L’occidente e il Tibet. Storie di esploratori e viaggiatori

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“La Repubblica Popolare Cinese e il Tibet”, progetto di ricerca del CESE-M

 

A distanza di due secoli dai resoconti di viaggio redatti dai primi esploratori e religiosi che giunsero sull’altopiano, il Tibet rimaneva ancora qualcosa di oscuro e di misterioso. Così si legge, per esempio, ad inizio ottocento sulle pagine del Nuovo Dizionario Geografico: “TIBET. Vasta regione d’Asia, di cui le notizie che si hanno sono incerte e confuse, ad onta dell’interesse che la geografia avrebbe d’essere illuminata. […] Non è verosimile che gli antichi avessero veruna cognizione di queste contrade; i portoghesi furono i primi a penetrarvi, ma sembra che Marco Polo le avesse visitate prima d’essi, e che la parte del Tangut da lui descritto, ove accenna una prov[incia]. chiamata Tebet, sia il Tibet dei moderni, dandone esso una descrizione che ne ha molta analogia”.(1)

E ancora: “L’Occidente, il nord, il centro e l’Oriente dell’Asia ci passaron sott’occhio; ci riman ora a considerare quella parte meridionale per cui vediamo scorrere, l’Indo, il Gange, il Bramaputre e l’Iravaddi. Donde sorgono que’ magnifici fiumi. Tutti discendono da un altipiano inclinato a mezzodì ma da immense montagne separato dal rimanente dell’Asia meridionale. Questo è il Tibet. Eccoci dunque sulle soglie di quella misteriosa contrada e sacra, culla di più di un religioso sistema, e nel cui seno la superstizione piantò il suo trono a canto a quello del verno. […] Il Tibet, noto sin dal secolo decimoterzo, rimase a lungo inaccessibile a’ viaggiatori europei”. (2)

L’accedervi quasi impossibile ne rende difficile, ancora ad inizio XIX secolo, la definizione dei confini di questa regione: “Noi comprendiam qui sotto il nome di Tibet tutti i Paesi a nord dell’Indostan, a levante della Gran Bucaria, al sud della Piccola, al sud-est del Tangut (prendendo quest’ultimo nome nel suo più ristretto significato), all’Occidente della China, ed al nord-uest dell’Impero de’ Birmanni. In un sì vasto recinto, il piccolo Tibet e lo Stato di Latak all’occidente, come pure il Butan al sud, ponn’essere considerati come quali paesi presi a parte. Verso il sud-est il confine è poco noto. Finalmente, verso il nord, sembrano esistere intere province sconosciute a noi. D’Anville termina il Tibet al grado 35; ma il gesuita Tieffenthaler asserisce positivamente che il gran Tibet è al nord-est del paese di Cascemira, ed il piccolo Tibet a nord-uest. La più breve rotta per andare a Cashgar (3) sarebbe quella di passare per il grande Tibet; ma ciò è vietato, e si passa quindi pel piccolo Tibet, la cui capitale Eskerdon (Ascardon) è otto giornate al nord de’ confini del Cascemire. Al di là trovasi Schakar. Viaggiando poscia quindi giornate per folte boscaglie, si giunge alla frontiera del piccolo Tibet. […] Da ciò sembra risultare che si può con sicurezza dare al Tibet almeno due gradi più al nord che non ne abbia sulle carte di D’Anville. Poco sappiamo delle città del Tibet; sembra che la maggior parte de’ siti segnati sulla carta, non sieno che villaggi, cioè gruppi di capanne intorno a qualche tempio. In tutto il Tibet non vi sono, secondo la geografia cinese ufficiale, che sedici città. Lhassa o Dsassa capitale, è posta nella provincia d’U in una vasta pianura. La città è piccola, ma le case son fabbricate di pietra, grandi e alte. È sede del governo tibetano e de’ mandarini cinesi che ne hanno la sorveglianza. La città è popolata di mercatanti e d’artigiani. La famosa montagna, sette miglia a levante di Lassa, su cui è posto il palagio del gran Lama, chiamasi Puta-La, cioè a dire montagna santa. […] Questo palagio o tempio, cui sta sopra una cupola dorata, ha 62 braccia chinesi di altezza; il di fuori è ornato d’innumerabili piramidi d’oro e d’argento, a quanto dicesi. […]Turner dipinge i tibetani come un popolo affabile e dolce; gli uomini son vigorosi, la fisionomia loro ha un po’ del mongollo; la tinta delle femmine è bruna, ma trae risalto da un rubicondo vivace, come le frutta che ricevono fortemente l’impressione del sole. L’aria fresca d’un paese montuoso mantiene la vigorosa loro salute”.

