L’Islam balcanico tra Europa e Vicino Oriente

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Progetto di ricerca CeSEM, FOCUS – Balcani, la storia in movimento: quali conseguenze per l’Europa?

1389: battaglia di Kosovo Polje ovvero “della Piana dei Merli”. Questo evento bellico fu l’inizio palese di un espansionismo turco pianificato nei Balcani, che dovrà confrontarsi con entità nazionali e trans-nazionali come le province del Sangiaccato e della Rumelia. Per quanto già precedentemente sotto l’influenza culturale islamica, si hanno fonti certe a partire dal IX secolo in merito a musulmani bosniaci che iniziano ad essere reclutati come pretoriani nei sultanati andalusi svolgendo un ruolo simile a quello dei turchi a Baghdad. Si può parlare di una presenza musulmana in area balcanica, in particolare bosniaca, anche dal punto di vista della gestione amministrativa e del controllo diretto di uno stato islamico sul territorio solo dalla seconda metà del XV secolo, in seguito all’invasione almeno inizialmente più militare che culturale da parte dell’Impero Ottomano e la capitolazione del Regno di Bosnia (1463) ad opera del sultano condottiero Maometto II che da poco più di un decennio aveva consolidato la sua egemonia su Costantinopoli.

La nota ricchezza mineraria dei Balcani e il loro ruolo geografico di accesso all’Europa meridionale attirarono gli imperatori turchi. Nonostante l’inesorabile ridimensionamento del peso internazionale dell’Impero, l’area balcanica interessata dalla dominazione islamica conobbe un periodo di crescita culturale ed economica e di relativa pace, alcuni centri urbani come Sarajevo e Mostar registrarono uno sviluppo urbanistico e demografico piuttosto rilevanti. In epoca coeva al Rinascimento italiano assistiamo ad un momento di espansione militare turca seguito da una fioritura artistico culturale. Quest’ultima, tuttavia, fu caratterizzata anche e soprattutto dai prodromi del disfacimento dell’egemonia militare nel Mediterraneo orientale e nei Balcani, in favore della rivale commerciale Venezia, iniziati fondamentalmente nell’ultimo periodo crociato e riconoscibili nell’evento storico apicale della sconfitta nella battaglia navale di Lepanto (1571), nel fallimentare secondo assedio di Vienna del 1683, che provocò ripetute invasioni austriache nei Balcani tra il 1688 e il 1697, il conseguente trattato di Carlowitz (1699) e la pace di Passarowitz (1718), i quali contribuirono a porre la Bosnia sempre più sotto il controllo austriaco.

Non possono sfuggire ad una corretta analisi la capacità da parte delle autorità ottomane di sfruttare gruppi minoritari cristiani, soprattutto contadini, come mercenari e gli attriti dovuti non a discriminazioni religiose a sfavore dei cristiani stessi, ma meramente sociopolitiche. L’aristocrazia terriera non gradiva le condizioni sfavorevoli imposte dal governo di Costantinopoli, per esempio propenso a rimodernare il sistema fiscale, alcuni aspetti del diritto patrimoniale e ad eliminare la servitù della gleba: tali propositi riformistici sarebbero diventati alcuni tra i fattori decisivi per l’alleanza tra regni cristiani e nobili serbo-bosniaci al fine di ostacolare il potere turco nei Balcani.

Senza omettere il fatto che i musulmani di Bosnia si sono sempre considerati una elite rispetto ai turchi, poiché convinti di essersi convertiti all’Islam prima di loro o per lo meno prima della loro venuta. Va inoltre ricordato che almeno fino al XVII secolo le carriere militare e diplomatico-politica hanno visto un sorprendente protagonismo di esponenti del mondo cristiano, inoltre l’impronta tipicamente islamica della non intransigenza religiosa emergerà anche in casi piuttosto significativi come per esempio il massiccio esodo di popolazioni di religione ebraica di orientamento sefardita dalla Spagna sconvolta dai deliri ostracisti della Reconquista, che trovarono rifugio e possibilità di stabilizzarsi sotto la protezione ottomana.

