La posizione della Federazione Russa di fronte alle nuove realtà statuali emergenti. Un’intesa con l’Europa è possibile?

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L’inizio del XXI secolo e l’era ribattezzata da molti come post-moderna hanno evidenziato come la questione etnico-culturale non sia una vestigia del passato e come il paradigma sistemico della “società senza confini” riveli tutti suoi limiti.

Circa 20 anni fa alcune ricerche avevano evidenziato come esistessero 233 gruppi politicizzati, potenzialmente “a rischio”, che avevano deciso di intraprendere un’azione politica in nome dei loro interessi collettivi o che avevano rivendicato la propria separazione economica e politica rispetto al corpo statuale che li inglobava; inoltre su 127 paesi esaminati in questo studio, bel il 75% di essi conteneva minoranze altamente politicizzate.
Oltre ai casi di nazionalità che intendono separarsi dallo Stato di appartenenza, conosciamo numerosi popoli che pur non reclamando l’indipendenza rivendicano tuttavia una forte specificità e il riconoscimento di un’autonomia più ampia.

Questa è una delle tante ragioni per le quali è necessario ritrovare l’intesa tra Russia ed Europa, senza dimenticare una sinergia economica in base alla quale Mosca fornisce ai paesi della UE circa il 40% del loro fabbisogno di gas e il 30% di quello petrolifero, mentre assorbe il 7% delle esportazioni complessive del Vecchio Continente..

Se analizziamo la questione da un punto di vista geografico bisogna sottolineare come il vero confine orizzontale tra le due grandi aree geopolitiche della massa eurasiatica è quello che separa l’Europa (più la penisola anatolica) con tutta la Siberia fino a Vladivostok, dal resto dell’Asia “gialla” (Cina, Corea e Giappone) nonché dalle altre geopoliticamente omogenee dell’Asia.

Un limes che si potrebbe porre attorno al 50° parallelo e che è comunque meno rilevante della differenza culturale e geostrategica che separa la stessa Europa dagli Stati Uniti e che non si riduce certo al fossato geografico rappresentato dall’Oceano Atlantico.

Dal punto di vista russocentrico, l’unica sicurezza geopolitica per i secoli a venire non può essere rappresentata che dal controllo sotto qualsiasi forma delle coste della massa eurasiatica settentrionale, quelle coste che si affacciano sui due principali oceani mondiali, l’Atlantico e il Pacifico; in caso contrario, l’Europa sarà prima o poi utilizzata come un ariete americano per sfondare le porte della Federazione Russa e dissolverla nelle numerose realtà etno-religiose che la compongono.

Suonano perciò oggi profetiche le parole pronunciate da Vladimir Putin il 10 febbraio 2007 alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera: “Le azioni unilaterali e spesso illegittime non hanno risolto alcun problema … Siamo giunti al momento critico in cui dobbiamo occuparci seriamente dell’architettura della sicurezza globale. E dobbiamo procedere cercando un equilibrio ragionevole tra gli interessi di tutti i soggetti delle relazioni internazionali … ma questo non significa interferire negli affari interni di altri paesi e tanto meno dettare a questi paesi regole che determinano la loro vita e il loro sviluppo”.

Evidente nel suo discorso il riferimento ai protettorati internazionali e alle “missioni militari umanitarie” che hanno caratterizzato il mondo dopo il crollo del Muro di Berlino, insieme al processo di nation building e ai programmi economici di aggiustamento strutturale imposti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale.

L’intesa Bruxelles-Washington in questo processo ha fortemente limitato le capacità degli Stati di autogovernarsi e contemporaneamente ha favorito il caos globale; la pretesa dell’Occidente di presentarsi come modello universale di sviluppo nasconde quella di detenere il dominio assoluto sui popoli e deve quindi essere respinta.

Esiste chiaramente una strumentalizzazione politico-ideologica del diritto internazionale, per cui le maggiori potenze occidentali appaiono incoerenti rispetto ai vari movimenti secessionisti-indipendentisti: favorevoli a quello della Cecenia e del Kosovo, contrari a quello dell’Abkhazia, dell’Ossezia del Sud, della Republika Srpska e della Transnistria.