I viaggi dei primi “esploratori” europei in Asia centrale si collocano a metà del XIII secolo dopo che, nel 1241, i mongoli si ritirarono dall’Europa in seguito alla morte del Khan Ogedei il quale, a capo di un esercito di 150.000 uomini, invase terre divise in numerosi regni ed indebolite dal forte contrasto tra il Papato e il Sacro Romano Impero. Nel 1243, Re Luigi IX, poi proclamato Santo, e il Papa Innocenzo IV inviarono, allora, degli emissari presso il Gran Khan di Mongolia per conoscerne le future intenzioni. In questa occasione il monaco francescano Giovanni da Pian del Carpine fu delegato presso i Tatari con l’incarico di portare due bolle papali a Güyük Khan, nipote di  Gengis Khan, all’epoca Gran Khan dell’Impero mongolo. Scopo della missione diplomatica quello di scongiurare un nuovo flagello mongolo sulla cristianità e di sondare un’alleanza per una guerra contro i  Turchi  e la liberazione della  Terra Santa. Il viaggio verso l’Impero Mongolo di Giovanni da Pian del Carpine fu lunghissimo e avventuroso. Molto si sa di questo viaggio (che attraverso la Polonia e poi la Russia sembrava doverlo condurre ai confini del mondo) grazie allo straordinario resoconto che egli stesso ne dette nella sua  Historia Mongalorum trattando degli usi e costumi dei mongoli. Il suo itinerario si sviluppò da Cracovia a Kiev, superando poi il fiume Volga e il  mar Caspio, per giungere sul  lago di Aral; da qui si diresse verso il  lago Balqaš, per proseguire in direzione di  Karakorum, dove per la prima volta incontrò il Khan e la nobiltà mongola; fu un viaggio costellato di spettacoli raccapriccianti, fatiche e stenti, ma anche di racconti e incontri favolosi. Dalle pagine della sua cronaca risuona vivida la voce umile e al contempo risoluta di Giovanni, uomo che, per primo e dal vero, svelò agli  europei  i segreti di quell’Estremo Oriente  per secoli temuto e favoleggiato. In Historia Mongalorum si trovano le prime informazioni sul Tibet: si parla, infatti, di Burithabet, forma composta nota anche da fonti cinesi (buri-thabet, Tibet dei Lupi), che disegna una piccola zona settentrionale della regione dell’altopiano. Nella critica della pubblicazione dell’opera del francescano datata 1913 si legge che ancora nel viaggio di ritorno sottomisero il Burutabet, nel quale è da riconoscere il nostro Tibet. (4) Le informazioni fornite da Giovanni da Pian del Carpine non sono, però, di prima mano e sembrano frutto di racconti orali, leggende e dicerie. Si presentano i tibetani come assai deformi, quasi glabri ed anzi con un uso molto diffuso al giorno d’oggi si strappano i peli che possono spuntare sulle guance o sul labbro superiore.

Un altro europeo, un fiammingo stavolta, che viaggiò verso oriente, nella Mongolia e nella Tartaria fu il missionario Guglielmo di Rubruck, frate appartenente all’Ordine dei Frati Minori. In Itinerarium, resoconto del viaggio in Asia e considerato da molti uno dei capolavori della letteratura geografica medievale, egli racconta con piacere e senza vergogna le proprie sensazioni e sentimenti vissuti in quella landa di terra lontana dall’Europa. Quando incontra i Tartari ha l’impressione di entrare in un altro mondo: tutto è strano e nuovo rispetto a ciò a cui è abituato in Occidente, e Guglielmo osserva, si sforza di comprendere, e spesso manifesta lo sgomento di colui che è stato catapultato in un mondo diverso. Nella sua opera il francescano impiega il termine Tebet che nella terminologia dei popoli attigui all’altopiano indica ciò che i tibetani definiscono བོད, Bod. (5).

Gli studiosi datano, però, le prime notizie sul Tibet all’epoca degli scritti e delle mappe di Claudio Tolomeo, geografo greco antico di epoca imperiale, considerato uno dei padri della geografia. I suoi sono piuttosto cenni che risultanze concrete dell’esistenza di tale regione. Nelle carte, rielaborate in età medievale in Europa, epoca in cui si riscoprì e valorizzò il suo trattato Geografia, si fa riferimento ad una terra incognita al di là dei Monti Emodi (presumibilmente la catena himalayana) e di un fiume che scorre a nord, con ogni probabilità riferimento allo Yarlung Tsang-Po, il tratto tibetano dello Brahmaputra, che dopo 2.900 km e dopo aver attraversato Cina, India e Bangladesh sfocia nelle acque del golfo del Bengala unitamente a quelle del Gange. Dopo questa fugace prima menzione in Tolomeo, le “fortune” occidentali del Tibet dovranno attendere gli anni del medioevo mentre i geografi arabi avevano scoperto l’interesse per questa regione già nell’VIII secolo. Abbiamo detto delle testimonianze di Giovanni da Pian del Carpine e di Guglielmo di Rubruck ma la maggior parte degli storici è anche sì concorde nel ritenere che questi viaggiatori medievali spintisi sin nelle più remote terre d’Oriente abbiano visitato il Tibet vero e proprio. Certo, è pur vero che, se ad oggi il Tibet è da considerarsi la regione autonoma dello Xizang il cui territorio amministrativo, con capitale Lhasa, è ben definito e occupa l’area che si adagia sul versante cinese della catena dell’Himalaya, questo riferimento territoriale non è valido per l’epoca del dominio mongolo (seconda metà del 1200 e seconda metà del 1300) in cui si svolsero i viaggi degli occidentali.

