FOCUS BALCANI – Ingredienti per una nuova guerra dei Balcani

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Progetto di ricerca CeSEM, FOCUS – Balcani, la storia in movimento: quali conseguenze per l’Europa?

La guerra in Ucraina riguarda indirettamente la questione dei Balcani. La situazione di queste nazioni dallo smantellamento della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, è pertanto sempre preoccupante, in quanto le operazioni militari americano-occidentali non hanno apportato la pace e la prosperità come preteso da quanti volevano giustificarle ma guerra e povertà, al punto che gli antagonismi tra le etnie e le religioni sono sempre presenti e mantengono la regione instabile. I “conflitti congelati” della ex Jugoslavia sono altrettante bombe a scoppio ritardato innescate dagli occidentali e non chiedono che di esplodere. Alcuni si attivano per farlo.

Se si consulta una carta, si vede che a causa della loro posizione geografica gli Stati e le entità derivanti dalla ex Jugoslavia, che siano la Serbia, la Macedonia e la Republika Srpska, alle quali si devono aggiungere al di fuori di quest’ultima l’Ungheria e la Grecia, formano una spina nelle retrovie delle postazioni avanzate della NATO come la Romania e la Bulgaria.

Certamente l’Ungheria e la Grecia sono anch’esse paesi della NATO ma il Presidente della prima intrattiene delle buone relazioni con Vladimir Putin e la seconda, malgrado i problemi che oggi sono ben noti, è il solo paese della NATO a non aver partecipato ai bombardamenti della Serbia nel 1999 e dovrebbe anch’essa intrattenere buone relazioni con la Russia.

C’è all’interno di quello che viene chiamato il Corridoio energetico n. 10, tra la puszta ungherese e il porto di Salonicco, una falla nel dispositivo euro-atlantico, un piccolo vuoto che l’Occidente cerca di colmare in tutti i modi e che domani dovrà destabilizzare o neutralizzare.

 