La stessa Russia corre però il rischio di scatenare un effetto a catena nei territori sottoposti alla propria sovranità, basti ricordare i casi del Daghestan, del Tatarstan e della Jakuzia.

Non indifferente poi il problema dello status delle minoranze in molti dei territori appartenenti all’ex Unione Sovietica, specie nelle Repubbliche Baltiche (Lituania, Lettonia ed Estonia) dove i russi vengono sottoposti a provocazioni e limitazioni notevoli che vengono tollerate dall’ Unione Europea.

Una prima soluzione potrebbe essere ad esempio l’adozione del bilinguismo estone-russo, così come in Finlandia viene accettato il bilinguismo finnico-svedese.

A maggior ragione vanno risolte le numerose questioni confinarie e delle nuove entità statuali sorte in particolare dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia, che vanno ad aggiungersi alle rivendicazioni storiche di popoli europei come il catalano e il basco, il corso, l’irlandese …

Iniziamo analizzando la disputa nel Caucaso, ricordando che l’Unione Europea ha concluso dieci accordi di partenariato e di cooperazione (APC) con la Federazione Russa per sviluppare democrazia, cultura ed economia nei paesi appartenenti a questa regione.

La Repubblica dell’Alto Karabakh (più comunemente conosciuta come l’enclave armena del Nagorno Karabakh azero) si estende ad est della Repubblica d’Armenia su una superficie di 13.000 km. quadrati con una popolazione di 150.000 abitanti e capitale la città di Stepanakert.

I territori recuperati dai suoi abitanti durante il conflitto con gli azeri (che hanno mantenuto sotto la propria sovranità la regione di Shahumian a nord e piccole frange territoriali a nord-est e a sud-est) le consentono l’uscita dall’isolamento e la continuità territoriale con l’Armenia dell’Est (lo Zanghezur).

Il Governo di Baku non ne riconosce però lo status quo e la mediazione del Gruppo di Minsk dell’OCSE non ha conseguito risultati concreti.
Questo impasse diplomatico ha conseguenze importanti perché si collega alla questione energetica: l’Unione Europea continua a boicottare il progetto russo del gasdotto South Stream per favorire i concorrenti Nabucco e T.A.P. che si valgono del decisivo contributo azero.

Nel Caucaso altro ostacolo non indifferente a proficue relazioni diplomatiche tra Mosca e Bruxelles riguarda il riconoscimento di Abkhazia ed Ossezia del Sud, due repubbliche resisi indipendenti dopo l’aggressione georgiana (ispirata da Washington) nel 2008.

Allo stesso modo delle regioni separatiste russofone del Donbass, l’accelerazione di questo processo rischia di favorire l’ingresso di Tiblisi e di Kiev nella NATO, a scapito sia dell’Europa che della stessa Russia e dell’Iran.

In Caucaso e ancor più in Asia centrale le basi nordamericane, inizialmente tollerate come possibile fattore di stabilizzazione dell’area, vengono ormai da tempo viste da Mosca come uno strumento di pesante interferenza USA nel proprio “estero vicino”.

La particolare collocazione geografica rende il Caucaso un punto di smistamento ideale per il transito di oppio proveniente dall’Afghanistan e dal Pakistan, che attraverso il Mar Caspio e le frontiere con l’Azerbaigian e l’Armenia raggiuge i laboratori libanesi, russi ed europei.

Il Caucaso del Sud e in particolare Azerbaigian e Georgia, hanno costituito un corridoio cruciale per l’accesso dei velivoli della coalizione a guida statunitense durante le operazioni belliche contro Afghanistan ed Iraq.

Il Ministro degli Esteri Serghei Lavrov ha da tempo sottolineato come la Russia abbia riconosciuto nel 1991 l’integrità nazionale di tutte le repubbliche ex sovietiche e non nutra ambizioni territoriali, ma ciò non può divenire un pretesto per la continua espansione ad Est della NATO.

