra le superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica – poiché concettualmente era impossibile separare l’Africa dalla complessa rete di relazioni tra Oriente e Occidente: l’interesse per l’Africa è stato, quindi, plasmato principalmente dal rapporto generale tra USA e URSS, modellato e incardinato sul divario Est-Ovest che ha caratterizzato tutto il lungo periodo della Guerra Fredda. Spiega Sari Buğra che sia gli Stati Uniti che l’URSS si presentavano come alleati naturali dei Paesi africani di nuova e recente indipendenza, poiché le due potenze non avevano partecipato alla lotta per la spartizione dell’Africa del secolo precedente; in questo nuovo rapporto con il continente, l’URSS muoveva, in realtà, da una posizione di vantaggio poiché condivideva con il nazionalismo africano la sua visione socialista del mondo che si coniugava con i sentimenti anti-imperialisti dei nazionalisti africani, questi radicati nelle ferite del recente passato coloniale vissuto dal continente. Non sorprende, allora, che molti Stati africani appena resisi indipendenti si siano proclamati socialisti (Thomson, 2004, p. 152). Per quanto riguarda la visione delle relazioni con il continente, l’Unione Sovietica riteneva l’Africa uno scenario che offriva un’opportunità di sviluppo, “il massimo guadagno nella conquistata influenza mondiale con il minimo rischio per l’Unione Sovietica”. A tal fine, l’URSS strinse legami fraterni con i governi radicali di Ghana, Guinea e Mali e con tre Stati marxisti-leninisti quali Angola, Mozambico ed Etiopia.

A tal proposito, la principale preoccupazione dei politici e degli strateghi statunitensi era che qualsiasi Stato africano che avesse seguito il socialismo avrebbe potuto far pendere l’equilibrio globale verso l’URSS, scenario inaccettabile per Washington; così, per questo motivo, gli Stati Uniti progettarono le loro politiche continentali per evitare che i Paesi con sentimenti nazionalisti e antimperialisti diventassero satelliti sovietici.

Oltre alle dinamiche ideologiche della rivalità tra superpotenze in Africa, sia gli Stati Uniti che l’URSS avevano ragioni economiche e strategiche per impegnarsi nel continente. Ad esempio, l’URSS era interessata alle risorse minerarie strategiche dell’Africa, tradizionalmente controllate da Stati Uniti ed Europa, pertanto, migliorando le relazioni diplomatiche con gli Stati africani – in particolare con lo Zaire e il Sudafrica – l’URSS poteva assicurarsi quelle necessarie a mantenere il ritmo dei suoi progetti militari e del suo programma spaziale. Inoltre, dominando le risorse africane, l’URSS avrebbe potuto impedire all’Occidente di accedervi. I piani sovietici per mettere le mani sulle risorse africane preoccupavano seriamente gli Stati Uniti, dal momento che questi dipendevano da esse per alimentare la propria industria. Ad esempio, il 99% del fabbisogno statunitense di cobalto era soddisfatto dalle importazioni dallo Zaire, il 98% del fabbisogno di manganese dal Gabon e dal Sudafrica, circa il 45% del fabbisogno di platino dal Sudafrica, il 91% del fabbisogno di cromo dal Sudafrica e dallo Zimbabwe e il 40% del fabbisogno di petrolio da Algeria, Angola, Congo, Libia e Nigeria.

Oltre alle risorse strategiche, la posizione geografica dell’Africa ne ha fatto un importante terreno di rivalità tra le superpotenze durante la Guerra Fredda e non solo: per esempio, l’Africa occidentale era una risorsa cruciale nei calcoli militari perché si trovava sulla costa dell’Atlantico settentrionale. Il Sudafrica si affacciava su Capo Speranza, una rotta di collegamento e di rifornimento strategica tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano. Infine, l’Africa orientale era adiacente al Medio Oriente, ricco di petrolio, e alle rotte di rifornimento che passavano per il Golfo di Aden e il Golfo Persico.

Fino agli anni ’70, i fallimenti iniziali dell’URSS nello stabilire basi africane hanno permesso agli Stati Uniti di mantenere posizioni strategiche chiave all’interno e intorno al continente[5].

Per raggiungere i loro obiettivi di dominio – politici, economici o militari – sia Washington che Mosca utilizzarono programmi di aiuto economico e militare come mezzi di influenza, utilizzandoli in modo altamente selettivo: solo i governi con sentimenti filo-occidentali, infatti, potevano beneficiare del programma di aiuti statunitense e niente contava il fatto che talvolta ciò contraddiceva le linee guida generali predicate in materia di politica estera dagli Stati Uniti, poiché gli interessi strategici venivano anteposti ai valori liberali, come la democrazia e i diritti umani; di conseguenza, gli Stati Uniti non hanno esitato a fornire assistenza economica e militare ai regimi brutali dello Zaire e del Sudafrica; sul fronte opposto, speculare nel metodo, i programmi di aiuti stanziati dai sovietici erano disponibili soltanto per i Paesi che sceglievano la strada del non-capitalismo con un impegno al marxismo-leninismo[6].

Dopo la dissoluzione dell’URSS e la conseguente fine del confronto di stampo ideologico mondiale che aveva caratterizzato i lunghi anni della Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono usciti come vincitori e – apparentemente – come l’unica grande potenza sullo scenario internazionale; poiché l’interesse manifestato da Washington per l’Africa era stato principalmente una risposta al coinvolgimento dell’URSS in quest’area, il continente ha finito inevitabilmente per perdere il suo posto nelle proiezioni strategiche statunitensi per l’era post-fredda che mostrarono sin da subito di avere limitati interessi africani; la scarsa attenzione generale occidentale nei confronti dell’Africa “non è stata solo una posizione poco dignitosa per le società più ricche nella Storia del mondo, ma ha anche esercitato un effetto lento ma sicuramente corrosivo sulla potenza e l’influenza degli Stati Uniti a livello globale, al punto che innumerevoli nazioni ora guardano alla Cina […] in quanto partner maggiormente in grado di aiutarle a realizzare grandi cose nel settore economico”[7].

Lo scenario è radicalmente mutato a partire dagli anni Novanta, quando, in Africa l’ascesa della Cina è stata così forte e importante in termini sia quantitativi che qualitativi da diventare, probabilmente, l’area operativa più importante per Pechino; area dove il coinvolgimento cinese si è drasticamente intensificato, approfondito e diversificato, con ampi investimenti economici e infrastrutturali ed intense e crescenti interazioni educative, culturali e politiche con gli Stati africani.

Questi sviluppi – ovviamente – hanno eroso l’influenza egemonica globale degli Stati Uniti i quali – minacciati – in tempi recenti hanno mostrato un rinnovato interesse per la questione dell’Africa tanto che, adesso, l’Occidente vorrebbe che il continente tornasse al centro della scena internazionale ma con il solo fine di limitare il dilagare la crescente e inarrestabile influenza cinese. Il già citato Sylvain Takoué, Presidente di ChinaAfrica International, sostiene a ragione che “ciò che è sorprendente e divertente allo stesso tempo è vedere che le potenze a cui vi riferite sono esse stesse sorprese nel vedere un cambiamento della situazione che le oltrepassa. Perché un’altra realtà strategica sta emergendo e apparendo davanti ai loro occhi. Mentre queste potenze avevano abituato il mondo a creare precarietà economica per perseguire i loro interessi in Africa – comportandosi, così, come se il continente fosse loro proprietà nutritiva e potessero, di conseguenza, fare esattamente ciò che volevano – un gigante globale sta arrivando e propone all’Africa qualcosa di molto diverso: una comunità di intenti con il continente, uno sviluppo congiunto, uno sviluppo condiviso, un partenariato win-win, rispetto del diritto internazionale ed equità. Il gigante che sta arrivando per aiutare l’Africa a svegliarsi e a rimettersi in piedi è la Cina[8].

Si può, dunque, affermare che si stia concretizzando quello scenario delineato – e scongiurato – da Zbigniew Brzezinzki a metà degli anni Settanta quando il pensatore statunitense scriveva che “il mondo appare ostile [agli Stati Uniti] non già perché si proclami tale, anche se alcune parti di esso lo fanno esplicitamente, ma perché ciò che sta avvenendo nel mondo sembra in netto contrasto con le aspettative e i valori americani. Le politiche globali stanno diventando egualitarie piuttosto che libertarie, con richieste da parte delle masse più politicizzate, centrate in modo predominante sull’eguaglianza materiale piuttosto che sulla libertà spirituale o giuridica. Inoltre, la distribuzione globale del potere comincia a favorire quei sistemi politici che si discostano filosoficamente, culturalmente, etnicamente e razzialmente dalla tradizione americana, e d’altra parte il processo di redistribuzione del potere sta minacciando nuove forme di violenza. Tutto questo in America provoca incertezza circa la reale natura della spinta al cambiamento globale e, in molte parti del mondo, crea la sensazione che l’America sia contraria ad un cambiamento globale[9]”.