Durante il suo viaggio lungo la Via della Seta, il veneziano Marco Polo, insieme al padre  Niccolò  e allo zio  Matteo  giunse nella  Cina settentrionale (Catai): Niccolò, Matteo e Marco Polo intrapresero un viaggio nel  1271. Viaggiarono verso l’interno, attraversando l’Anatolia  e l’Armenia. Scesero quindi verso il fiume  Tigri, toccando con ogni probabilità  Mossul  e  Bagdad. Giunsero fino al porto di  Ormuz, forse con l’intenzione di proseguire il viaggio via mare. Continuarono invece a seguire la via terrestre e, attraverso la  Persia  e il  Khorasan, raggiunsero  Balkh  e il  Badakhshan. Superarono, in quaranta giorni, il  Pamir  e scesero verso il  bacino del Tarim. Attraverso il  deserto dei Gobi  giunsero ai confini del  Catai, nel Tangut, la provincia più occidentale della Cina. Quindi proseguirono lungo la parte settentrionale dell’ansa del  Fiume Giallo, arrivando infine a  Khanbaliq, l’antica Pechino, dopo un viaggio durato tre anni e mezzo. Nel suo percorso, Marco Polo attraversò certamente alcune regioni limitrofe al Tibet, dedicando a questa regione misteriosa e sconosciuta in alcuni passi del suo Il Milione nei quali riporta notizie di un Tibet come regione dall’antica grandezza, ora devastata dalle scorribande mongole, pericolosa da percorrere e impervia: Et poi che s’è cavalcato cinque giornate, si trova una provincia desolata nominata Thebeth (6). Questa provincia chiamata Thebeth è molto destrutta, perché Mangi Can la destrusse al tempo suo, per la guerra ch’egli hebbe con quella: et vi si veggono per questa provincia molte città et castella tutte rovinate et desolate, per lunghezza di venti giornate.  Et perché vi mancano gli habitatori, però le fiere salvatiche, et massime i leoni sono moltiplicati in tanto numero che è grandissimo pericolo a passarvi la notte: et li mercatanti et viandanti, oltra il portar seco le vettovaglie, bisogna che alloggino la sera con grande ordine et rispetto, per causa che non li siano devorati i cavalli. […] Cavalcasi adunque per questa contrada venti giornate, continuamente trovando simili salvatichezze, et non trovando alloggiamenti né vettovaglie, se non forse ogni terza o quarta giornata, nelle quali si forniscono delle cose al viver necessarie.  In capo delle qual giornate si comincia pur a veder qualche castello et borghi, che sono fabricati sopra dirupi et sommità de’ monti, et se intra in paese habitato et coltivato, dove non vi è piú pericolo di animali salvatichi. [..] Questa detta provincia di  Thebeth  è suddita al dominio del  Gran Can, et similmente tutte le regioni et provincie soprascritte; doppo la quale si trova la provincia di  Caindú.(7)

Si ritiene che il presbitero francescano Odorico da Pordenone sia da considerarsi il primo europeo ad essere penetrato nell’altopiano sino a raggiungere la città sacra di Lhasa. Era la prima metà del XIV secolo quando Odorico partì missionario per l’Oriente: attraversò durante il suo viaggio le città di  Trebisonda,  Erzurum,  Homs  e  Baghdad. Giunto a  Thane  (che ora è un sobborgo di  Bombay), Odorico classificò la popolazione come  idolatra, perché adoravano fuoco, serpenti ed alberi; la città era stata però conquistata di recente dai musulmani, i quali condizionavano la vita religiosa. Odorico proseguì toccando Ceylon,  Canton  e infine, dopo circa cinque anni di viaggio, raggiunse  Pechino, dove fu ricevuto dall’imperatore  Yesün Temür Khan, pronipote di  Kublai Khan, che aveva conosciuto  Marco Polo  (allora la  Cina  era ancora sotto il dominio dei  mongoli). Attraversò il territorio tibetano nel suo viaggio di rientro da Kambaluk in Italia e, primo europeo, ad entrare a  Lhasa, da dove attraversò poi la  Persia  e l’Armenia.

 

I missionari del XVII secolo

Dopo l’avventura di Odorico da Pordenone non si ha alcuna notizia di altro europeo che sia riuscito a penetrare l’impervio Tibet. Bisognerà attendere i primi decenni del XVII secolo perché il Tibet entri nella storia d’Europa dell’evo-moderno. Le conoscenze che si avevano allora del Tibet erano molto vaghe e si limitavano alla citazione del sentito dire dei viaggiatori; il più delle volte si attribuiva al Tibet ciò che propriamente apparteneva alle regioni circostanti. A parte Odorico da Pordenone nessuno era mai stato sul tetto del mondo.