Nella ex Jugoslavia rimangono aperti problemi altrettanto difficili da risolvere, a causa della cecità dell’Unione Europea che – come dimostra il documento pubblicato dal quotidiano svedese “Aftonbladet” e intitolato: “Sistema per l’Europa Sudorientale del dopoguerra”, adottato dai capi di Stato europei a Bruxelles il 28 aprile 1999 – aveva anticipato di voler trasformare i paesi di nuova indipendenza in protettorati atlantici, pena il loro isolamento politico ed economico.

Tutti sono consapevoli che l’attuale assetto della Bosnia Erzegovina non è sostenibile sul lungo periodo, a maggior ragione dopo l’effetto domino causato dal riconoscimento unilaterale del Kosovo voluto da Stati Uniti ed Unione Europea (e che tuttavia ha spaccato la stessa Europa tra favorevoli e contrari).
Il referendum sull’indipendenza più volte annunciato dal Governo serbo-bosniaco di Banja Luka avrà ricadute immediate sul resto della regione balcanica.

Analoghe minacce giungono dagli albanesi della Macedonia, della Valle di Presevo (nella Serbia meridionale), dai musulmani del Sangiaccato (che potrebbero federarsi con quelli della Bosnia) e addirittura dalla Vojvodina (dove le ong di Soros spargono propaganda secessionista da diversi anni): non è un caso che la crisi migratoria funga da fattore di ulteriore destabilizzazione proprio di questi paesi.

Dalla Serbia infatti passano le strade più importanti e brevi per collegare Europa centrale e meridionale con il Vicino Oriente; amputarla ulteriormente di territori consentirebbe non solo di indebolire un tradizionale alleato russo nei Balcani ma di consegnare nelle mani degli Stati Uniti il controllo del traffico fluviale del Danubio, cioè una comunicazione vitale che collega il Mare del Nord al Mar Nero.

Altro caso spinoso è quello della Transnistria, dove la presenza di un contingente – seppur limitato – di truppe russe costituisce un ostacolo alla normalizzazione dei rapporti tra Mosca e Bruxelles.

Il Memorandum Kozak predisposto grazie all’abile diplomazia del Cremlino avrebbe favorito la creazione di una Federazione di tipo asimmetrico, in cui Moldova, Pridnestrove e Gagauzia (regione moldava dove vivono i turchi cristiani filo-russi) si sarebbero associate conservando comunque il proprio apparato statale e la propria legislazione.
Le pressioni statunitensi su Chisinau e la cecità europea che accusa Mosca di detenere in Transnistria enormi depositi di armi (nonostante la documentazione prodotta dimostri esattamente il contrario) ne hanno però impedito l’attuazione.

A nulla sono serviti due referendum nel 2006 che hanno dimostrato l’inequivocabile volontà degli abitanti della Transnistria di essere indipendenti e di ricongiungersi alla Federazione Russa; l’incubo occidentale riguarda anche l’ipotetico collegamento tra la Novorossia, Odessa e Tiraspol, un potenziale avamposto strategico russo in Europa libero dall’accerchiamento delle basi atlantiche e che andrebbe a rinforzare il dispositivo di sicurezza già simboleggiato dall’enclave di Kaliningrad dove Mosca inizia a dispiegare missili a scopo difensivo.

In un contesto in cui l’Unione Europea si comporta sotto vari aspetti come un appendice del dominio statunitense sul Vecchio Continente, è evidente che la sua politica non può discostarsi oltre un certo limite da quella di Washington.

Mosca ha così dovuto reagire anche in questa zona, adottando misure commerciali restrittive contro la Moldavia in seguito alla firma dell’accordo di Associazione con l’Unione Europea del 27 giugno 2014.

Lo stesso Accordo di Associazione con l’Ucraina, già ratificato dal Parlamento di Kiev e dal Parlamento europeo è stato almeno rinviato al 1 gennaio 2016, concedendo un po’ di tempo alle attuali trattative diplomatiche tra le parti (Mosca, Kiev e Bruxelles); nel caso fallissero questi colloqui a tre, è evidente che la Russia approfondirà il proprio appoggio ai separatisti del Donbass.

Non ultime le crisi finanziarie di Cipro e della Grecia, con il timore atlantico che un intervento economico russo possa trasformarsi in un rafforzamento dell’influenza geopolitica di Mosca sul Mediterraneo, data anche la comunanza cristiano ortodossa con i due paesi.