Brzezinzki pubblicava l’articolo contenente questo passaggio sulla rivista Foreign Policy dell’estate del 1976 e quella sensazione descritta nel finale di quanto riportato oggi è una realtà consolidata delle dinamiche tra Stati: la Storia non è finita come teorizzato dallo scienziato politico Francis Fukuyama, ma, anzi, Russia, Cina, i Paesi del BRICS insieme agli Stati del Sud del mondo sono in movimento, così come lo sono gli Stati del continente africano, così come le loro economie – alcune delle quali in forte ascesa – tanto da essere annoverati tra quelle regioni a più rapida crescita dell’intero globo. Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’Africa rappresenta il più ampio blocco all’interno dell’Assemblea delle Nazioni Unite (il 28% dei voti rispetto al 27% dell’Asia, al 17% delle Americhe e al 15% dell’Europa occidentale), detiene anche più di un quarto dei voti in tutti gli organi di governo delle Nazioni Unite ed è il blocco più grande in altre agenzie come, ad esempio, l’Organizzazione mondiale del commercio, il Gruppo dei 77 e il Movimento dei non allineati; non deve, allora, sorprendere se in tale scenario, l’Africa diventa pivotnell’impegno di costruire un’architettura alternativa del sistema globale che abbandoni l’ordine internazionale unipolare basato sulle regole, ma,di fatto, un ordine dittatoriale, un ordine internazionale mafioso[10] e di impostazione anglosassone e guardi, invece, al multipolarismo ed all’ordine basato sul diritto internazionale, basato su principi completamente diversi e – per dirla con le parole di Dimitri Peskov, portavoce del Cremlino – che si fondi sul rispetto e sul vantaggio reciproci, sulla non interferenza negli affari interni degli altri, e così via[11].

Nel tentativo di lasciarsi definitivamente alle spalle il passato coloniale insieme a tutte le ferite che ha comportato, l’Africa assume oggi un ruolo fondamentale nella creazione di un mondo multipolare che promette benefici comuni e solidarietà; un ruolo che passa anche attraverso i suoi profondi legami con la Cina: con la partecipazione attiva dell’Africa alla Belt and Road Initiative (BRI) promossa nel 2013 da Xi Jinping, che è anche una reazione di Pechino ai principi di azione geopolitica statunitense volti al contenimento della Cina in tutto il globo, non si può negare che la Cina stia sconfiggendo questa stessa politica di contenimento, aumentando la fiducia nei confronti della Repubblica Popolare Cinese – vista con sempre più favore dai Governi e dai popolì africani e non solo – e facilitando, inoltre, lo sviluppo di relazioni di mutuo vantaggio secondo una logica win-win del tutto ignota al modus operandi occidentale. Non è un caso, quindi, se oggi, la Cina è il più grande investitore straniero in Africa, con un commercio bilaterale che ha raggiunto i 254 miliardi di dollari nel 2021 e i 282 miliardi di dollari nel 2022. L’Africa sta quindi beneficiando dei suoi legami commerciali con la Cina visto che le esportazioni cinesi verso Africa sono state di 165 miliardi di dollari, mentre Pechino ha importato merci dall’Africa per un valore di 117 miliardi di dollari; sebbene la bilancia commerciale sia a favore del colosso asiatico, la Cina ha già consentito a decine di nazioni africane di iniziare a esportare alcune merci esentasse e mira ad aumentare le importazioni africane al livello di 300 miliardi di dollari già entro il 2025.

In questo quadro è chiaro che la cooperazione tra Pechino e l’Africa stia abbracciando un periodo di significative opportunità e sviluppo, non soltanto in termini economici. In linea generale, si può affermare che la cooperazione tra la Repubblica Popolare Cinese e il continente africano si fonda sul combinato delle formule sud-sud e win-win che si dispiegano in un rapporto di reciproco scambio e mutuo vantaggio nelle relazioni tra Paesi in via di sviluppo tra cui la Cina si pone come faro che indica il cammino verso un futuro costituito su nuove basi; un supporto che la Cina offre ad un vasto assortimento di Paesi africani, dal piccolo al grande, da quelli ricchi di risorse a quelli poveri, da quelli con redditi nazionali più alti a quelli con fondamentali economici più deboli.

La Cina ha saputo meglio di chiunque altro interpretare, abbracciare e assecondare la volontà di trasformazione, cambiamento e sviluppo di un continente come quello africano il cui modello economico sta evolvendo e modificandosi, liberando l’enorme potenziale – non soltanto in materia di risorse energetiche di cui l’Africa è ricca – di cui dispone passando anche attraverso una sfida all’instabilità regionale e la crescita di una rete infrastrutturale, nel complesso, storicamente sottosviluppata. Il mondo comincia a sentire soffiare con intensità il respiro dell’Africa libera.

Nonostante la retorica occidentale – fallace – incardinata sul concetto di neo-colonialismo cinesespinga a ritenere il rapporto tra la Repubblica Popolare Cinese e l’Africa come una infatuazione dei tempi recenti dovuta, soprattutto, all’interesse di Pechino di mettere le mani sulle risorse africane, le relazioni di collaborazione e cooperazione tra la Cina e gli Stati Africani hanno radici lontane e più profonde di quanto si possa ritenere: la presenza cinese nel continente africano, infatti, ha una storia millenaria che oggi Pechino vuole tornare a raccontarecosì come scrive Alessandra Colarizi che prosegue dicendo che “laddove le potenze occidentali hanno dominato dalla spartizione africana, cominciata nel 1880, fino alla metà del Novecento, la leadership comunista rivendica una specie di ius primae noctis. Circa un secolo prima che Colombo scoprisse l’America, mastodontiche spedizioni navali salparono dalla Cina meridionale alla volta dell’Africa”[12].

Nonostante il notevole interesse che suscita il ripercorrere la storia delle relazioni tra la Cina e l’Africa in tutte le sue fasi storiche, per ragioni di spazio, il nostro interesse si focalizzerà su ciò che è acceduto dopo il 1 ottobre 1949, data dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese seguita alla vittoria riportata dai comunisti di Mao Zedong sui nazionalisti di Chiang Kai-shek nella guerra civile. All’epoca, il Partito Comunista Cinese si muoveva ancora nell’orbita sovietica e “la strategia estera e le politiche economiche di Mosca ebbero un’influenza determinante nella fase di consolidamento del potere, dopo la sconfitta dei nazionalisti. Nei primi anni della sua esistenza, la Repubblica Popolare apparve sulla scena mondiale se non come un satellite dell’Unione Sovietica, certamente come il suo principale alleato. Ma l’emergere di divergenze ideologiche rese presto necessario il perseguimento di un’autonomia strategica. Verso la fine degli anni Cinquanta, quando la rottura con l’Unione Sovietica era ormai prossima, Mao scorse nelle vittime dell’imperialismo gli alleati naturali contro le potenze occidentali e il mondo capitalistico per ottenere legittimità a livello internazionale dopo la chiusura del decennio precedente. La Cina, che nell’Ottocento aveva sperimentato a sua volta l’occupazione straniera e l’umiliante imposizione dei trattati ineguali, sapeva bene come fare leva sulle sofferenze comuni[13].

Nell’aprile del 1955 sull’isola di Giava, Indonesia, si tenne la Conferenza di Bandung promossa e convocata dall’allora Presidente indonesiano Kusno Sosrodihardjo con il coordinamento di Ruslan Abdulgani, Ministro degli Esteri, che vide la partecipazione di ventitré Stati asiatici, tra cui la giovane Repubblica Popolare Cinese rappresentata da una delegazione con a capo il Ministro degli Esteri Chou En Lai, e sei africani – Egitto, Etiopia, Ghana, Liberia, Libia e Sudan; come ebbe bene a raccontare Doak Barnett in una corrispondenza da Giacarta del 4 maggio 1955, “per una settimana, dal 18 aprile fino al 24, la bellissima città montana situata sulla parte occidentale dell’isola di Giava, Bandung, è stata, nelle parole di Nehru[14], la capitale dell’Asia e dell’Africa. […] I principali denominatori della maggioranza delle Nazioni presenti alla Conferenza erano: il desiderio di avere maggior voce in capitolo negli affari mondiali, l’opposizione al colonialismo e il supporto all’autodeterminazione di tutti i popoli, la condanna dell’idea della supremazia bianca ela richiesta di una equità razziale, il desiderio di sviluppo economico per recuperare il ritardo rispetto al resto del mondo e una speranza di pace”[15].