Lo squartamento serbo
Tra l’Est e l’Ovest. Tra la Russia e la “ZOA, Zona di Occupazione Americana”, secondo un’espressione ripresa da Henri Gobard (1). La Serbia è anch’essa allo stesso tempo libera e occupata. Libera perché il suo popolo slavo ortodosso si sente vicino ad una Russia di cui condivide la scrittura in cirillico e un rigetto maggioritario dell’Unione Europea e ancora di più della NATO. I sondaggi effettuati dopo i bombardamenti dell’Alleanza Atlantica lo mostrano senza possibilità di equivoci. Occupata perché la classe politica è in maggioranza collaborazionista, la stampa è interamente nelle mani e dalla parte dell’Occidente, le imprese e le ricchezze del sottosuolo sono state sgraffignate dalle società occidentali o dagli interessi delle petromonarchie arabe.
Dopo la caduta di Slobodan Milosevic la democratizzazione e la libertà della stampa e del commercio si sono tradotte nella dominazione americano-occidentale sul “bestiame” politico, sui media scritti e audio-visivi così come sulle risorse.
Generato da una scissione organizzata alle spalle dei Radicali da Washington e Londra, il principale partito al potere si è fatto eleggere su una piattaforma patriottica per tradire le sue promesse elettorali.
Il Partito progressista serbo non è differente da quei puri artisti di centro destra che occupano la scena politica nei loro rispettivi paesi per applicare le parole d’ordine e le misure dettate da Washington e da Bruxelles.
Anche se la Serbia non è ancora nell’Unione Europea né nella NATO, si comporta la maggior parte del tempo come uno Stato allineato su questo Occidente.
La maggior parte del tempo ma non sempre, in funzione di ciò che viene ad essere spiegato.
Per gli Occidentali, l’allineamento dello Stato serbo sulla loro politica è insufficiente e suscita ugualmente su alcuni temi la loro irritazione.
La mancanza di entusiasmo nei riguardi di ciò che è considerato nelle capitali occidentali come un criterio di democrazia e di diritti dell’uomo è costantemente rilevato e fatto oggetto di critiche e rimostranze: è il caso del blocco dell’annuale gay pride che vede il suo corteo proibito o limitato a seconda degli anni.
Le buone relazioni bilaterali tra Belgrado e Mosca suscitano anche l’ira delle capitali occidentali. Per esempio la Serbia non si è allineata sulla politica delle sanzioni nei confronti della Russia per la questione dell’Ucraina.
La presenza del Presidente Tomislav Nikolic a Mosca il 9 maggio per la celebrazione della Vittoria sovietica è fortemente dispiaciuta all’asse euro-atlantico.
Come la visita di Vladimir Putin per il settantesimo anniversario della liberazione di Belgrado, le manovre militari congiunte dell’Esercito Serbo e dell’Armata Rossa in Sirmia, la base di difesa civile serbo-russa per le situazioni d’emergenza a Nis, non lontano dal Kosovo e Metohija e dalla Macedonia…
Queste buone relazioni con la Russia devono molto all’Ambasciatore della Serbia a Mosca Slavenko Terzic, un ex dei comitati di difesa di Slobodan Milosevic. La politica del potere serbo è considerata come ambigua e suscettibile di cadere dalla parte sbagliata appena dovesse verificarsi un avvenimento importante. Un responsabile americano riteneva da qualche tempo che due paesi non fossero sicuri: la Serbia e l’Ucraina. Queste dichiarazioni datano prima del colpo di Stato (a Kiev n.d.r.) del febbraio 2014.
L’imprevista liberazione in autunno di Vojislav Seselj da parte del Tribunale dell’Aja per “ragioni mediche” ha fatto dire ad alcuni che gli Americani cercherebbero il modo di fare pressioni sui capi del Governo.
Dopo il suo ritorno Seselj ha moltiplicato le riunioni pubbliche e le manifestazioni di piazza, recuperando i suoi sostenitori e quelli passati con gli scissionisti. Si mormora che gli Americani vorrebbero rimpiazzare le pedine. Indebolire il partito al potere e suscitare con altri una coalizione pro-occidentale favorirebbe questo gioco.
Ogni anno l’11 luglio la commemorazione del “massacro” di Srebrenica provoca un grande can can mediatico che permette di dire che i serbi hanno effettuato il più grande massacro in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questa agitazione ha avuto in questi anni un rilievo particolare. All’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), l’8 luglio la Russia ha posto il suo veto a una risoluzione della Gran Bretagna che evocava un “genocidio”. Nessun dubbio che questa situazione intempestiva condannata dalla Serbia ricada tra i mezzi di pressione esercitati contro uno Stato che non è giudicato sufficientemente docile. E’ anche un modo di rilanciare l’agitazione attizzando gli odi.

 

Intrighi in Vojvodina e in Sangiaccato (Raska)

