Lo Xizang, una storia cinese

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“La Repubblica Popolare Cinese e il Tibet”, progetto di ricerca del Centro Studi Eurasia e Mediterraneo

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo l’introduzione di Lorenzo Salimbeni, Presidente del Centro Studi Eurasia-Mediterraneo, al volume, fresco di stampa, curato del CeSE-M Alla scoperta del Tibet. Storia, paesaggi e prospettive (Anteo Edizioni, Cavriago 2015), contenente contributi di Marco Costa, Andrea Turi e Stefano Vernole.

Un’impervia regione di montagna che a distanza di mezzo secolo continua a godere dei benefici di una riforma agraria capace di sradicare i privilegi di una teocrazia che aveva fra l’altro perso gran parte della propria spiritualità e si era impastoiata nei meandri secolari.

Un tessuto produttivo che in cinquant’anni ha incrementato il proprio PIL di 300 volte e beneficia di consistenti sovvenzioni e investimenti da parte del governo centrale, il quale ha investito in una robusta infrastrutturazione innervata su autostrade e tratte ferroviarie ad alta velocità.

Una regione autonoma che, in virtù delle proprie specificità culturali ed etniche, gode del bilinguismo, ma anche dell’istruzione gratuita e di un servizio sanitario capillare.

Il suo capoluogo primeggia da tempo nelle graduatorie nazionali riguardanti la qualità della vita, con particolare riferimento agli indici di sicurezza e di funzionalità dei servizi pubblici urbani.

Tutto questo caratterizza la Regione autonoma cinese dello Xizang (nome che significa “dimora del tesoro occidentale”), la quale potrebbe pertanto ben esemplificare l’ennesimo miracolo economico che la Repubblica Popolare Cinese ha compiuto in questi ultimi decenni. Il nome di per sé tuttavia dice poco, né aiuta il lettore occidentale medio sapere che tale area racchiude alcune di quelle prefetture dell’ovest della Cina che finora sono rimaste al di fuori dell’ancor più vorticoso sviluppo che ha interessato la fascia costiera e le metropoli immediatamente adiacenti.

Se, invece, si usa il nome tradizionale “Tibet”, la percezione cambia completamente ed entra in gioco quella costruzione retorica e propagandistica che i media mainstream congiuntamente ai think-tank statunitensi hanno intessuto attorno alla figura di Tenzin Gyatso, meglio noto come “il Dalai Lama”, Premio Nobel per la Pace 1989. Riconoscimento invero singolare per colui il quale trent’anni prima aveva scatenato una cruenta rivolta armata e negli anni seguenti, sostenuto dalla CIA e dall’India, contrapposta a Pechino da vertenze confinarie attinenti in parte proprio il Tibet, aveva fomentato richieste d’indipendenza inducendo alcuni suoi seguaci a gesti eclatanti come ad esempio immolarsi dandosi fuoco, compiendo così un gesto contrario all’etica buddhista tibetana. Ricordato come tale leader politico appaia discutibile anche nei panni di guru spirituale, in quanto avversato dai tibetani afferenti alla scuola buddhista Shugdenpa, per meglio delineare questo controverso personaggio rimandiamo tuttavia all’opera di Maxime Vivas “Dietro il sorriso. Il lato nascosto del Dalai Lama”, recentemente tradotto da Anteo Edizioni. La presente opera collettanea si pone, invece, in continuità con un’altra pubblicazione della dinamica casa editrice di Cavriago, vale a dire “Tibet, crocevia tra passato e futuro. Storia, sviluppo e potenzialità della regione autonoma cinese” di Marco Costa. Quest’ultimo fa parte, assieme a Stefano Vernole e Andrea Turi, del gruppo di lavoro del Centro Studi Eurasia-Mediterraneo che ha elaborato quest’excursus di storia e attualità tibetane, spaziando dalle vicende più remote e quasi leggendarie sino a giungere ai più moderni piani di sviluppo turistico, passando per i dati macroeconomici che avvalorano l’impegno profuso da Pechino nell’accompagnare nel terzo millennio una marca di frontiera che era per certi versi rimasta ferma al medioevo.