La Conferenza non fece altro che affermare sulla scena internazionale un blocco di Paesi non allineati che si muovevano e guardavano al mondo in netta opposizione alla divisione in blocchi della Guerra fredda, alle logiche di (neo)colonialismo. Uno dei fatti più rilevanti della Conferenza di Bandung fu l’emergere prorompente della Cina: anche se durante la Conferenza di Ginevra – tenutasi l’anno precedente – Pechino era uscita dal proprio isolamento diplomatico ed aveva cominciato a tessere una nuova rete di rapporti con i Paesi (soprattutto) asiatici, l’evento dell’isola di Giava offrì l’occasione a Zhou En Lai di utilizzare tutta la sua abilità diplomatica per conquistare nuovi favori e influenza per il suo Paese. Zhou En Lai aprì il suo discorso dicendo che “è la prima volta nella storia che così tanti Paesi dell’Asia e dell’Africa si riuniscono per tenere una conferenza. In questi due continenti vive più della metà della popolazione mondiale. I popoli dell’Asia e dell’Africa hanno creato antiche e brillanti civiltà e hanno dato un enorme contributo all’umanità. Tuttavia, fin dai tempi moderni, la maggior parte dei Paesi dell’Asia e dell’Africa è stata sottoposta, in varia misura, al saccheggio e all’oppressione coloniale ed è stata, quindi, costretta a rimanere in uno stato stagnante di povertà e arretratezza. Le nostre voci sono state soppresse, le nostre aspirazioni infrante e il nostro destino è stato messo nelle mani di altri. Non abbiamo quindi altra scelta che sollevarci contro il colonialismo. Soffrendo per la stessa causa e lottando per lo stesso obiettivo, noi popoli asiatici e africani abbiamo trovato più facile comprenderci a vicenda e da tempo nutriamo profonda simpatia e preoccupazione l’uno per l’altro. […] Le potenze coloniali non possono più utilizzare i metodi del passato per continuare il loro saccheggio e la loro oppressione. L’Asia e l’Africa di oggi non sono più quelle di ieri. Molti Paesi di questa regione hanno preso in mano il proprio destino dopo lunghi anni di sforzi. La nostra stessa Conferenza riflette questo profondo cambiamento storico”[16].

Il desiderio comune dei Paesi dei due continenti convenuti a Bandung non poteva essere altro che quello di salvaguardare la pace nel mondo, di conquistare e conservare l’indipendenza nazionale e, di conseguenza, di promuovere una cooperazione amichevole tra le nazioni.

L’analisi di Zhou En Lai fu lucida, puntuale: “la maggior parte dei Paesi asiatici e africani, compresa la Cina, sono ancora molto arretrati dal punto di vista economico a causa del lungo periodo di dominazione coloniale. Per questo motivo chiediamo non solo l’indipendenza politica, ma anche quella economica. Naturalmente, la nostra richiesta di indipendenza politica non significa una politica di esclusione nei confronti dei Paesi al di fuori della regione asiatico-africana. Tuttavia, i giorni in cui le potenze occidentali controllavano il nostro destino sono già passati. Il destino dei Paesi asiatici e africani deve essere preso nelle mani dei popoli stessi. Ci sforziamo di realizzare la nostra indipendenza economica, e questo non significa rifiutare la cooperazione economica con qualsiasi Paese al di fuori della regione asiatico-africana. Vogliamo però eliminare lo sfruttamento dei Paesi arretrati dell’Est da parte delle potenze coloniali dell’Ovest e sviluppare l’economia indipendente e sovrana dei nostri Paesi. La completa indipendenza è un obiettivo per il quale la grande maggioranza dei Paesi asiatici e africani dovrà lottare a lungo.

[…] I Paesi asiatici e africani, opponendosi al colonialismo e difendendo l’indipendenza nazionale, fanno tesoro dei propri diritti nazionali. I Paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, dovrebbero tutti godere di uguali diritti nelle relazioni internazionali. La loro integrità territoriale e la loro sovranità devono essere rispettate e non violate. I popoli di tutti i Paesi dipendenti dovrebbero godere del diritto all’autodeterminazione nazionale e non dovrebbero essere sottoposti a persecuzioni e massacri.[…] Si può dire che ora il desiderio comune dei Paesi e dei popoli risvegliati dell’Asia e dell’Africa è quello di opporsi alla discriminazione razziale e di chiedere i diritti umani fondamentali, di opporsi al colonialismo e di chiedere l’indipendenza nazionale, di difendere fermamente la propria integrità territoriale e la propria sovranità”.

Per il capo-delegazione della Repubblica Popolare Cinese, la pace si poteva salvaguardare soltanto “dal rispetto reciproco dell’integrità territoriale e della sovranità dell’altro. L’invasione della sovranità e del territorio di qualsiasi Paese e l’interferenza negli affari interni di qualsiasi Paese metteranno inevitabilmente in pericolo la pace. Se le nazioni si impegnano a non commettere aggressioni reciproche, nelle relazioni internazionali si creeranno le condizioni per una coesistenza pacifica. Se le nazioni si impegnano a non interferire negli affari interni degli altri Paesi, sarà possibile per la popolazione di questi ultimi scegliere il proprio sistema politico e il proprio stile di vita secondo la propria volontà. Gli accordi sul ripristino della pace in Indocina sono stati raggiunti alla Conferenza di Ginevra proprio sulla base dell’assicurazione delle parti interessate di rispettare l’indipendenza, la sovranità, l’unità e l’integrità territoriale degli Stati indocinesi e di non interferire in alcun modo negli affari interni di questi Stati”.

Il passaggio centrale del discorso di Zhou alla Conferenza Asia – Africa è senza ombra di dubbio il seguente, quello in cui vengono individuati e proposti all’assemblea plenaria i cinque principi della coesistenza pacifica: “Seguendo i principi del rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale, della non aggressione, della non ingerenza negli affari interni dell’altro, dell’uguaglianza e del mutuo beneficio, si può realizzare la coesistenza pacifica di Paesi con sistemi sociali diversi. Quando si garantisce l’attuazione di questi principi, non c’è motivo per cui le controversie internazionali non possano essere risolte attraverso i negoziati”.

Mutuo rispetto della sovranità e integrità territoriale; regola fondamentale di non-aggressione, principio di non-interferenza negli affari interni degli altri Paesi; mantenimento di uno stato di uguaglianza e cooperazione per un vantaggio comune; stato di coesistenza pacifica tra Paesi.

Sono questi i principi sanciti nel lontano 1955 in Indonesia a guidare tutt’oggi la politica estera della Repubblica Popolare Cinese: si può, dunque, affermare senza timori di smentita che si introdussero in quell’occasione le condizioni di base per il successivo sviluppo della cooperazione sud-sud[17] che, nel tempo, si è saputo ampliare e rinnovare seguendo sempre lo spirito di Bandung che, dopo quasi settanta anni, ha saputo porsi alla base della visione dell’organizzazione di un nuovo ordine multipolare, cooperativo e sostenibile. 

Il primo Paese africano a stringere relazioni ufficiali a livello bilaterale con Pechino sarà l’Egitto di Gamāl ʿAbd al-Nāṣir Ḥusayn – in rotta di collisione con i poteri occidentali dopo l’occupazione militare da parte di Regno Unito, Francia, Israele del Canale di Suez – seguito tra il 1958 e il 1959 da Marocco, Algeria, Sudan e Guinea. Sin dagli anni Sessanta, la solidarietà con i popoli africani e la volontà di consolidare ed estendere la cooperazione sino-africana divennero le componenti fondanti della politica estera cinese nei confronti del continente africano che si attuò per mezzo di due canali: il primo, tramite il sostegno alla lotta africana contro il colonialismo[18]; il secondo, la promozione e il finanziamento sul territorio africano di molteplici strutture dal valore altamente simbolico tanto che Li Anshan, professore presso la Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Pechino e direttore associato della Società cinese per lo studio della storia africana, ebbe a scrivere sulla rivista China Security che questo fu “un periodo in cui la Cina ha anche aiutato i Paesi africani a costruire una serie di strutture di riferimento (ad esempio stadi, ospedali, centri congressi) – progetti che erano più che semplici costruzioni di mattoni e malta – che erano simboli nazionali di indipendenza e incarnavano lo spirito della decolonizzazione culturale. Questi progetti sostenuti dalla Cina hanno svolto un ruolo importante nella formazione della nazione africana. Nonostante i costi economici molto elevati, questi progetti hanno fatto sì che la Cina cercasse nell’Africa un alleato nelle sue lotte contro l’imperialismo e l’egemonia”[19].