Uno degli errori del maresciallo Tito è stato senza dubbio quello di accordare un’ ampia autonomia alla Vojvodina e al Kosovo. Si sa quello che è successo in Kosovo, si vede quello che alcuni cercano di compiere in Vojvodina. A nord della Serbia, la provincia di Vojvodina interessa i servizi occidentali per due ragioni: l’esistenza di una ventina di minoranze etniche e un particolarismo di origine storica. La Vojvodina ha fatto parte dell’Impero Austro-Ungarico prima di ricongiungersi alla Serbia alla fine della Prima Guerra Mondiale. Durante la Seconda Guerra Mondiale essa fu occupata e divisa in tre parti: un distretto amministrato dall’Ungheria (Backa), un distretto destinato alla Croazia (Baranja), infine una zona direttamente amministrata dalla Germania (Banato).
Dopo il gennaio 2010 la Vojvodina ha ritrovato una certa autonomia ma alcuni vogliono di più. Le tendenze separatiste influenzano alcuni elementi della minoranza ungherese, soprattutto nella regione di Subotica, ma anche una categoria di serbi più o meno nostalgici dell’Impero Austro – Ungarico e che si credono superiori a quelli del Sud. Si pensi alla sindrome della Lega Nord di Bossi ieri in Italia. La nuova presidente americano-croata Kolinda Grabar-Kitarovic, ex Ambasciatrice a Washington poi segretaria aggiunta della NATO, un’amica del segretario di Stato USA Victoria Nuland che ha spesso visitato i Balcani negli ultimi tempi, ha anche delle mira sulla provincia.
Ma la situazione della Vojvodina non è per nulla confrontabile a quella del Kosovo. Nella provincia del nord, i serbi leali sono largamente maggioritari, la minoranza più importante, mentre quella ungherese non rappresenta più del 14% della popolazione. La maggior parte delle altre minoranze sono minoranze slave che vivono in buon accordo con i serbi, in particolare i cechi, gli slovacchi e i ruteni della Vojvodina.
Ciò non impedisce che la Vojvodina sia un bersaglio dei paesi della NATO per destabilizzare completamente la Serbia. Le ONG di Soros la chiamano abusivamente il “Kosovo ungherese”. E’ in Vojvodina, esattamente a Banatski Dvor, che deve essere installato il serbatoio sotterraneo del gasdotto South Stream, progetto che la colonia bulgara ha fatto abortire su ordine dell’Occidente.
Evocando il ruolo delle ONG straniere, in un articolo intitolato “La Vojvodina, prossimo pseudo-Stato in Europa?” lo statunitense Wayne Madsen rileva: “Le diverse agenzie di Soros e dei neoconservatori sono iperattive in Vojvodina. Esse comprendono il National Endowment for Democracy e l’Open Society Institute di Soros. Bojan Pajitic, il presidente del governo provinciale di Vojvodina, che parla correntemente ungherese e inglese, si trova a proprio agio con i quadri delle ONG finanziate da Soros e dalla CIA, che collaborano strettamente con il segretario di Stato aggiunto per gli Affari europei Victoria Nuland, la persona che ha condotto alla vittoria Grabar-Kitarovic in Croazia e che è pronta a provocare una guerra per l’indipendenza della Vojvodina con la complicità dei provocatori professionisti recentemente arrivati dalla Romania, dall’Ungheria, dall’Albania e dai campi rom dei Balcani. Se l’Ucraina è in un qualche modo un modello, ciò che Nuland e i suoi neo-conservatori guardano in prospettiva per la Vojvodina ripulirà la provincia dei suoi abitanti serbi e fornirà un paese amico per le compagnie petrolifere e di gas occidentali al fine di sfruttare le riserve di idrocarburi esistenti nell’est della Vojvodina, una regione chiamata Banato.”
Zona popolata per metà da musulmani, alla linea di demarcazione con il Kosovo e il Montenegro, il Sangiaccato, nome turco, che i serbi chiamano Raska, ha per capitale Novi Pazar. Ancora marcato dall’impronta ottomana, il Sangiaccato appariva ad alcuni come un trait d’union tra il Kosovo strappato alla Serbia e la Bosnia Erzegovina musulmana. Si tratta di un pezzo d’intermedio di ciò che è stata chiamata durante la guerra jugoslava la “Dorsale Verde”. Così come avevano fatto a Pristina allor quando il Kosovo era ancora sotto amministrazione serba, gli americani mantengono a Novi Pazar un centro culturale che non è che una copertura per le loro attività sovversive. Agli inizi degli anni Novanta è da Novi Pazar che partirono i primi “bosniaci” che spararono contro i serbi. Novi Pazar alimenta un importante focolaio wahabita. In caso di nuovo conflitto nei Balcani, bisognerà sorvegliare questa regione.

 