Due nazioni che risentono peraltro dell’ingerenza turca (definizione delle acque territoriali greche e sostegno all’entità di Cipro Nord) e dei conseguenti problemi costituiti dall’avvicinamento di Ankara all’Unione Europea, dal suo coinvolgimento nella crisi siriana e dal progetto del gasdotto North Stream: tre aspetti contradditori che ingarbugliano ulteriormente la situazione nell’area del triangolo eurasiatico.

La PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) integra ma non sostituisce quella dei singoli Stati membri e la sua efficacia viene perciò limitata dalla scarsa coesione tra i Paesi europei su varie tematiche di importanza strategica: l’allargamento della NATO ad Est, il dispiegamento dello scudo antimissile statunitense in Europa, il riconoscimento del Kosovo …

La politica delle sanzioni decisa da Bruxelles e Washington ha ovviamente ingarbugliato notevolmente questa inestricabile matassa: dopo che Kiev e Chisinau hanno firmato l’accordo di associazione e cooperazione politica con l’Unione Europea, vista l’adesione della Crimea alla Russia, la Duma ha approvato una riforma legislativa che facilita l’unificazione con la Federazione per i territori ex sovietici che ne facciano richiesta.

Il progetto di Mosca dell’Unione Eurasiatica non è assolutamente incompatibile con l’apertura all’Europa, anzi ne rafforzerebbe gli strumenti per la creazione di una grande area doganale di libero scambio basata sull’apertura totale dei commerci tra le due parti, l’abolizione dei visti e il rafforzamento della cooperazione su temi quali istruzione e sicurezza.

Si tratta di un processo che richiederà probabilmente ancora molti anni prima che possa essere portato a compimento, in quanto l’Unione Europea manca agli occhi della Russia di alcuni attributi di potenza indispensabili: la scarsa coesione politica, la debolezza militare e la dipendenza energetica, fattori che rendono l’Europa sempre ricattabile dagli Stati Uniti.

Sarà necessario anche concludere quel processo di integrazione che i Paesi BRICS stanno meticolosamente portando avanti e che, unito all’allargamento di istituzioni come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, favoriranno negli anni a venire il deciso riassetto in senso multipolare del nostro pianeta.

Conclusioni.
In passato i deputati del Parlamento europeo e della Duma si incontravano ogni anno nella commissione parlamentare di cooperazione (CPC) UE-Russia per uno scambio di opinioni ma dal gennaio 2014 queste attività sono state sospese.

Se l’Unione Europa vuole davvero collaborare con la Russia, sia per il reciproco benessere economico sia per dare una definitiva sistemazione alle tante questioni territoriali apertesi con la nascita dei “piccoli Stati”, deve costruire un’architettura politica solida e conseguire l’autonomia militare dalla NATO.

Una prima soluzione potrebbe essere quella di costituire un Euronucleo fondato su valori e intenzioni condivise che, escludendo inizialmente i paesi dell’oltranzismo atlantico come Polonia e Gran Bretagna, possa dar vita ad una Federazione legiferante a 360°, magari sul modello federale indicato proprio dalla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI).

Nel frattempo Mosca potrebbe valutare forme di diplomazia alternative nei meandri dell’autonomia regionale che molte nazioni europee concedono ad alcuni territori, per superare la politica distruttiva e cieca delle sanzioni economiche e favorire l’adozione di un modello giuridico interstatuale che renda conto anche delle ragioni dei tanti piccoli staterelli dimenticati o tormentati da “conflitti congelati” da troppo tempo in cerca di una soluzione.

Questa iniziativa va accompagnata ad un’azione analoga per modificare le procedure in base alle quali uno Stato può diventare membro dell’ONU, visto che in base a quanto previsto oggi dal diritto internazionale le Nazioni Unite non possono considerare come aggressione militare un attacco della Madrepatria contro un territorio secessionista (vedi ad esempio casi Transnistria e Donbass).

Francesco Rutelli – Stefano Vernole

Associazione di amicizia Russia – Emilia Romagna

www.emiliarussia.org

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