Il decennio vide una intensificazione dell’attività diplomatica e di promozione culturale della Cina nel continente africano (e viceversa) che culminò con la prima visita di un rappresentante della Repubblica Popolare Cinese in Africa: tra il dicembre 1963 ed il febbraio 1964, il Primo ministro Zhou En Lai si recò in visita in dieci Paesi africani[20], in quello che è passato alle cronache giornalistiche come Safari eche segnò l’ingresso ufficiale della Cina in Africa, evento sapientemente organizzato anche a livello mediatico per avere ampia copertura e risalto sulla ribalta internazionale, che proiettava il soft power cinese nel mondo e – al mondo stesso – ribadiva il forte interesse cinese per le sorti del continente africano; qui, la politica estera richiedeva sia il carisma sia l’abilità diplomatica di Zhou che una calibrata miscela di tre elementi principali: politici, internazionali e culturali. Senza l’elemento economico – un’area chiave di interesse per i Paesi africani – questi richiedevano un impegno personale diretto e, quindi, fu Zhou a recarsi in Africa con il sogno di Mao di una rivoluzione contadina nei Paesi africani. È in questa fase storica, stabilizzata la situazione interna, che a Pechino si comincia a pensare di curare la propria immagine internazionale, puntando su operazioni di soft power che le permettessero di guadagnare consenso grazie all’appeal culturale e valoriale; così, la politica cinese per l’Africa è stata attuata attraverso una serie di strumenti formali e informali di politica estera. Tra gli strumenti formali, venivano privilegiati le relazioni bilaterali tra Stati e gli accordi in vari settori che hanno contribuito al successo dell’espansione dell’influenza cinese.

“La strategia messa in atto dal Primo Ministro cinese consisté nel visitare i Paesi africani che avevano già delle relazioni diplomatiche con Pechino – in un momento storico del tutto peculiare in cui il continente africano si liberava dalle forze coloniali – con l’obiettivo di allargare l’influenza cinese alle Nazioni recentemente indipendenti e di stringere relazioni con i leader moderati al fine di garantire il riconoscimento diplomatico da un numero crescente di Stati alla Repubblica Popolare Cinese al posto dell’appoggio al Governo nazionalista rifugiatosi nella provincia di Taiwan, attraverso un approccio più assertivo al continente; nell’idea di Zhou En Lai, questo viaggio avrebbe dovuto preparare le basi per una seconda Conferenza, prevista per il 1965 in Algeria, a 10 anni dal primo noto incontro tenutosi in Indonesia, durante il quale emerse un interesse, da parte della Cina, di ergersi come leader del mondo in via di sviluppo”[21].Zhou si mosse – riadattandoli al contesto specifico africano – secondo quei dettami dei Cinque principi di coesistenza pacifica proclamati dal palco di Bandung nel 1955 salutati e celebrati, poi, dall’ex premier Wen Jiabao in occasione del cinquantesimo anniversario dell’elaborazione come principi che “in primo luogo, forniscono una serie di linee guida corrette per l’istituzione e lo sviluppo di relazioni tra Paesi con sistemi sociali simili o diversi. In secondo luogo, indicano un modo efficace per affrontare pacificamente le questioni lasciate in sospeso dalla storia tra Paesi o da altre controversie internazionali. In terzo luogo, proteggono con forza gli interessi dei Paesi in via di sviluppo e favoriscono il miglioramento e l’espansione delle relazioni Nord-Sud. Quarto, hanno fornitoun’importante base filosofica per l’istituzione di un nuovo ordine politico ed economico internazionale giusto e razionale”[22].

La volontà di costruire nuove relazioni bilaterali con l’Africa attraverso la cooperazione economica e l’aiuto allo sviluppo venne confermata dagli Otto principi di aiuto economico e tecnico annunciati dallo stesso Zhou in un discorso pubblico tenuto in Ghana il 15 gennaio 1964 con il quale furono delineate le linee guida per gli aiuti esteri cinesi negli anni da lì a venire: assistenza medica, programmi educativi e investimenti infrastrutturali. Gli otto principi erano quelli di beneficio reciproco, rispetto della sovranità nazionale, bassi tassi di interesse, trasferimento di tecnologia, effetti immediati, alta qualità e un’equiparazione delle condizioni di vita degli esperti cinesi inviati sul territorio agli standard della popolazione locale[23].

Utile è dare una lettura completa ai principi proclamati da Zhou En Lai in Ghana: “1. Il Governo cinese si basa sempre sul principio di uguaglianza e di mutuo vantaggio nel fornire aiuti ad altri Paesi. Non considera mai tali aiuti come una sorta di elemosina unilaterale, ma come qualcosa di reciproco; 2. Nel fornire aiuti ad altri Paesi, il Governo cinese rispetta rigorosamente la sovranità dei Paesi beneficiari e non pone mai condizioni o chiede privilegi; 3. La Cina fornisce aiuti economici sotto forma di prestiti senza interessi o a basso tasso di interesse e, quando necessario, estende il termine di rimborso in modo da alleggerire il più possibile l’onere dei Paesi beneficiari; 4. Nel fornire aiuti ad altri Paesi, lo scopo del Governo cinese non è quello di rendere i Paesi beneficiari dipendenti dalla Cina, ma di aiutarli a intraprendere passo dopo passo la strada dell’autosufficienza e dello sviluppo economico indipendente; 5. Il Governo cinese fa del suo meglio per aiutare i Paesi beneficiari a costruire progetti che richiedano meno investimenti e che diano risultati più rapidi, in modo che i governi beneficiari possano aumentare le loro entrate e accumulare capitale; 6. Il Governo cinese fornisce attrezzature e materiali di propria produzione della migliore qualità a prezzi di mercato internazionali. Se le attrezzature e i materiali forniti dal Governo cinese non sono conformi alle specifiche e alla qualità concordate, il Governo cinese si impegna a sostituirli; 7. Nel fornire qualsiasi assistenza tecnica, il Governo cinese farà in modo che il personale del Paese beneficiario padroneggi pienamente tale tecnica; 8. Gli esperti inviati dalla Cina per aiutare nella costruzione nei Paesi beneficiari avranno lo stesso tenore di vita degli esperti del Paese beneficiario. Agli esperti cinesi non è consentito avanzare richieste particolari o godere di particolari agevolazioni”[24].

Come afferma Young-Chan Kim – professore presso la britannica Greenwich University – “la cooperazione economica deve promuovere l’autosufficienza e non la dipendenza; il rispetto per la sovranità del Paese ricevente non deve comportare l’imposizione di condizioni politiche o economiche ai governi riceventi. Questi principi sono alla base dell’attuale enfasi della Cina sulle relazioni amichevoli, prive di condizioni politiche o di interferenze negli affari interni dei Paesi africani”[25]. A questo si aggiunge il pensiero di Alessandra Colarizi la quale scrive che soltanto nel 1964 Pechino firmò accordi commerciali con sei Paesi africani per una quota pari al 53% dei prestiti accordati al continente; “le condizioni ricordano quelle attuali: interessi zero, fornitura completa di equipaggiamento e know-how, ripianamento del debito sul lungo periodo attraverso le esportazioni di materie prime. No strings attached: nessun compromesso politico in cambio. L’esatto opposto di quanto previsto dai grandi istituti internazionali controllati dalle democrazie occidentali – Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale in primis”[26].