La Republika Srpska tra ricongiungimento e cancellazione

Si è potuto constatare ancora una volta quest’anno a quale livello il montaggio politico-mediatico di Srebrenica riscaldi gli spiriti. L’11 luglio il Primo Ministro serbo Alexander Vucic ha commesso l’errore di assistere alla cerimonia di Srebrenica. Ha evitato il linciaggio solo grazie alla protezione delle sue guardie del corpo. Il veto russo alla risoluzione britannica all’ONU non è senza dubbio estraneo all’incidente che a Belgrado dicono essere stato incitato dai servizi di propaganda di Londra attraverso l’utilizzo degli elementi ostili del Sangiaccato e del Kosovo.
L’anno scorso i tumulti nella parte musulmana della Bosnia Erzegovina avevano come obiettivo, di fatto, la Republika Srpska. L’esistenza di questa entità serba, che beneficia più o meno di tutti gli attributi di uno Stato indipendente, preoccupa in effetti gli Americani e la loro comunità internazionale. La fabbricazione di questo “Stato” per effetto del loro nation building è stato uno scacco. Lo Stato della Bosnia Erzegovina non esiste che sulla carta. Le due comunità principali, la musulmana e la serba, vivono separate. La zona musulmana, in crisi, si è svuotata di una parte della sua popolazione (4), l’economia è vacillante e la gioventù turbata dall’assenza di prospettive. L’emigrazione dalla Federazione di Bosnia Erzegovina (l’entità musulmana) si è diretta principalmente verso Germania e Austria. L’esistenza di un nuovo wahabismo ereditato dalla guerra attira frequentemente l’attenzione su questa piccola comunità internazionale che si presta ad un proselitismo importante. Nello scorso aprile, a Zvornik, un attacco contro un posto di polizia ha ucciso un poliziotto serbo di Bosnia. Un centro islamico radicale si trova dopo la guerra nel villaggio di Gornja Maoca. Secondo alcune fonti, il villaggio di Osva sarebbe un nuovo centro di reclutamento e d’azione dello Stato islamico.
Il motivo dell’ira americano-occidentale nei confronti di Banja Luka (5) è lo stesso che per Belgrado, un allineamento insufficiente sull’Occidente e un riavvicinamento del presidente della Repubblica con la Russia. L’anno scorso, la “Primavera Bosniaca” aveva come reale obiettivo, non tanto di destabilizzare la parte musulmana ma di rimbalzo la Repubblica Serba di Bosnia che gli Occidentali vogliono far rientrare o sopprimere. Tutto ciò che è un ostacolo al piano globale dell’euro-atlantismo deve essere eliminato. Il presidente della RS, Milorad Dodidk, che evoca spesso il ricongiungimento alla Serbia, ha anche avuto il torto di assistere alle cerimonie commemorative del 9 maggio a Mosca. Installato al potere nel 1998 come capo del governo con il sostegno di Slobodan Milosevic (che a Dayton era stato considerato una persona frequentabile) Milorad Dodik doveva assicurare la difficile transizione del dopo Karadzic e, per mancanza di collaborazione, perdere progressivamente il sostegno degli Occidentali.
La “Primavera Bosniaca” faceva allusioni alle famose “Primavere Arabe” che, si sa, hanno portato l’inverno nel deserto. La destabilizzazione della Tunisia e dell’Egitto, la presa del potere dei Fratelli Musulmani prima che venissero indeboliti in Tunisia e scalzati dal vertice in Egitto per mano di un generale che si è riavvicinato alla Russia. Ma l’incrocio dei termini va più lontano. L’ambasciatore di Palestina in Bosnia Erzegovina, Rezeq Namoora, per farsi ben volere a Sarajevo, ha paragonato il territorio di Gaza all’ex enclave di Srebrenica (6). Un paragone infondato ma che dovrebbe imbarazzare Bernard Henri Levy e piacere a Tariq Ramadan, due facce della stessa medaglia del teatrino statunitense. Quando si sa che durante la guerra l’uomo che gli Americani avevano issato al potere nella parte musulmana della Bosnia era il “fratello musulmano” Alija Izetbegovic e che suo figlio Bakir dirige oggi la politica “bosniaca”. Si sa che la direzione politica dell’OLP è, come la direzione bosniaca, nella tasca degli americani…

 