Nel 1576 si registra un episodio destinato a cambiare la storia delle esplorazioni del Tibet: due Padri della Compagnia di Gesù negano l’assoluzione ad alcuni mercanti europei rei di aver defraudato il Governo del Gran Moghul. L’imperatore Akbar, una volta venutone a conoscenza, mandò a Goa un’ambasciata con l’invito a corte per i due missionari. Per mezzo di questi Padri appartenenti alla Prima legazione alla corte del Gran Moghul inizia una sistematica ricerca sul Tibet e le sue caratteristiche. Da qui e per i due secoli seguenti, l’altopiano sarà campo di esplorazione e studio esclusivo dei missionari cristiani. La prima notizia fatta pervenire nel Vecchio Continente è a firma di Padre Rodolfo Acquaviva, il superiore della missione, che in una missiva indirizzata ad un parente parla della scoperta di una nuova nazione chiamata Bottan i cui territori si estendevano al di là di Lahore, presso il fiume Indo. La notizia era stata raccolta, insieme ad altre, da Padre Monserrate, lo storico della missione gesuita che nel suo Commentario annota: “al di sopra di tale fortezza, verso oriente, nella parte più interna dell’Imao abita una popolazione selvaggia e barbara, detta dei Bothi o Bothanti. Non hanno re, ma abitano nei villaggi a tribù. […] Si dice che queste popolazioni abitino le montagne dell’Imao dal castello di Nagar, verso settentrione, fino ai Caspiri. Hanno lingua propria. Forse sono i popoli che Plinio chiama Casiri, là dove dice: le tribù indiane dei Casiri, che abitano nelle parti interne, verso la terra degli Sciiti, si cibano di carne umana.(8) Diogo d’Almeida depone asserendo che questo regno del Thibete è al di là di quello del Guiscumir, da poco assoggettato dai re del Moghul, e che tra questo regno e quello del Thibete non vi sono che alcune catene di montagne, altissime. […] Hanno molti sacerdoti che osservano il celibato come i nostri ed ai nostri sono pure somiglianti nei vestiti, eccetto che essi portano tutta la testa rasata. Hanno il vescovo che chiamano lamhâo”.

 

La scoperta europea del Tibet

Ora abbiamo avuto un’altra missione con la scoperta che il padre Antonio de Andrade, superiore della missione del Moghul, ha fatto del Tibet regno che confina con la Cina; della scoperta di quel regno, mando a vostra paternità la relazione”. Con questa missiva Francesco de Vergara, padre superiore della missione di Goa, annunciava al generale di Roma che il primo europeo aveva violato l’ardua difesa delle montagne e i fascinosi segreti del tetto del mondo (9). Il Tibet fu, quindi, svelato agli europei da un gesuita portoghese nativo di Oleiros entrato sedicenne nella Compagnia di Gesù di Coimbra sul finire dell’anno 1596. Nel 1624 il religioso riuscì nell’impresa di aprirsi una via nell’altopiano da occidente e di farsi ricevere dal Re di Gugè. Il De Andrade appuntò note del viaggio e ne rese conto in una lettera celebrativa inviata a Lisbona nel 1926 con l’altisonante titolo di Nuova scoperta del Gran Catai o dei Regni del Tibet, fatta dal Padre Antonio de Andrade, della Compagnia di Gesù, portoghese, nell’anno 1924 che viene introdotta da una ulteriore lettera in cui si scrive che tra le grandi felicità e vittorie dell’anno 1625 la Spagna può contare e cantare la gioconda notizia della nuova scoperta del grande Catay e dei regni del Tibet. […] Il territorio del Tibet, se sono giuste le informazioni che abbiamo prese, è vastissimo e sembra che sia ben coltivabile e ricco d’acqua, avendo noi trovato in esso abbondanza di frumento e riso ecc., di frutta, come l’uva, le pesche ed altre, come dianzi s’è detto e come ci assicurano persone pratiche di quelle terre. Il territorio, però, della città reale ove noi siamo andati e che è la prima città dalla parte dell’India, è il più sterile che io abbia mai visto. In esso cresce solo un po’ di frumento nelle parti irrigabili con l’acqua del fiume. È ricco di bestiame, montoni, capre, cavalli, ma non v’è altro, perché la vegetazione cresce soltanto presso le sorgenti o dove è possibile irrigare, e si possono fare molte leghe di cammino senza trovare una pianta e un filo d’erba. Tutto ciò, per la mancanza di pioggia o per la troppa neve. (10)