Il separatismo tibetano eterodiretto rientra in quel vasto piano di destabilizzazione bene analizzata da François Thual nel saggio “Il mondo fatto a pezzi” (Parma 2008) e finalizzata a creare una geopolitica del caos che sembra l’unica condizione in grado di mantenere in forze l’egemonia unipolare a stelle e strisce. Creare Stati artificiali come il Kosovo; alimentare movimenti separatisti soffiando sul fuoco degli opposti nazionalismi ovvero degli integralismi religiosi, come succede nell’estero vicino della Russia; riportare in auge assetti statuali confacenti agli interessi coloniali come sta accadendo in Libia e Siria: tutti questi elementi destabilizzanti convergono nello scenario tibetano. Incastonato nel cuore dell’Asia, tale territorio è una sorta di anello di congiunzione tra la sfera d’interesse russa, l’India e la Cina, gli assi portanti del BRICS ed i punti di riferimento per chi auspica un mondo multipolare. Destabilizzare il Tibet significa, però, creare problemi soprattutto al colosso economico cinese, il quale già sul fronte marittimo si trova costretto a fronteggiare interlocutori privilegiati di Washington (Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Filippine e Vietnam). I fondamentalisti islamici radicati tra gli uiguri dello Xinjiang (confinante con il Tibet ed ancora più nevralgico nei collegamenti sinorussi) e le varie campagne internazionali “Free Tibet” sono i grimaldelli con cui gli assetti atlantisti cercano di minare la frontiera occidentale del Dragone.

Vale la pena a questo punto ricordare come l’unificazione del Tibet in un regno risalga al VII secolo d.C. a opera di Songtsen Gampo, ma nei secoli successivi Lhasa avrebbe intensificato il suo legame con il Celeste Impero, soprattutto al fine di ottenere protezione dalle incursioni mongole. Risale al 1720 (ben prima che gli Stati Uniti d’America nascessero ovvero cominciassero ad espandere i propri territori a scapito di nativi e Stati confinanti) la spedizione militare dell’Imperatore Kangxi della dinastia Manciù capace di debellare definitivamente la minaccia dei discendenti del Gran Khan, sicché l’anno seguente, dopo che già da 80 anni il regno tibetano era tributario del potente vicino, il Lungo Decreto determinò l’ingresso del regno nella compagine imperiale. Tale appartenenza sarebbe stata messa in discussione solamente nel mesto periodo della storia cinese che rimase noto come il Secolo delle umiliazioni (1839-1949), caratterizzato dalle Guerre dell’Oppio (1839-1842 e 1856-1860), dalle concessioni commerciali e territoriali estorte dalle potenze coloniali europee ed extraeuropee (USA e Giappone), dalla repressione della rivolta dei Boxer (1900) e pure dall’infiltrazione britannica in Tibet. Nel 1888 e nel 1904 spedizioni provenienti dall’Impero indiano consentirono a emissari di Sua Maestà di prendere il controllo dei valichi di confine tibetani, imponendo alla decadente dinastia Qing di accettare l’ennesimo fatto compiuto. La terza incursione avvenne nel 1912, durante la delicata transizione alla repubblica: la burocrazia dello Stato fondato da Sun Yat-sen si era dotata immediatamente di un Ufficio per gli affari mongoli e tibetani, ma a Lhasa e dintorni personale inglese e indiano aveva già preso il controllo di dogane, principali vie di comunicazione e stazioni.

Nell’imperversare della guerra civile e dell’espansionismo nipponico, il Dragone cinese non ebbe modo di rimediare a questa usurpazione di sovranità, però il movimento nazionalista Kuomindang, il quale godeva del sostegno angloamericano, considerava il Tibet come parte integrante della nascitura nuova Cina e la fazione maoista non era da meno. D’altro canto monaci e laici tibetani sostennero lo sforzo del legittimo governo cinese impegnato contro l’invasione giapponese e non si riscontrarono significative adesioni a movimenti che si riconoscessero nei postulati della cosiddetta “Sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale” patrocinata da Tokio.