La Macedonia nel mirino

In seno al Corridoio n. 10 la FYROM, nome involontario della Macedonia, presenta la particolarità di essere un paese decisamente vulnerabile. Incoraggiata dal precedente del Kosovo, la sua minoranza albanese richiama delle rivendicazioni etniche e territoriali il cui risultato significherebbe la sua distruzione. Dopo l’indipendenza il 20- 25% degli albanesi di questo fragile Stato hanno avanzato delle rivendicazioni sempre più importanti. Essi volevano un’Università albanese e l’hanno ottenuta. A ovest di una linea che va dalla città di Kumanovo a Struga, passando per Tetovo, Gostivar e Kisevo, gli albanesi dispongono quasi ovunque di un territorio etnico in cui sono maggioritari. La prossimità del Kosovo e dell’Albania danno a queste rivendicazioni un aspetto irredentista o pan-albanese evidente.
Nell’agosto 2001, gli accordi Ohrid furono presentati come un mezzo per fornire agli albanesi “una migliore rappresentazione all’interno della società macedone”. Il bilinguismo nelle municipalità, uno dei termini dell’accordo, è stato trasformato nelle città in cui sono maggioritari in un mezzo per imporre la sola lingua albanese. E con la lingua di espandere il loro potere. E’ così che nello spazio di cinque anni la città di Struga, sul lago di Ohrid, è passata da un equilibrio etno-linguistico precario all’egemonia albanese a spese dei macedoni.
La contestazione del potere in piazza si serve a sua volta delle rivendicazioni permanenti albanesi incoraggiate da Washington e da Bruxelles e dall’opposizione social-democratica sostenuta dagli stessi. Nonostante natura e obiettivi siano differenti, la loro congiunzione puntuale permette una sinergia pericolosa per lo Stato.
Il 9 maggio scorso, abbiamo assistito alla contestazione politica di strada a Skopje e ad un colpo di Stato mancato nella città simbolo di Kumanovo. In quest’ultima, dei commandos armati formati dagli albanesi della Macedonia e del Kosovo dovevano tentare un sollevamento etnico, mentre non lontano da lì alcuni elementi macedoni tentavano una sorta di Majdan a Skopje. I due tentativi dovevano fallire grazie all’energica reazione delle forze dell’ordine a Kumanovo e ad una grande manifestazione del partito al potere a Skopje che succedeva a quella dell’opposizione il giorno prima. Attraverso questa manifestazione che doveva radunare più di 100.000 partecipanti, il VRMO-DPMNE (7) del Primo Ministro Gruevski metteva termine alla contestazione di piazza. Appariva tuttavia evidente che per i protagonisti dell’opposizione, questi due tentativi abortiti non erano che rinviati. Vi saranno altri tentativi.
Nel caso della Macedonia, la data del tentativo di una simil Majdan e del colpo di forza del 9 maggio non è casuale. Uno dei rari presidenti presenti a Mosca quel giorno non era in effetti che il Presidente della Repubblica, Gjorge Ivanov, il quale doveva abbreviare il suo soggiorno nella capitale russa per rientrare precipitosamente a Skopje.
Il VRMO-DPMNE non è un partito solamente nazionalista ma la buona intesa con la Russia dispiace agli “ambasciatori occidentali” che sembrano essere i veri animatori dell’opposizione. Immischiandosi, come dappertutto nei Balcani, di ciò che non li riguarda, i tutori vogliono che la Macedonia entri il più rapidamente possibile nella NATO e si pieghi alle loro ingiunzioni (diritti democratici, anticorruzione ecc.). Essi sono sotto pressione perché l’attrattività dell’Unione Europea e della NATO sono finite. Essa è passata dal 90% al momento dell’indipendenza all’attuale 50%.
In visita a Strasburgo dopo questi avvenimenti, il Primo Ministro macedone ha concesso le elezioni per il prossimo aprile ma nuovi tumulti sono fortemente possibili prima di questa data.
L’esecutivo macedone è infatti favorevole al nuovo progetto russo di gasdotto che deve passare dalla Turchia e dalla Grecia. Questo progetto rimpiazza il South Stream sabotato su ordine di Bruxelles e di Washington. Gli Occidentali faranno di tutto per sabotare questo nuovo progetto. Ragione per la quale la Macedonia si trova nel mirino. La maniera più semplice sarebbe quella di mettersi in tasca il Governo. Gli americani vogliono un “cambio di regime”. Dei piani esistono allo stesso modo per far detonare la FYROM (Macedonia). Una parte andrebbe all’Albania, un’altra parte alla Bulgaria. Questo non farebbe l’interesse della Serbia che considera la sua ex provincia del Sud divenuta Repubblica con Tito poi Stato indipendente con lo smantellamento della Jugoslavia come una zona cuscinetto neutrale che permette un passaggio amichevole verso la Grecia.