Nessuna dinamica neo-colonialista come vorrebbe l’Occidente collettivo, quindi, piuttosto la concretizzazione della formula the poor helping the poor: sta tutta quila volontà di Pechino di approcciare agli affari africani ponendosi in una posizione di equità e di collaborazione con il fine ultimo di aiutare i Paesi e le popolazioni dell’Africa a realizzarsi attraverso l’espressione piena delle proprie possibilità e non in una qualche nuova forma di tossica dipendenza da un altro soggetto internazionale; così, negli anni Sessanta, lo scambio diplomatico della Cina con l’Africa ha beneficiato del fiorire di Stati indipendenti a sud del Sahara, con il risultato che la Repubblica Popolare Cinese è stata riconosciuta da 14 nuovi Stati africani tra il 1960 e il 1965. Oggi come allora, i legami ufficiali con la Cina si articolano in quattro categorie principali: trattati di amicizia basati sui Cinque principi della coesistenza pacifica, volti a promuovere principalmente la solidarietà e a sollecitare lo sviluppo di relazioni economiche e culturali; patti culturali per sostenere lo scambio di studenti, educatori, giornalisti; accordi commerciali e di pagamento volti a promuovere le relazioni commerciali e, infine, accordi di aiuto economico e di assistenza tecnica attraverso i quali la Cina ha fornito assistenza finanziaria e know-how in molti settori diversi (principalmente la coltivazione del tè, del riso e l’assistenza sanitaria).[27]

Il 22 ottobre 1972, nel corso di un intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’allora Ministro degli Esteri cinese Huang Hua delineò la posizione del proprio Paese in relazione all’Africa australe. Scrive Ian Taylor che “il discorso è stato notevole perché Huang ha in un certo senso ripreso le parole pronunciate da Zhou En Lai nel 1964 durante il suo tour in Africa. Huang affermò che la situazione attuale [era] eccellente per la lotta contro il colonialismo e il neo-colonialismo. Huang ribadì il concetto che c’era nel mondo una grande tendenza, [vale a dire] che la liberazione nazionale e la rivoluzione fossero all’ordine del giorno dei popoli. Huang ha anche sviluppato ulteriormente il concetto di fronte unito sempre più ampio contro il colonialismo che i popoli del mondo stavano formando (New China News Agency, 22.10.1972). Secondo Huang, è molto importante che i popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina simpatizzino e si sostengano a vicenda e rafforzino la loro unità nella lotta. Tuttavia, Huang ha tenuto ad affermare che ogni futura organizzazione di liberazione nazionale dovrebbe fare affidamento sui propri sforzi e prendere l’aiuto straniero come ausiliario. Non si dovrebbe mai fare affidamento su altri per porre fine al dominio coloniale. Questa teoria rappresentava una progressione rispetto alle idee avanzate nel 1964: […] la Cina stava ora schierando il mondo intero contro le due Superpotenze. Pechino iniziò così a sviluppare una strategia che prevedeva l’utilizzo dei movimenti di liberazione nazionale dei Paesi in via di sviluppo e dei Paesi sviluppati esistenti nella lotta contro l’egemonia delle Superpotenze. Nell’ambito di questa politica, la Cina iniziò a incoraggiare i legami tra i Paesi in via di sviluppo e il mondo industrializzato”[28].

Questa linea di azione prevedeva di instaurare quanti più rapporti tra i Paesi industrializzati e quelli del Terzo Mondo ed è per questo motivo che Pechino mise in campo tutte le forze a sua disposizione perché gli Stati africani venissero inseriti nel consesso di una serie di organizzazioni internazionali che promuovessero il dialogo tra i Paesi in via di sviluppo e il mondo industrializzato. Va sempre ricordato che la Cina è il primo Paese annoverato tra quelli in via di sviluppo a promuovere ed attuare un programma di aiuti destinato all’estero, tanto che – a metà degli anni Settanta – Pechino aveva preso impegni ufficiali con 45 Paesi nel mondo, 29 dei quali africani, con i Paesi in via di sviluppo che venivano osservati con uno sguardo privilegiato.

A testimonianza di ciò, basta leggere il testo del discorso tenuto il 10 aprile del 1974 dal Capo della delegazione della Repubblica Popolare Cinese, Deng Xiaoping, alla sessione speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite convocata per discutere sui problemi relativi alle materie prime e allo sviluppo, su proposta del Presidente Houari Boumediene del Consiglio della Rivoluzione della Repubblica Democratica Popolare di Algeria e con il sostegno della grande maggioranza dei Paesi del mondo. Per bocca del futuro Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Pechino si congratulò “vivamente per la convocazione di questa sessione e spera che essa contribuisca positivamente a rafforzare l’unità dei Paesi in via di sviluppo, a salvaguardare i loro diritti e interessi economici nazionali e a promuovere la lotta di tutti i popoli contro l’imperialismo, e in particolare contro l’egemonismo. Attualmente la situazione internazionale è molto favorevole aiPaesi in via di sviluppo e ai popoli del mondo. Il vecchio ordine basato sul colonialismo, sull’imperialismo e sull’egemonismo viene sempre più minato e scosso nelle sue fondamenta. Le relazioni internazionali stanno cambiando drasticamente. Il mondo intero è in preda a turbolenze e disordini. La situazione è di grande disordine sotto il cielo, come diciamo noi cinesi. Questo disordine è una manifestazione dell’acuirsi di tutte le contraddizioni fondamentali del mondo contemporaneo. Sta accelerando la disintegrazione e il declino delle forze reazionarie decadenti e stimola il risveglio e la crescita delle nuove forze emergenti del popolo. In questa situazione di grande disordine sotto il cielo, tutte le forze politiche del mondo hanno subito una drastica divisione e un riallineamento attraverso prolungate prove di forza e di lotta. Un gran numero di Paesi asiatici, africani e latinoamericani hanno raggiunto l’indipendenza uno dopo l’altro e stanno giocando un ruolo sempre più importante negli affari internazionali. In seguito all’emergere del social-imperialismo, il campo socialista che è esistito per un certo periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale non esiste più. Per la legge dello sviluppo ineguale del capitalismo, anche il blocco imperialista occidentale si sta disintegrando”.

Fermi, dunque, i presupposti dell’azione di politica estera cari a Zhou En Lai, Deng riprese la formulazione della teoria dei Tre Mondi avanzata da Mao Zedong nel 1958, adattandola ai tempi correnti; il sistema mondiale si basava fu un finto bipolarismo poiché il mondo, in realtà, era diviso in tre: “A giudicare dai cambiamenti nelle relazioni internazionali, il mondo di oggi è in realtà composto da tre parti, o tre mondi, interconnessi e in contraddizione tra loro. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica costituiscono il Primo Mondo. I Paesi in via di sviluppo in Asia, Africa, America Latina e altre regioni costituiscono il Terzo Mondo. I Paesi sviluppati tra i due costituiscono il Secondo Mondo. Le due superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, sono alla vana ricerca dell’egemonia mondiale. Ciascuna di esse tenta a suo modo di porre sotto il proprio controllo i Paesi in via di sviluppo dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina e, allo stesso tempo, di intimorire i Paesi sviluppati che non sono alla loro altezza. Le due superpotenze sono i maggiori sfruttatori e oppressori internazionali di oggi. Il caso dei Paesi sviluppati che si collocano tra le superpotenze e i Paesi in via di sviluppo è complicato. Alcuni di essi mantengono ancora relazioni colonialiste, in una forma o nell’altra, con i Paesi del Terzo Mondo, e un Paese come il Portogallo continua addirittura il suo barbaro dominio coloniale. È necessario porre fine a questo stato di cose. Allo stesso tempo, tutti questi Paesi sviluppati sono in varia misura controllati, minacciati o vessati da una superpotenza o dall’altra. Alcuni di essi sono stati di fatto ridotti da una superpotenza alla posizione di dipendenza sotto l’insegna della sua cosiddetta famiglia. In varia misura, tutti questi Paesi hanno il desiderio di liberarsi dalla schiavitù o dal controllo della superpotenza e di salvaguardare la propria indipendenza nazionale e l’integrità della propria sovranità. I numerosi Paesi in via di sviluppo hanno sofferto a lungo dell’oppressione e dello sfruttamento colonialista e imperialista. Hanno conquistato l’indipendenza politica, ma tutti devono ancora affrontare il compito storico di eliminare le forze residue del colonialismo, sviluppare l’economia nazionale e consolidare l’indipendenza nazionale. Questi Paesi coprono vasti territori, comprendono un’ampia popolazione e abbondano di risorse naturali. Avendo subito l’oppressione più pesante, hanno il desiderio più forte di opporsi all’oppressione e di cercare la liberazione e lo sviluppo”[29].