Le pressioni su quest’area provenienti da due grossi imperi come quello russo e austriaco e secondariamente dal Regno di Serbia provocarono una progressiva ritirata dell’Impero Ottomano, sancita definitivamente dal Congresso di Berlino (1878), secondo i cui atti dell’omonimo trattato si decretava l’aumento progressivo dell’egemonia austriaca e russa in area balcanica a scapito di quella turco-ottomana e il protettorato di Vienna sulla Bosnia, consolidatosi con l’annessione del 1908 e durato fino al 1918 con la disfatta nella Prima Guerra Mondiale. L’accettazione in Bosnia di uno stato fortemente connotato con la cristianità come l’Austria si spiega con il fatto che il Ministero degli Affari Esteri asburgico si batté per riconoscere la nazione bosniaca in quanto tale. I nazionalisti bosniaci in grandissima maggioranza di fede islamica dimostrarono di gradire moltissimo il riconoscimento nazionale che faceva passare in secondo piano le differenze religiose, al contrario di quanto non era avvenuto con i turchi e di quanto non sarebbe poi avvenuto sotto il governo jugoslavo. Quest’ultimo avrebbe visto nei musulmani e in particolare nel JMO (Associazione dell’unità musulmana) un fortissimo elemento disgregante dell’unità della neonata Repubblica Federativa, tanto che si inizia a parlare di attività di rappresaglia anti-islamica già dal 1948 presso Sarajevo e Novi Pazar, antico centro del Sangiaccato, per mano del direttore dell’OZNA (il servizio segreto di Tito) Aleksandar Rankovic.

Tra la fine del XIX secolo ed il 1920, gli esiti di vari conflitti locali ed i trattati successivi alla Grande Guerra annientarono le ambizioni imperiali turche nei Balcani. Si potrebbe ricordare l’Impero Ottomano come un’entità culturalmente composita e variegata, alla quale non seguì mai un altrettanto composito pluralismo politico. Con il defluire della dominazione turca fino alla disgregazione della ex-Jugoslavia l’unico paese a maggioranza islamica nei Balcani come in tutta Europa fu l’Albania, che però, a differenza della Bosnia, che professava l’Islam anche in epoca pre-turca, fu islamizzata solo con l’arrivo dei turchi stessi appena nel XVII secolo.

Nella Repubblica Federativa Popolare Jugoslava si delineò un connubio tra Islam e socialismo non nuovo nella storia contemporanea di questa religione, soprattutto se si pensa al successo e alla diffusione del baathismo. Nel 1963 Belgrado si dotò di una costituzione su stampo federale che per esempio consentì alla Bosnia-Erzegovina di avviare un processo politico, realizzatosi pienamente appena nel 1968, tale per cui non doveva connotarsi più solo come minoranza linguistica, bensì come entità regionale con caratteristiche proprie specifiche. In tutto ciò si delineava naturalmente anche la connotazione sottintesa di regione a maggioranza islamica, in particolare di orientamento sunnita hanafita, definita e tutelata per legge, della quale però si poteva far menzione solo associando la propria attestazione di fede religiosa a quella di appartenenza politica, naturalmente comunista. Il concetto di “nazione” musulmana anche se solo come entità culturale trovò il riscontro formale dei numeri appena nel 1971, allorquando, in funzione di un importante evento storico quale il censimento nazionale di quell’anno e di uno successivo dieci anni più tardi, lo stato jugoslavo ritenne necessario tradurre il composito mosaico etnico balcanico in categorie etnico-religiose. Fu in quell’occasione che un funzionario di stato bosniaco Avdo Abdullah Humo pronunciò un famoso discorso contro le aggressioni serbe alla comunità islamica jugoslava e contro il rifiuto dei serbi di accettare il nazionalismo islamico bosniaco.