Nel 1625 ai gesuiti fu permesso di aprire una missione a Tsaparang. La relazione della fondazione di questo avamposto cattolico in Tibet è del 1626 che si apre con l’espressa volontà di voler dare al destinatario della missiva una breve relazione della missione in Tibet, nella quale siamo entrati in cinque della Compagnia e nei vari capitoli di cui si compone traccia un dipinto veritiero dello scorrere della vita quotidiana della popolazione, della religione, delle usanze e dei costumi e dei vari giochi di potere politico e religioso. Padre Godihno nello stesso anno parlerà di come la divina bontà che ci aveva ispirato il disegno del viaggio al Catai, detto anche Grande Thibeth, vi ci ha condotti felicemente. Vi siamo arrivati dopo aver percorso un lungo cammino: otto interi mesi di questo lungo viaggio, perché abbiamo dovuto anzitutto attraversare in tutta la sua lunghezza l’impero del Gran Moghul; di poi usciti da quello, siamo entrati in un altro regno un po’ più piccolo che si chiama Comao. Ma anche se più piccolo, noi abbiamo penato di più a passarlo perché abbiamo dovuto viaggiare continuamente su altissime montagne, che la natura sembra abbia scelto come depositi delle sue nevi, tanto queste vi sono ammassate.

Mossi dal consiglio e dall’invito proprio del De Andrade, già nel 1627 fu inviati in Tibet dall’India una nuova missione che salì sull’altopiano fino a Shigatse dove i missionari Giovanni Cabral e Stefano Cacella furono ricevuti dal Re di Utsang. In questo villaggio fu istituita una nuova missione gesuita nel 1628. Racconta il Cabral che partito il 18 dicembre [ed] arrivai il venti gennaio [1628], avendo dovuto fare alcune tappe prima di arrivare alle terre del re, fiducioso che questa missione potrà divenire una delle più gloriose della Compagnia. Essa è la porta della Tartaria, la Cina e a molti regni pagani (11).

Nella seconda metà del XVII secolo altri padri gesuiti europei raggiunsero l’altopiano tibetano. È il caso del missionario austriaco Giovanni Grueber edi Alberto D’Orville, nato a Bruxelles, che muniti di passaporto imperiale mossero da Pechino in un lungo viaggio per Agra al fine di studiare la via che, passando per il Tibet, arrivasse in India passando la catena dell’Himalaya. Importante è l’opera del secondo che, esploratore e cartografo, lungo il cammino fece rilievi cartografici precisi su latitudini e longitudini. Partito il 13 aprile del 1661 da Pechino entrò in territorio tibetano tre mesi più tardi mentre giunse a Lhasa l’8 ottobre. I resoconti del viaggio dei due Padri della Compagnia di Gesù furono raccolti da Athanasius Kircher nella sua opera China monumentis, qua sacris quà profanis, nec non variis naturæ et artis spectaculis, aliarumque rerum memorabilium argumentis illustrata, conosciuta come China Illustrata, stampata in lingua latina nel 1667 ad Amsterdam. In particolare, lo scritto di Kircher è importante perché riporta, per la prima volta, l’incisione della città di Lhasa e la descrizione dettagliata del Potala (12).

 

Il XVIII secolo: Francesco Orazio della Penna

Nato a  Pennabilli, nel  Montefeltro, nel novembre del 1680, ultimo figlio del conte Orazio Olivieri, Francesco Orazio della Penna entrò nell’Ordine dei cappuccini l’8 novembre 1700 nel convento di  Pietrarubbia. Nel 1712 fu scelto per partecipare alla terza spedizione in Tibet, dove era stata fondata nel 1707 una missione per iniziativa del padre François-Marie de  Tours. Imbarcatosi a  Lorient, in Bretagna, il 15 agosto 1712, il 4 settembre 1716, partì da Katmandu insieme al prefetto della missione Domenico da Fano e Giovanni Francesco da Fossombrone alla volta di Lhasa dove giunse il primo giorno del mese di ottobre. Qui conobbe Ippolito Desideri che vi era giunto il 18 marzo dello stesso anno (13): se per molto tempo i geografi ritennero l’Asia centrale e il Tibet in particolare terre misteriose, isolate, grande fu il contributo alla conoscenza di queste terre del gesuita pistoiese che lasciò una importante relazione su questa parte del mondo. Desideri fu un grande viaggiatore, visitò il Tibet e ne lasciò ampia testimonianza. Un lavoro, il suo, basato sulla conoscenza diretta dei luoghi e degli eventi grazie alla sua opera di missionario, ma anche di esploratore e viaggiatore instancabile. Durante il suo soggiorno sull’altopiano conobbe usi, costumi e tradizioni del suo popolo.