La stabilizzazione conseguita alla sconfitta di Chang Kai-shek consentì alla neonata Repubblica Popolare Cinese di occuparsi in maniera adeguata alle problematiche tibetane: nel 1951 un accordo in 17 punti tra le gerarchie locali ed il governo centrale ridefinì l’appartenenza di Lhasa all’ecumene cinese, ma già operavano con funzioni destabilizzanti agenti della CIA, i quali facevano leva su quei gangli della teocrazia lamaista che vedevano i propri privilegi secolari erosi dai progetti riformisti di Pechino, con particolare riferimento alla riforma agraria. Il 19 marzo 1959 il Dalai Lama dette il via libera all’insurrezione armata, la quale esordì compiendo uccisioni e attacchi nei confronti della comunità cinese di etnia Han. L’intervento della XVIII Armata agli ordini del Generale Zhang Guohua ristabilì l’ordine prima che forze statunitensi o britanniche potessero interferire, costringendo a riparare in India i vertici della sedizione, Dalai Lama compreso. Nuova Delhi auspicava di risolvere le proprie vertenze confinarie con la Cina (destinate a sfociare in guerra aperta nel 1962) favorendo il separatismo tibetano, in maniera tale da rapportarsi a nord con un interlocutore più debole e malleabile; altrettanto strumentale si sarebbe rivelato l’appoggio di Washington, destinato a scemare in seguito alla “diplomazia del ping-pong” ed ai successivi distensivi sviluppi giunti a maturazione negli anni Settanta del secolo scorso.

Solamente nel 1989, in concomitanza con il crollo del Muro di Berlino e contestualmente ai disordini che portarono alle manifestazioni di Piazza Tienanmen, Tenzin Gyatso sarebbe tornato alla ribalta chiedendo l’indipendenza integrale del Tibet e ricevendo il già ricordato Premio Nobel. Ben presto costui si sarebbe trasformato in un’icona del mondo occidentale e la sua immagine sarebbe stata associata a sempre più vip dello sport e di Hollywood, i quali, benché protagonisti del mondo consumista e tutt’altro che assenti dalle più importanti passerelle mondane, amavano presentarsi come devoti buddhisti, laddove i tibetani che praticavano il culto di Dorje Shugden incappavano negli strali del Dalai Lama. Ai fan del Dalai Lama poco importava sapere che le prerogative derivanti dallo status di regione autonoma avevano consentito fra l’altro al Tibet di triplicare in neanche cinquant’anni la popolazione e di raddoppiare l’aspettativa di vita né che l’appartenenza alla Cina significava partecipare al vorticoso sviluppo economico del Dragone che stava prendendo il via negli anni Novanta. A differenza di Macao e di Hong Kong, che rientravano proprio in questo periodo nella piena sovranità cinese dopo un’epoca di presenza coloniale e quindi necessitavano della transizione prevista dal modello “un Paese, due sistemi”, per il Tibet, in quanto già parte integrante della Repubblica, le autorità cinesi mantennero l’assetto della regione autonoma, stabilita nel 1965 (così come per lo Xinjiang).

Nonostante le autoimmolazioni e gli inviti al boicottaggio orchestrati dal Dalai Lama in concomitanza con le Olimpiadi pechinesi del 2008, la sovranità cinese si conserva e si manifesta in nuovi progetti di sviluppo, il più importante dei quali, la nuova Via della Seta declinata come “Una cintura, una strada”, interesserà anche le aree confinarie del Tibet ed il Libro Bianco pubblicato nell’aprile 2015, in occasione dei 50 anni dell’autonomia tibetana, definisce le nuove ambiziose prospettive di sviluppo economico, sociale e culturale nel rispetto delle specificità etniche e religiose radicate sul territorio.

Lorenzo Salimbeni

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