 

Il Kosovo: “conflitto congelato”

Il termine “conflitto congelato” è stato impiegato per le entità dell’Abkhazia, dell’Ossezia del Sud, dell’Alto Karabakh e della Transnistria (Pridnestrovie). E’ noto quanto è avvenuto nelle prime due. Il Kosovo appartiene anch’esso alla categoria dei conflitti congelati anche se il termine non gli è stato affibbiato.
Come nella Bosnia musulmana, una parte della popolazione albanese del Kosovo è fuggita dall’entità, principalmente verso Germania e Austria, alla ricerca di una vita migliore. E’ anche un segno dello scacco delle operazioni statunitensi e dei loro alleati: non solamente le entità fabbricate dal nation building non sono vivibili ma anche una parte della popolazione cerca di fuggire. Benché minoritari e subissati dalle minacce e dalla precarietà, i serbi del nord e delle enclavi non scappano e, al contrario, si attaccano al loro antico retaggio storico.
Una parte dei terroristi di Kumanovo venivano dal Kosovo, in particolare dalla base americana di Camp Bondsteel. Tra di loro, fatto ignorato dalla stampa occidentale, è stata rilevata la presenza di inglesi e di americani. Secondo il giornalista macedone Mile Nedelkosvski quattro di loro, che facevano parte del commando aggressore, sono stati uccisi. Questa partecipazione straniera spiega perché gli ambasciatori degli Stati Uniti e della Gran Bretagna avevano domandato alle autorità di Skopje di arrestare le operazioni antiterrorismo e di permettere il ritorno in Kosovo di tutto questo bel mondo. E’ soprattutto ancora la prova che vi è un legame tra le attività sovversive degli anglo-americani e dei gruppi, come gli albanesi o i bosniaci, che gli servono da massa di manovra e che assumono la funzione geopolitica di perturbatori. Come nel Vicino Oriente, nei Balcani gli elementi più rudi e meno educati servono le imprese sotterranee dell’Impero.
In un tale contesto erede delle fratture delle recenti guerre balcaniche e delle operazioni militari dello Zio Sam e dei suoi alleati, si deve porre la questione del ruolo attribuito a coloro che si chiamano da un po’ di tempo i “migranti” e la cui flotta invade la Macedonia poi la Serbia a partire dalla Grecia e dalla Bulgaria. Costoro cercano, si dice, di andare anche in Germania, in Francia o ancora nei paesi nordici. La questione che deve essere posta è quale sia la sua utilità nelle grandi manovre in corso nella ex Jugoslavia come in questa Europa che sta affondando. Perché i famosi migranti appaiono in maggioranza come uomini giovani, decisi e capaci di adattarsi alle situazioni più diverse. Essi dispongono di denaro e di mezzi di comunicazione che non hanno i veri rifugiati dalle zone di conflitto. In qualche maniera, ci sembra si tratti, per una parte di costoro, di combattenti sotto copertura di rifugiati dai punti caldi.
Delle centinaia, delle migliaia di volontari della Bosnia, del Kosovo, della Macedonia e del Sangiaccato (Raska) sono partiti a battersi in Siria e in Iraq a fianco dello Stato islamico (ISIS) e dei gruppi assimilati. Coloro che rientreranno saranno buoni per il servizio nella regione. Gli specialisti ritengono che una parte dei migranti siano dei combattenti islamisti.
L’Ungheria ha costruito un muro alla frontiera con la Serbia per impedire a questi ultimi di penetrare sul suo territorio. Vi ha anche costruito dei campi. Se questi indesiderabili non arrivano a passare in Ungheria, la Serbia diventerà una sacca di strangolamento con tutte le conseguenze immaginabili. Perché né la Grecia né la Macedonia sono in grado di controllare le loro frontiere. D’altronde queste non lo desiderano e vogliono che i migranti lascino il loro territorio. Tra albanesi e “rifugiati”, la solidarietà islamica gioca un ruolo. Dalla valle di Presevo, nel sud della Serbia, al Sangiaccato (Raska) passando per il Kosovo e il Montenegro, quando non sono spariti e scambiati come riscatto, i migranti ricevono una buona accoglienza, aiuto e alloggio. Si comprende cosa ciò significhi.
Domani si può prendere in considerazione: una sparizione della Macedonia, un recupero del Kosovo, il ricongiungimento della Republika Srpska alla Serbia, l’ingrandimento dell’Albania e della Bulgaria. Con il tentativo di fare della Vojvodina che è, ricordiamolo, una provincia in maggioranza serba, tutti questi cambiamenti influenzeranno ancora di più la stabilità della regione e avranno delle conseguenze sanguinose, di cui gli Americani si infischiano completamente. Essi sono in Europa per espandere il caos.
Il 19 luglio, il presidente dell’Istituto di Studi Strategici Russo (RIIS), dichiarava ad un quotidiano serbo “Vecernje Novosti” che le frontiere nei Balcani saranno cambiate e che cambieranno ancora.
Secondo Leonid Petrovic Rechetnikov, la Serbia, la Republika Srpska e il Kosovo sono al centro di un braccio di ferro tra Washington e Mosca. Vi sono degli agenti americani in seno al Governo serbo che vi danno linfa. Rechetnikov che, in privato, consiglia ai serbi di sbarazzarsi di queste talpe, spiega che se la Russia è con la Serbia, essa continuerà a difenderla se quest’ultima difenderà sé stessa e che la migliore difesa è l’attacco. La mette in guardia da un’entrata nella NATO: chi entrerà nella NATO sarà nostro bersaglio. Ecco che gli esitanti sono stati avvertiti. Non bisogna accordare alcun credito alle parole occidentali. In qualunque modo, la Serbia avrebbe sempre torto perché viene considerata come troppo vicina alla Russia. Evocando l’entrata di elementi dello Stato Islamico nella regione, il direttore del RIIS conferma che questo gruppo è stato fabbricato dagli americani ma aggiunge che questi ne hanno perduto il controllo. Washington ha ancora una volta giocato il ruolo dell’apprendista stregone. Lo si era già visto con Bin Laden ed Al Qaeda.
Leonid Petrovic Rechetnikov che è stato in un passato recente luogotenente – generale del SVR, il Servizio Federale Segreto Estero della Federazione Russa, per definizione un uomo ben informato, e necessariamente in contatto con i suoi colleghi in attività, è bene al corrente degli intrighi geopolitici in corso. Si tratta di un analista di cui bisogna pesare bene tutte le parole.