Continuava Deng inquadrando i problemi dei Paesi in via di sviluppo di America Latina, Asia e Africa: “l’essenza dei problemi delle materie prime e dello sviluppo è la lotta dei Paesi in via di sviluppo per difendere la loro sovranità statale, sviluppare la loro economia nazionale e combattere il saccheggio e il controllo imperialista, in particolare della superpotenza. Questo è un aspetto molto importante dell’attuale lotta dei Paesi e dei popoli del Terzo Mondo contro il colonialismo, l’imperialismo e l’egemonismo. Come tutti sappiamo, negli ultimi secoli il colonialismo e l’imperialismo hanno schiavizzato e saccheggiato senza scrupoli i popoli di Asia, Africa e America Latina. Sfruttando la manodopera a basso costo delle popolazioni locali e le loro ricche risorsenaturali e imponendo un’economia sbilanciata e mono-prodotto, hanno estorto super-profitti accaparrandosi prodotti agricoli e minerari a basso prezzo, scaricando i loro prodotti industriali, strangolando le industrie nazionali e portando avanti uno scambio di valori ineguale. La ricchezza dei Paesi sviluppati e la povertà di quelli in via di sviluppo sono il risultato della politica di saccheggio colonialista e imperialista. In molti Paesi asiatici, africani e latinoamericani che hanno conquistato l’indipendenza politica, le linee di vita economiche sono ancora controllate in varia misura dal colonialismo e dall’imperialismo e la vecchia struttura economica non è cambiata in modo sostanziale. Gli imperialisti, e in particolare le superpotenze, hanno adottato metodi neocolonialisti per continuare e intensificare lo sfruttamento e il saccheggio dei Paesi in via di sviluppo. Esportano capitali nei Paesi in via di sviluppo e vi costruiscono uno Stato nello Stato per mezzo di organizzazioni monopolistiche internazionali come le imprese transnazionali, per portare avanti il saccheggio economico e l’ingerenza politica. Approfittando della loro posizione di monopolio sui mercati internazionali, raccolgono favolosi profitti aumentando i prezzi all’esportazione dei propri prodotti e costringendo al ribasso quelli delle materie prime provenienti dai Paesi in via di sviluppo. Inoltre, con l’aggravarsi della crisi politica ed economica del capitalismo e l’acuirsi della loro reciproca competizione, stanno ulteriormente intensificando il loro saccheggio dei Paesi in via di sviluppo, scaricando su questi ultimi le crisi economiche e monetarie. […] Il saccheggio e lo sfruttamento da parte del colonialismo, dell’imperialismo e in particolare delle superpotenze rendono i Paesi poveri più poveri e i Paesi ricchi più ricchi, aumentando ulteriormente il divario tra i due. L’imperialismo è il più grande ostacolo alla liberazione dei Paesi in via di sviluppo e al loro progresso. È assolutamente giusto e opportuno che i Paesi in via di sviluppo pongano fine al monopolio economico e al saccheggio imperialista, eliminino questi ostacoli e prendano tutte le misure necessarie per proteggere le loro risorse economiche e altri diritti e interessi. Le azioni dell’imperialismo, e in particolare delle superpotenze, non possono in alcun modo ostacolare l’avanzata trionfale dei Paesi in via di sviluppo sulla strada della liberazione economica […]. Signor Presidente, riteniamo che la salvaguardia dell’indipendenza politica sia il primo prerequisito per lo sviluppo economico di un Paese del Terzo Mondo. Con il raggiungimento dell’indipendenza politica, il popolo di un Paese ha fatto solo il primo passo e deve procedere al consolidamento di questa indipendenza, perché in patria esistono ancora forze residue del colonialismo e c’è ancora il pericolo di sovversione e di aggressione da parte dell’imperialismo e dell’egemonismo. Il consolidamento dell’indipendenza politica è necessariamente un processo di lotte ripetute. In ultima analisi, l’indipendenza politica e l’indipendenza economica sono inseparabili. Senza indipendenza politica, è impossibile raggiungere l’indipendenza economica; senza indipendenza economica, l’indipendenza di un Paese è incompleta e insicura”.

Per Deng Xiaoping, il raggiungimento di una piena autosufficienza era la chiave del successo dei Paesi in via di sviluppo, declinata secondo i dettami degli Otto Principi di aiuto economico e tecnico enunciati da Zhou En Lai in Ghana: “Per autosufficienza intendiamo che un Paese dovrebbe affidarsi principalmente alla forza e alla saggezza del proprio popolo, controllare le proprie linee di vita economiche, fare pieno uso delle proprie risorse, impegnarsi a fondo per aumentare la produzione alimentare e sviluppare l’economia nazionale passo dopo passo e in modo pianificato. La politica dell’indipendenza e dell’autosufficienza non significa in alcun modo che debba essere avulsa dalle condizioni reali di un Paese; al contrario, richiede che si faccia una distinzione tra le diverse circostanze e che ogni Paese elabori il proprio modo di praticare l’autosufficienza alla luce delle proprie condizioni specifiche. Allo stato attuale, un Paese in via di sviluppo che voglia sviluppare la propria economia nazionale deve innanzitutto mantenere le proprie risorse naturali nelle proprie mani e sottrarsi gradualmente al controllo del capitale straniero. In molti Paesi in via di sviluppo, la produzione di materie prime rappresenta una parte considerevole dell’economia nazionale. Se riusciranno a prendere in mano la produzione, l’uso, la vendita, l’immagazzinamento e il trasporto delle materie prime e a venderle a prezzi ragionevoli sulla base di relazioni commerciali eque in cambio di una maggiore quantità di beni necessari per la crescita della loro produzione industriale e agricola, saranno in grado di risolvere passo dopo passo le difficoltà che stanno affrontando e di aprire la strada a una rapida uscita dalla povertà e dall’arretratezza. L’autosufficienza non significa affatto auto-esclusione e rifiuto degli aiuti stranieri. Abbiamo sempre ritenuto vantaggioso e necessario per lo sviluppo dell’economia nazionale che i Paesi portino avanti scambi economici e tecnici sulla base del rispetto della sovranità statale, dell’uguaglianza e del mutuo beneficio, e dello scambio di beni necessari per compensare le reciproche carenze”.

La conclusione del discorso fu il sunto dell’esperienza maturata dalla Repubblica Popolare Cinese nelle relazioni con i Paesi in via di sviluppo, una base di partenza per rilanciare la modalità cinese di concepire le relazioni tra Stati: “riteniamo che, sia nelle relazioni politiche che in quelle economiche, i Paesi debbano basarsi sui Cinque Principi del rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale, della non aggressione reciproca, della non ingerenza negli affari interni dell’altro, dell’uguaglianza e del mutuo beneficio e della coesistenza pacifica. Ci opponiamo all’instaurazione di egemonie e sfere di influenza da parte di qualsiasi Paese in qualsiasi parte del mondo in violazione di questi principi.

Riteniamo che gli affari di ogni Paese debbano essere gestiti dal proprio popolo. I popoli dei Paesi in via di sviluppo hanno il diritto di scegliere e decidere i propri sistemi sociali ed economici. Sosteniamo la sovranità permanente dei Paesi in via di sviluppo sulle proprie risorse naturali e il loro esercizio. Sosteniamo le azioni dei Paesi in via di sviluppo volte a porre sotto il loro controllo e la loro gestione tutti i capitali stranieri, in particolare le imprese transnazionali, fino alla nazionalizzazione. Sosteniamo la posizione dei Paesi in via di sviluppo per lo sviluppo della loro economia nazionale attraverso l’autosufficienza individuale e collettiva. Riteniamo che tutti i Paesi, grandi o piccoli, ricchi o poveri, debbano essere uguali e che gli affari economici internazionali debbano essere gestiti congiuntamente da tutti i Paesi del mondo, invece di essere monopolizzati da una o due superpotenze. Sosteniamo il pieno diritto dei Paesi in via di sviluppo, che costituiscono la grande maggioranza della popolazione mondiale, di prendere parte a tutte le decisioni in materia di commercio internazionale, questioni monetarie, marittime e di altro tipo.
 Riteniamo che il commercio internazionale debba basarsi sui principi di uguaglianza, mutuo beneficio e scambio di beni necessari. Sosteniamo l’urgente richiesta dei Paesi in via di sviluppo di migliorare le condizioni commerciali per le loro materie prime, i prodotti primari e i beni semilavorati e fabbricati, di espandere il loro mercato e di fissare prezzi equi e favorevoli. Sosteniamo i Paesi in via di sviluppo nella creazione di varie organizzazioni di Paesi esportatori di materie prime per una lotta unitaria contro il colonialismo, l’imperialismo e l’egemonismo.
 Riteniamo che gli aiuti economici ai Paesi in via di sviluppo debbano rispettare rigorosamente la sovranità dei Paesi beneficiari e non debbano essere accompagnati da condizioni politiche o militari e dall’estorsione di privilegi speciali o profitti eccessivi. I prestiti ai Paesi in via di sviluppo dovrebbero essere privi di interessi o a basso tasso di interesse e consentire il rimborso posticipato del capitale e degli interessi, o addirittura la riduzione e la cancellazione dei debiti in caso di necessità. Siamo contrari allo sfruttamento dei Paesi in via di sviluppo attraverso l’usura o il ricatto in nome degli aiuti.