Francesco Della Penna intraprese con questi lo studio della lingua tibetana nel monastero lamaista di Sera, situato a circa 4 km a nord di Lhasa. Frutto di tanto studio e lavoro furono una ricca relazione sulla storia, la geografia e le istituzioni del Tibet e un dizionario tibetano-italiano in 35.000 vocaboli, ultimato prima del 1732. Nel marzo del 1739 riprese la via per il Tibet, imbarcandosi a Lorient. Da Chandernagore e Patna arrivò a Katmandu, dove trovò una situazione molto più favorevole della precedente. Lasciato il Nepal nell’ottobre 1740, il missionario italiano giunse a Lhasa i primi giorni del 1741 accolto cordialmente da Pho lha nas che, in cambio dei ricchi doni del papa e del cardinal Belluga, concesse ai missionari libertà di culto e di proselitismo. Con questi buoni auspici il Della Penna e i suoi confratelli svolsero una fervida attività pastorale, che finalmente diede i suoi frutti nella conversione e battesimo di circa sessanta persone, delle quali venti erano tibetane. La cerimonia, effettuata nel giorno di Pentecoste il 13 maggio 1742, segnò però l’inizio della fine. Il  lama  tibetano si opposero decisamente alla prosecuzione dell’attività dei cappuccini e il re, sebbene gradualmente, ritirò il suo appoggio. Il 20 aprile 1745 il prefetto e i suoi confratelli lasciarono Lhasa per non ritornarvi più.

Un altro europeo troviamo in Tibet nello stesso periodo, l’olandese Samuel Van der Putte un grande viaggiatore, sembra sia stato l’unico europeo ad aver completato il viaggio dell’India attraverso Lhasa per tornare, poi, per la stessa via (14).

 

Il Tibet nel XIX e XX secolo

L’attrazione esercitata dal Tibet sugli esploratori risponde a diverse motivazioni, siano esse politiche, spirituali, religiose, scientifiche. Quel che è certo è che gli anni che coprono tutto l’ottocento e gli inizi del novecento furono l’età dell’oro dell’esplorazione. L’aumento della potenza dei poteri imperiali del Vecchio Continente s’accompagnò ad una volontà di scoprire nuovi territori inaccessibili e sconosciuti da dominare. L’esplorazione del Tibet risentì largamente di un clima di conquista imperialista e della rivalità coloniale tra la Russia e la Gran Bretagna per il controllo delle regioni strategiche dell’Asia che dal 1813 al 1907 sarà una delle caratteristiche della lotta tra l’impero zarista e l’impero di Sua Maestà. Nel prologo de Il Grande Gioco, Peter Hopkirk scrive: “Stoddard e Conolly sono solamente due dei tanti ufficiali ed esploratori, britannici e russi, che per quasi un secolo parteciparono al Grande Gioco […]. L’immenso scacchiere sul quale si svolse questa oscura lotta per il predominio politico si estendeva dalle cime nevose del Caucaso a ovest, attraverso i grandi deserti e catene montuose dell’Asia centrale fino al Turkestan cinese e al Tibet ad est” (15).

A cavallo tra il 1811 e il 1812, l’esploratore inglese Thomas Manning, primo tra gli abitanti della terra d’Albione, visitò il Tibet raggiungendo Lhasa nel 1812 al seguito di un generale cinese, dando seguito alla prima esplorazione britannica del 1774, anno in cui l’avventuriero e diplomatico scozzese George Bogle penetrò in Tibet attraverso il Bhutan; il suo arrivò a Lhasa è riportato con queste parole: “non c’era nessuna utilità nell’affrettarsi adesso, procedemmo con calma. Non appena la città ci fu chiara, il palazzo del Grande Lama si presentò alla nostra vista. […] Avvicinandoci, ebbi la percezione che sotto il palazzo, su un lato, ci fosse una considerevole distesa di terreno paludoso. Questo mi riportò alla mente il Papa, Roma e ciò che avevo letto sulla palude Pontina. […] I miei occhi erano fissi sul palazzo, vagando sulle sue parti, la cui disposizione, essendo irregolare, fuggì al mio tentativo di analisi. Nell’intero, sembrava essere abbastanza perfetto: ma io non potevo comprendere il piano nel dettaglio” (16). Manning annotò le sue prime impressioni, di giorno in giorno, in un quaderno di massima, che sono stati poi ricopiato dalla sorella. In una delle sue parti più importanti del suo diario, si descrive la sua visita con il Gran Lama.

Dopo Thomas Manning alcun europeo entrò a Lhasa fino a quando il francese Padre Régis Évariste Huc, o più semplicemente Padre Huc, religioso dell’ordine dei Lazzaristi, fu missionario in Cina. In Asia, partendo da Pechino, egli effettuò esplorazioni attraverso il Regno di Mezzo, la Mongolia (Tartaria) fino a penetrare in Tibet intorno alla metà del XIX secolo per proseguire il cammino verso Canton Dopo aver passato diciotto mesi girovagando per l’Asia, Huc giunge a Lhasa il 20 gennaio 1846: “dopo diciotto mesi di lotta contro le sofferenze e le contraddizioni innumerevoli, siamo alla fine arrivati al termine del viaggio, ma non alla fine della nostra miseria. Non avevamo più, è vero, da temere di morire di fame o di freddo, su una terra inabitata; ma delle prove e delle tribolazioni di un altro genere ci avrebbero assaliti senza dubbio, in mezzo a queste popolazioni infedeli, alle quali noi volevamo parlare di Gesù morto sulla croce per tutti gli uomini” (17).