Tuttavia i musulmani di Bosnia non ottennero mai in questa regione un potere superiore agli altri gruppi etnici, croati e serbi, cosa che produsse una profonda frustrazione nell’opinione pubblica bosniaca. Proprio quest’ultima venne anzi manipolata per evitare di corroborare il senso di appartenenza bosniaco in funzione anti-nazionale o ancor peggio di incentivare un sentimento “panislamico balcanico”, creando una solidarietà politica tra tutti i gruppi islamici dei Balcani dentro e fuori i confini della Jugoslavia.

Contestualmente alla dissoluzione della Jugoslavia tra il 1991 e il 1992, in Bosnia tra il 29 febbraio e l’1 marzo 1992 venne indetto un referendum per sancire l’indipendenza e redigere uno statuto etnico che venne boicottato dai serbi. Lo scopo venne raggiunto in aprile di quell’anno, grazie ad un riconoscimento internazionale. La situazione delle minoranze etniche all’interno della Bosnia sostanzialmente ricalcava quanto accadeva a livello nazionale. Fu Alija Izetbegovic, bosniaco musulmano tra i fondatori del Partito musulmano di azione democratica, a rivendicare in chiave laica e democratica uno stato bosniaco islamico. Il percorso politico teorizzato da Izetbegovic venne interrotto dal venir meno dell’appoggio dei croati di Bosnia, che, pur rappresentando non più del 17% della popolazione, chiedevano un ruolo di primo piano nel governo della neonata repubblica bosniaca. Nel mese di giugno del 1992 fu addirittura l’OIC (Organization of Islamic Conference), l’organo collegiale dei ministri degli esteri dei principali paesi islamici, ad attivarsi attraverso una mozione sostenuta da 47 ministri, i quali chiesero un intervento militare unitario islamico contro la Serbia, con la motivazione di interrompere i genocidi e difendere le rivendicazioni autonomiste dei musulmani di Bosnia. In realtà, al di la di questi organi internazionali, il mondo islamico si coalizzò in una Jihad contro la Serbia che provocò l’arrivo di molti mujiahiddin sul territorio della ex-Jugoslavia, che si impegnarono a combattere contro l’esercito serbo. Vennero così a rafforzarsi quei legami internazionali tipici tra paesi islamici che già la Bosnia aveva avviato prima del 1991. Malgrado fino ad un periodo compreso tra il 1992 e il 1995, anno dell’accordo di Dayton, non si possa parlare di uno stato ex-jugoslavo a maggioranza islamica vero e proprio, il retaggio culturale coranico è sopravvissuto indefesso alle influenze degli imperi cristiani e all’esperienza socialista di Tito, senza dimenticare, per esempio, il fatto che nella regione bosniaca si stampavano giornali in caratteri arabi come la rivista “Preporod”.

Ancora oggi i Balcani sono ricettacolo di miliziani islamici della Jihad, ma questa volta il loro terreno di scontro non si trova lì, bensì in Siria. Molti musulmani di orientamento sunnita, soprattutto di origine europea, tra cui molteplici albanesi, sembra vengano convogliati in appositi campi di addestramento per essere poi inviati in Siria a combattere contro le truppe di Bashar al-Assad. Con tutto ciò si intersecano naturalmente le attività criminose tipiche della zona, come il commercio illegale di stupefacenti, armi e organi umani. La Russia si sta opponendo con fermezza attraverso la sua diplomazia, anche se controllare dei territori del genere non è impresa facile. In guisa di novelli giannizzeri, in grado di destabilizzare la Siria così come l’area europea, tali miliziani che si addestrano nei Balcani alimenteranno la loro feroce motivazione finché la guerra in Siria non sarà conclusa, ovvero fino a quando i loro emissari non additeranno un nuovo bersaglio da mettere in crisi.

Emanuele Bossi

* Emanuele Bossi è Dottore di ricerca in Geostrategia e coautore di “Nel cuore di Hezbollah. Analisi della composizione, dell’attività e degli assetti geostrategici in cui opera il Partito di Dio” (Anteo, 2012).

 

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