YVES BATAILLE

(1) Henri Gobard, La guerre culturelle, Copernic, Paris, 1979.
(2) Partito Progressista Serbo, l’SNS è stato fondato nel 2008 quando il capo del Partito Radicale da cui provenivano gli attuali Primo Ministro e Presidente si trovava in prigione in Olanda. Una scissione organizzata secondo alcuni dai servizi segreti britannici.
(3) La Vojvodina, prossimo pseudo-Stato in Europa? Wayne Madsen, 18 febbraio 2015, voltairenet.org e Strategic Culture Foundation (Russia).
(4) Dopo l’indipendenza formale, l’entità musulmana avrebbe perso un terzo della sua popolazione.
(5) La capitale della Republika Srpska.
(6) Se vi sono certamente dei “palestinesi” in Europa, questi sono i serbi esposti alla persecuzione permanente, i serbi di cui i capi più valorosi sono stati imprigionati o uccisi all’Aja, i serbi che non hanno alcun diritto se non quello di tacere allor quando gli altri hanno tutti i diritti e si sa quali. La prima ambasciata dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) in Europa è stata aperta a Belgrado in Serbia.
(7) VMRO-DPMNE: Organizzazione rivoluzionaria interna della Macedonia – Partito democratico per l’unità nazionale macedone.

Traduzione per il CESEM di Stefano Vernole

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