Dal 1870 al 1888 è la volta del colonnello dell’esercito russo Nicolaj Prjevalski che, finanziato dal ministero della guerra e dalla società di cartografia di San Pietroburgo, viaggiò per l’altopiano nel tentativo di approcciare verso Lhasa, senza successo. Il russo percorse la parte lungo il confine settentrionale dell’altopiano dalle rive del Kuku Nor, spingendosi fino al Mur-ussu, uno dei rami sorgentiferi dello Yangtse. Nella regione, gli esploratori al servizio di Mosca sono particolarmente attivi in questo periodo e partecipano al Grande Gioco: “i generali zaristi avevano cominciato a mostrare un allarmante interesse per quella terra di nessuno ad alta quota dove convergono l’Hindu Kush, il Pamir, il Karakorum e l’Himalaya, e dove si incontrano tre imperi: britannico, russo e cinese. I topografi e gli esploratori militari russi, quali il colonnello Nikolaj Prjevalski, si inoltravano sempre più nelle regioni ancora in gran parte non mappate intorno al corso superiore dell’Oxus, e perfino nel Tibet settentrionale” (18).

Di importanza capitale per lo studio dell’altopiano tibetano sono le spedizioni del geografo svedese Sven Hedin che giunse in Tibet in tre differenti spedizioni: la prima, dopo la traversata del  deserto di Taklamakan  nella quale solo lui ed un altro membro della spedizione sopravvissero, arrivò in Tibet  e, da qui, a Pechino; tra il 1899 e il 1902  tornò in Asia Centrale e mappò il Tibet; tra il 1905 e il 1909  studiò la catena dell’Himalaya, dove trascorse molto tempo nella regione dell’altopiano e dove probabilmente divenne il primo europeo a comprendere il sistema montuoso trans-himalayano.

Nel 1921, il generale di brigata dell’esercito britannico percorse a piedi la distanza tra Pechino e Lhasa da dove inviò il celebre cablogramma “Lhasa, Englishman first”, primo a penetrare in Tibet da est dopo un viaggio oltre 6.300 miglia percorse in 37 tappe.

 

L’Italia in Tibet

La prima metà del XX secolo vide spiccare anche nomi italiani tra gli spedizionieri che si recarono nella terra del buddismo.

Nel 1913, Giotto Dainelli e Filippo De Filippi erano compagni della grandiosa spedizione in Asia Centrale organizzata da quest’ultimo, impresa che nel pensiero di Sven Hedin è degna di menzione perché senza eguali dal punto di vista puramente scientifico e considerata la più importante missione italiana di tale natura in Asia. Nel corso del viaggio furono condotti rilevamenti topografici e rilievi glaciologici oltre ad indagini antropologiche e antropo-geografiche.

Negli anni successivi alla Grande Guerra che imperversò nel vecchio continente, cessata la diretta attività esplorativa, il De Filippi si dedicò allo studio dei dati raccolti nella grande spedizione del 1913-14 e alla divulgazione dell’opera di padre Ippolito Desideri mentre, nel campo degli studi orientali, stava nascendo l’astro luminoso di Giuseppe Tucci che, spintosi fino al cuore del Tibet, fino ad allora impenetrabile soprattutto per quel che concerne il pensiero filosofico e religioso, svelò i contenuti più profondi e le radici storiche della cultura tibetana. Anche se l’interesse manifestato dal maceratese non afferisce primariamente al campo della geografia, il contributo del Tucci fu tutt’altro che marginale dal momento che in tutte le sue opere inserì rilevanti notazioni di carattere cartografico che portarono a significative correzioni sulle carte conosciute del Tibet. L’interesse era, però, orientato al buddismo nel quale riconosceva il coronamento della filosofia indiana classica, un ambito di studi pressoché sconosciuto come la terra che ne ospitava lo sviluppo; già nel 1931 penetrò brevemente in Tibet ma soltanto due anni più tardi il Tucci si spinse ad occidente fino a Gartok visitando, al ritorno, le rovine di Tholing e di Tsaparang, luogo in cui fu istituita la prima missione gesuita da De Andrade e centri importanti dell’ormai dissolto regno di Guge. L’evento storico fu documentato dall’Istituto Luce che immortalò sulla pellicola il momento dell’alzabandiera. Nel 1935 lo troviamo ancora sull’altopiano occidentale dove visitò il Monte Kalash e il lago Manasarovar, zona della prefettura di Ngari, situata nell’attuale Xizang/Tibet, di interesse geografico, geologico e religioso. Quel che muove la curiosità dello studioso italiano è il fatto che colonne di pellegrini di quattro confessioni religiose giungessero devote fino a questo monte sacro. Già nella sua relazione, Padre Ippolito Desideri, scrisse che “v’è quivi fuori di strada un monte sterminatamente alto, molto largo di circuito e alla sommità ricoperto dalle nuvole e da perpetue nevi e ghiacci, e, nel resto molto orrido, scabroso e rigido per l’acerbissimo freddo, che in esso fa. I Thibetani vanno con molt’incommodo a far il giro di tutto quel monte, che richiede alcuni giorni, e in ciò stimano di conseguir grandissime indulgenze” (19).