Riteniamo che la tecnologia trasferita ai Paesi in via di sviluppo debba essere pratica, efficiente, economica e comoda da usare. Gli esperti e il personale inviato nei Paesi beneficiari hanno l’obbligo di trasmettere coscienziosamente il know-how tecnico alla popolazione e di rispettare le leggi e i costumi nazionali dei Paesi interessati. Non devono fare richieste particolari o chiedere agevolazioni speciali, né tanto meno impegnarsi in attività illegali.

Signor Presidente, la Cina è un Paese socialista e anche un Paese in via di sviluppo. La Cina appartiene al Terzo Mondo. Seguendo coerentemente gli insegnamenti del presidente Mao, il Governo e il popolo cinese sostengono fermamente tutti i popoli e le nazioni oppresse nella loro lotta per conquistare o difendere l’indipendenza nazionale, sviluppare l’economia nazionale e opporsi al colonialismo, all’imperialismo e all’egemonismo. Questo è il nostro dovere di internazionalisti. La Cina non è una superpotenza, né cercherà mai di diventarlo. Che cos’è una superpotenza? Una superpotenza è un Paese imperialista che ovunque assoggetta altri Paesi alla sua aggressione, ingerenza, controllo, sovversione o saccheggio e cerca di ottenere l’egemonia mondiale. Se il capitalismo viene restaurato in una grande società. diventerà inevitabilmente una superpotenza. La Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, portata avanti in Cina negli ultimi anni, e la campagna di critica a Lin Piao e a Confucio in corso in tutto il Paese, hanno entrambe lo scopo di impedire la restaurazione capitalistica e di garantire che la Cina socialista non cambierà mai colore e sarà sempre al fianco dei popoli e delle nazioni oppresse. Se un giorno la Cina dovesse cambiare colore e trasformarsi in una superpotenza, se dovesse anch’essa giocare a fare il tiranno nel mondo e assoggettare ovunque gli altri alla sua prepotenza, all’aggressione e allo sfruttamento, i popoli del mondo dovrebbero identificarla come social-imperialismo, smascherarla, opporsi e lavorare insieme al popolo cinese per rovesciarla.

Signor Presidente, la storia si sviluppa nella lotta e il mondo avanza in mezzo alle turbolenze. Gli imperialisti, e le superpotenze in particolare, sono afflitti da problemi e sono in declino. I Paesi vogliono l’indipendenza, le nazioni vogliono la liberazione e i popoli vogliono la rivoluzione: questa è la tendenza irresistibile della storia. Siamo convinti che, finché i Paesi e i popoli del Terzo Mondo rafforzeranno la loro unità, si alleeranno con tutte le forze che possono essere alleate e persisteranno in una lotta prolungata, sicuramente otterranno nuove e continue vittorie”.

Il 1976 è un anno di svolta, una sorta di spartiacque, per la Repubblica Popolare Cinese: muoiono, infatti, due tra le figure più rappresentative della Cina nata dalla rivoluzione: Zhou En Lai, nel gennaio, e il Grande Timoniere, Mao Zedong, nel mese di settembre; Deng Xiaoping arrivò al vertice del potere del Partito Comunista e la sua stagione di profonde riforme trasformava la Cina che abbandonava l’orientamento politico di tipo ideologico, in favore di un pragmatismo che, sul piano interno, si traduceva in una serie di riforme (le “quattro modernizzazioni”), mentre sul piano internazionale, si basava sull’apertura verso l’esterno e sulla salvaguardia della pace, ponendo l’accento sull’importanza della cooperazione mutualmente benefica in relazione a qualsiasi Paese, superando, quindi, come detto, il vincolo ideologico del socialismo; rimanevano, comunque, validi i cinque principi di coesistenza pacifica proposti alla Conferenza di Bandung del 1955 come fondamento della dottrina estera cinese anche se, dovendo la Repubblica Popolare Cinese muovere i passi verso un modernizzazione economica senza precedenti, l’adozione di una politica estera basata sul pragmatismo si rese quantomai necessaria. Come sostiene Deborah Brautigam, questa nuova logica trova la sua più riuscita espressione nel viaggio compiuto in Africa dal Primo ministro Zhao Ziyang nel 1982 (20 dicembre 1982 – 17 gennaio 1983), durante il quale la delegazione cinese visitò Egitto, Algeria, Marocco, Guinea, Repubblica Democratica del Congo, Congo, Gabon, Zambia, Zimbabwe, Tanzania e Kenya con l’obiettivo di proseguire nell’esplorazione delle potenzialità della cooperazione sud-sud e di rimarcare, al continente africano e al mondo intero, che Pechino non intendeva dimenticarsi dell’Africa[30]. Appellandosi all’unità del Terzo Mondo, supportando la lotta per la liberazione dei Paesi soggiogati e auspicando il consolidamento dell’indipendenza politica africana, durante una conferenza stampa a Dar as Salaam, capitale della Tanzania, Zhao Ziyang enunciò i Quattro Principi della Cooperazione Economica e Tecnologica, vale a dire mutuo e eguale beneficio, enfasi maggiore da porre sui risultati concreti, diversità nella forma nel rispetto delle condizioni dei diversi Paesi africani e sviluppo comune: “1. Nel portare avanti la cooperazione economica e tecnologica con i Paesi africani, la Cina si attiene ai principi di unità e amicizia, uguaglianza e reciproco vantaggio, rispetta la loro sovranità, non interferisce nei loro affari interni, non pone condizioni politiche e non chiede privilegi di alcun tipo; 2. Nella cooperazione economica e tecnologica della Cina con i Paesi africani, saranno sfruttati appieno i punti di forza e le potenzialità di entrambe le parti sulla base delle loro effettive esigenze e possibilità, e si cercherà di ottenere buoni risultati economici con minori investimenti, cicli di costruzione più brevi e ritorni più rapidi; 3. La cooperazione economica e tecnologica della Cina con i Paesi africani assume una varietà di forme adatte alle condizioni specifiche, come l’offerta di servizi tecnici, la formazione di personale tecnico e manageriale, gli scambi scientifici e tecnologici, l’avvio di progetti di costruzione, la produzione cooperativa e le joint venture. Per quanto riguarda i progetti di cooperazione intrapresi, la parte cinese farà in modo di rispettare i contratti firmati, di garantire la qualità del lavoro e di porre l’accento sull’amicizia. Gli esperti e il personale tecnicoinviati dalla parte cinese non chiedono un trattamento speciale; 4. Lo scopo della cooperazione economica e tecnologica della Cina con i Paesi africani è quello di contribuire al rafforzamento delle capacità di autosufficienza di entrambe le parti e di promuovere la crescita delle rispettive economie nazionali, completandosi e aiutandosi a vicenda”[31].

Seppur simile nella forma, i Quattro Principi differiscono dagli Otto Principi enunciati da Zhou En Lai al termine del suo Safari africano del 1963-64: buona parte del contenuto ideologico di allora faceva spazio ad una maggiore enfasi posta sui mutui benefici, sulla praticità e immediatezza dei risultati da conseguire e su uno sviluppo comune determinato più dallo sviluppo domestico dei Paesi africani che dalle risorse messe in campo da una Cina più prudente, meno incline, adesso, ad una assistenza incondizionata e unidirezionale anche alla luce delle scarse risorse che Pechino aveva da investire in quegli anni negli aiuti all’estero[32]; questo, perché la Cina continuava a vedere nell’Africa una parte integrante della sua politica estera e di apertura al mondo ed è per tale motivo che, con la fine della Guerra fredda, si iniziò un notevole sforzo, soprattutto economico, per rinnovare le relazioni già esistenti e, al contempo, allargarne la portata a nuovi Paesi anche per fare in modo di mantenere il suo nucleo anti-egemonico e resistere all’azione di altre potenze, rafforzando al contempo la propria posizione in Africa e facendo scudo contro i tentativi di interferenza nei suoi affari interni (la Cina, ad esempio, è divenuta fortemente sospettosa dell’Occidente in materia di diritti umani e considera tali appelli come un cavallo di Troia attraverso il quale l’Occidente potrebbe minacciare Pechino)[33].