Il Tucci tornò altre volte ai piedi dell’Himalaya per dedicarsi allo studio della regione centrale del Tibet fino a quando, da solo, nel 1948 raggiunse la capitale Lhasa, per buona parte della sua storia avvolta da alone mitico e irraggiungibile città proibita.

Andrea Turi

NOTE

1 Luigi Raffaelle Formiggini, Nuovo Dizionario Geografico, Giovanni Bernardoni, Milano 1814, 4 voll., R-Z, p. 328

2 Malte-Brun, Geografia universale o descrizione di tutte le parti del mondo trattata d’un nuovo piano, Sonzogno e Compagni, Milano, 1815, Vol. 3, p. 525

3 Kashgar  o  Kashi  (350.000 ab.) è una  città  della  provincia autonoma dello Xinjiang, in  Cina. Si trova presso un’oasi  del  deserto di Taklamakan. È sede di uno dei più interessanti bazar settimanali (Bazar della domenica) e mercati settimanali del bestiame (detto “Mercato dei cammelli”), ed è un luogo storico di incontro di genti lungo la  Via della seta. La  strada del Karakorum  la collega al  Pakistan  attraversando il  passo Khunjerab. Attraverso ilpasso Torugart  (3.752  m) e il  passo di Irkeštam  si raggiunge invece il  Kirghizistan  rispettivamente nel Sud e nel Sudovest del Paese (verso  Biškek  o verso  Oš). Attraverso il  passo Kulma, infine (chiuso al turismo internazionale) si passa in  Tagikistan  valicando il  Pamir.

4 Giovanni da Pian del Carpine, Historia Mongalorum, viaggio di F. Giovanni da Pian del Carpine ai Tartari, Tipografia Carnesecchi e Figli, 1913, p. 172.

5 Il sinologo e tibetologo Rolf Stein sostiene che il nome che i tibetani danno al loro paese sia reso e preservato dai loro vicini indiani del sud come Bhoṭa, Bhauṭa or Bauṭa. È stato anche suggerito che questo nome si ritrova in Tolomeo e nel Periplus Maris Erythraei, una narrazione greca del primo secolo, dove il fiume Bautisos e di un popolo chiamato Bautai sono menzionati in connessione ad una regione dell’Asia centrale. Ma non abbiamo conoscenza dell’esistenza dei tibetani in quel momento. http://en.wikipedia.org/wiki/Definitions_of_Tibet

6 http://virgo.unive.it/ecf-workflow/books/Ramusio/commenti/R_II_36-main.html

7 http://virgo.unive.it/ecf-workflow/books/Ramusio/commenti/R_II_37-main.html

8 Alla scoperta del Tibet, E.M.I., Bologna, 1977, pp. 28 – 33.

9 Tucci in Giuseppe Maria Toscano, op. cit., p. 75. Continua la citazione: Ho detto il primo perché è ormai accertato che né Marco Polo né Odorico da Pordenone effettivamente vi penetrassero ma che solo ne sfiorassero le province di confine, riferendo poi le notizie che i loro informatori avevano loro narrato.

10 All’epoca del resoconto le corone di Spagna e Portogallo erano unite. Lettera riportata in Giuseppe Maria Toscano, op. cit., pp. 81 e ss.

11 Giuseppe Maria Toscano, op. cit.

12 L’opera del Kircher è scaricabile a questo indirizzo internet: http://polib.univ-lille3.fr/documents/B591786101_I-17-1667-1-3_IMG.pdf mentre qui l’incisione con soggetto il Potala http://en.wikipedia.org/wiki/Athanasius_Kircher

13 Tralasciamo qui la figura del Desideri cui abbiamo dedicato l’articolo Ippolito Desideri, un missionario alla scoperta del Tibet, https://www.cese-m.eu/cesem/2015/02/ippolito-desideri-un-missionario-alla-scoperta-del-tibet/

14Il viaggiatore olandese ha lasciato una cartina dei territori a Est della catena dell’Himalaya. http://fr.wikipedia.org/wiki/Samuel_van_der_Putte#/media/File:Map_of_the_eastern_Himalayan_countries_by_Samuel_van_der_Putte.jpg

15 Peter Hopkirk, Il Grande Gioco, Adelphi, Milano, 2004, p. 24.

16 Robert Clements, Narratives of the mission of George Bogle to Tibet, and of the journey of Thomas Manning to Lhasa, Londra, 1876, pp. 255 – 256.

17 Père Huc, Souvenirs d’un voyage dans la Tartarie et le Thibet suivis de L’Empire Chinois, Omnibus, 2001, p. 420.

18 Peter Hopkirk, op. cit., p. 498.

19 Passo citato in Enzo Gualtiero Bargiacchi, In Asia centrale dopo De Filippi: Giuseppe Tucci, Memorie Geografiche, n. 8, 2009, pp. 169 – 170.

 

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