A conclusione possiamo dire che la trentennale politica africana della Repubblica Popolare Cinese si è incardinata su principi mai messi in discussione, neppure nei momenti di raffreddamento nelle relazioni tra Pechino e il continente: salvaguardia della sovranità statale dei Paesi africani, indipendenza nazionale, lotta alla dinamiche imperialiste, sviluppo dell’economia africana, rispetto delle tradizioni politiche, culturali ed economiche dei vari Stati in cui si divide il continente, nessuna interferenza esterna negli affari interni di un qualsiasi Paese, sostegno all’unità e alla cooperazione tra Stati africani, pieno sostegno all’ingresso e alla partecipazione attiva di questi nel sistema internazionale come membri eguali la cui importanza risulta fondamentale al fine di istituire un nuovo ordine economico e politico internazionale basato su altre ed eque basi diverse dai capricci dell’egemone di turno. 


NOTE AL TESTO

[1] Alessandra Colarizi, Africa rossa. Il modello cinese e il continente del futuro, L’Asino Rosso Edizioni, San Giuliano Milanese, 2022, pp. 27-28.

[2]https://www.cese-m.eu/cesem/2023/11/a-colloquio-con-sylvain-takoue-il-gigante-che-sta-arrivando-per-aiutare-lafrica-a-svegliarsi-e-a-rimettersi-in-piedi-e-la-cina.

[3] Sarı, Buğra. (2020). AFRICA: A Constant Battlefield of Great Power Rivalry, p. 77.

[4] Ibidem

[5] Ibidem, pp. 80 – 81.

[6] Ibidem, p. 82.

[7] Simone Pieranni nella prefazione al libro di Alessandra Colarizi, op. cit., p. 17.

[8]https://www.cese-m.eu/cesem/2023/11/a-colloquio-con-sylvain-takoue-il-gigante-che-sta-arrivando-per-aiutare-lafrica-a-svegliarsi-e-a-rimettersi-in-piedi-e-la-cina.

[9] Zbigniew Brzezinzki, LAmerica in un mondo ostile riportato in Carlo Maria Santoro, Gli Stati Uniti e lordine mondiale, Editori Riuniti, 1978, Roma, p. 127.

[10] Così lo definisce un articolo pubblicato dal Global Times e tradotto dal sito maurizioblondet.it Cosa è “l’ordine basato su regole” degli USA? Una risposta cinese (maurizioblondet.it).

[11]  Ultimo’ora: Russia: Peskov, ‘sì a nuovo ordine mondiale, ma non sarà quello di Washington’ (lasvolta.it).

[12] Alessandra Colarizi, op. cit., p. 32.

[13]Ivi, pp. 46-47.

[14] Paṇḍit Jawaharlal Nehru è stato un politico indiano, Primo ministro indiano dal 1947 al 1964 e una delle personalità politiche più in vista del mondo nella sua epoca.

Erede spirituale di Gandhi, egli diede una fisionomia politica al movimento nazionalista della nonviolenza del grande capo spirituale dell’India, e seppe condurre felicemente in porto la battaglia per l’indipendenza. Una volta conseguita l’indipendenza (1947), in politica estera Nehru assunse una posizione neutrale, intesa come indipendenza sia dal blocco Occidentale sia da quello Orientale. In tal senso egli divenne, con Gamal Abd el-Nasser e Josip Broz Tito, uno dei capi dei Paesi non allineati che raccoglieva nazioni la cui economia mostrava caratteri notevolmente distanti sia dal capitalismo liberista sia dallo statalismo di stampo sovietico, come era appunto il caso dell’India e, prima del suo dissolvimento, della Jugoslavia.

Alla conferenza erano stati invitati anche i rappresentanti della Federazione Centrale Africana – gli attuali Malawi Zambia, Zimbabwe – ma questi furono costretti a declinare poiché non potevano contare su una posizione di indipendenza tale da poter partecipare all’evento in Indonesia.

[15]A- Doak Barnett, Chou En-Lai at Bandung. Chinese diplomacy at the Asian-African conference.

[16] Main Speech by Premier Zhou Enlai, Head of the Delegation of the People’s Republic of China, Distributed at the Plenary Session of the Asian-African Conference | Wilson Center Digital Archive

[17]  Su queste basi, tra il 1953 e il 1954 fu negoziato l’accordo tra Cina e India in merito alla questione dei territori contesi sul sud della regione del Tibet.

Il documento conclusivo della Conferenza fu redatto sulla base di dieci principi cardine ed inderogabili: 1. rispetto per i diritti umani fondamentali e gli scopi della Carta delle Nazioni; 2. rispetto della sovranità e integrità territoriale di ogni nazione; 3. riconoscimento dell’uguaglianza di tutte le razze e dell’uguaglianza di ogni nazione piccola o grande che sia; 4. astensione dall’intervento o dall’interferenza negli affari interni di un altro Paese sovrano; 5. rispetto per il diritto di ogni nazione di difendere sé stessa, singolarmente o collettivamente, in conformità con i principi espressi dalla Carta delle Nazioni; 6. astensione dall’uso di forme di difesa collettiva per difendere l’interesse particolare di una qualsiasi delle grandi potenze e astensione da parte di ogni Paese nell’esercitare pressioni su altri Paesi; 7. rinuncio all’uso di atti, minacce di aggressione e uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi paese; 8. risoluzione di ogni disputa internazionale attraverso mezzi pacifici; 9. promozione di interessi reciproci e della cooperazione; 10. rispetto per la giustizia e gli obblighi internazionali. 

[18]  David Shinn in China and Africa; A century of Engagement (University of Pennsylvania Press)sostiene che nei primi anni dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese, l’imperialismo statunitense era considerato il nemico più pericoloso (e di conseguenza il primo da ingaggiare) per la piena realizzazione del processo di indipendenza degli Stati africani; pertanto, ad una attività imperialistica aggressiva messa in atto da Washington non si poteva che opporre un fronte unito afroasiatico.

[19] Li Anshan, China and Africa: Policy and Challenges in China Security, vol. 3, num. 3 (estate 2007), p. 71. Il volume della rivista in questione è scaricabile al seguente indirizzo: WSI China Security Vol. 3 No.3 Summer 2007: China’s Rise in Africa, Energy and Conflict (ethz.ch)

[20] Zhou En Lai incontrò i Capi di Stato di Repubblica Araba Unita (14-21 dicembre 1963), Algeria (21-27 dicembre 1963), Marocco (27-30 dicembre 1963), Tunisia (9-10 gennaio 1964), Ghana (11-16 gennaio 1964), Mali (16-21 gennaio 1964), Guinea (21-26 gennaio 1964) Sudan (27-30 gennaio 1964), Etiopia (30 gennaio – 1 febbraio 1964), Somalia (1-4 febbraio 1964).

[21]Questa seconda conferenza, tuttavia, non si tenne poiché fu cancellata a seguito del rovesciamento del presidente algerino Ahmed Ben Bella.

[22] Da uno stralcio di un articolo del China Daily del 29 giugno 2004 riportato in Y. C. Kim, China and Africa, The Palgrave Macmillan Asian Business Series, 2017, p.45.

[23] Alessandra Colarizi, op. cit., p. 48.

[24]Otto principi di aiuto economico e tecnico sono riportati in appendice al testo di Deborah Brautigam, The Dragon’s Gift: the real stoy of China in Africa, Oxford University Press, 2009, p. 313.

[25]  Y. C. Kim, op. cit., p. 45.

[26]  Alessandra Colarizi, op. cit., pp. 48-49.

[27] Chris Alden e Ana Maria Alves, History and identity construction of China’s Africa Policy in “Riview of African Political Economy”, vol. 35, n. 115, 2008, p. 48.

[28] Ian Taylor, China and Africa. Engagement and Compromise, Routledge Taylor & Francis Ltd., 2006, pp. 41-42.

[29]  Speech By Chairman of the Delegation of the People’s Republic of China, Deng Xiaoping, At the Special Session of the U.N. General Assembly, consultabile in lingua inglese al seguente indirizzo Speech By Chairman of the Delegation of the People’s Republic of China, Deng Xiaoping, At the Special Session of the U.N. General Assembly (marxists.org).

[30] D. Brautigam, op. cit., p 51.

[31]Ivi, p. 314.

[32] Anche se negli anni 80 la Cina è tra i primi dieci donatori bilaterali dei Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, il PIL pro capite poneva la Cina tra gli Stati meno sviluppati del mondo.

[33] Ian Taylor, op. cit., pp. 67-68.

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