L’imperatore Kangxi e la definitiva riunificazione

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“La Repubblica Popolare Cinese e il Tibet”: progetto di ricerca del Cesem

Nella millenaria storia del Tibet-Xizang, l’antichità vede sostanzialmente l’alternarsi dell’influenza culturale, amministrativa e religiosa di due grandi sfere di influenza sulla regione, ovverosia quella mongola e quella cinese. Tale contesa, che grossomodo segnerà i destini dell’area centro-asiatica per tutta l’epoca medievale, sarebbe stata definitivamente districata in epoca moderna a favore dei cinesi, che dalla metà del XVIII secolo si sarebbero insediati a Lhasa, rendendo il Tibet un loro protettorato amministrativo. Tuttavia tale approdo merita qualche ulteriore approfondimento, essendo scaturito da una concatenazione di eventi abbastanza intricata.

Procedendo per sommi capi, va ricordato che a causa della minaccia mongola incombente sul Tibet, verso il principio del XVIII secolo, il governo tibetano invocò l’intervento protettivo della Cina, che si sarebbe concluso con la vittoria delle armate dell’Imperatore Manciù nel 1720. Come compenso per la vittoriosa azione militare, l’imperatore Kāngxī (1654-1722) ottenne la tutela del Celeste Impero sul Tibet. Tale tutela amministrativa si articolò nell’insediamento a Lhasa di due Amban – ovvero alti ufficiali della dinastia Manciù – che vi sarebbero rimasti per i due secoli successivi. Ciò accadde in quanto, durante l’esilio del VII Dalai Lama bsKal bzang rGya mtsho (Kelzang Gyatso, 1708-1757) nel Tibet orientale, una figura laica aveva preso il potere a Lhasa: si trattava dell’ufficiale militare Pho lha bSod nams sTobs rgyas (Pholhana), fedele alla Cina, che governò dal 1728 al 1747. Promotore di una relativa pacificazione, consentì il ritorno del Dalai Lama dall’esilio, riuscendo a ristabilire una relativa stabilità sociale e riallacciando le relazioni diplomatiche con i mongoli. Una ulteriore svolta si ebbe a causa dell’inettitudine del figlio di Pholhana, Gyur med rNam rgyal (Gyurme Namgyal), fatto infine deporre per ordine degli Amban nel 1750. Ritornava pertanto la tutela diretta del Celeste Impero sul Tibet ed il conferimento, da parte dell’Imperatore cinese Qiánlóng (1711-1799), della facoltà di governo al VII Dalai Lama. Questi sono stati i momenti salienti del ritorno del controllo cinese sulla regione tibetana, che portano a stabilire inoppugnabilmente che il Tibet-Xizang sia tornato ufficialmente cinese almeno a partire dalla data del 1720. Tuttavia, al fine di comprendere meglio tale approdo, risulta necessaria qualche breve digressione storica rispetto ai protagonisti di questo passaggio fondamentale della storia cinese. Come detto in più occasioni, il sistema di governo del Tibet era basato su una teocrazia, secondo cui il Dalai Lama era al contempo sovrano e leader religioso della popolazione, coincidenza di potere spirituale e temporale tipica del sistema definito appunto lamaismo. La figura del VI Dalai Lama va letta all’interno di una complessa cornice storica, che porterà il Tibet a diventare protettorato cinese. Nel 1680 diverse zone ancora indipendenti del sud-est del Tibet vennero incorporate nello Stato teocratico del Tibet dal V Dalai Lama, con l’aiuto dell’esercito mongolo. Tra questi, il Mon (ora in India, stato del Nagaland) dove nacque il Tsangyang. Secondo alcuni, il VI Dalai Lama nacque nella città di Tawang, attualmente nell’Arunachal Pradesh in India, sul versante opposto della pianura creata dal Brahmaputra. Alla morte del V Dalai Lama il reggente Sangye Gyamtso trovò nel fanciullo del Mon l’incarnazione del Gran Quinto Lama, ma guidò il Tibet per altri quattordici anni. Questo non fece altro che portare inimicizia tra il Tibet e il suo vecchio protettore, il regno mongolo che appoggiò il V Dalai Lama nell’espansione del Tibet, nonché indispettì l’imperatore cinese Kangxi. Il VI Dalai Lama era di etnia Monpa, e la sua famiglia era legata alla vecchia scuola buddhista (rNying-ma-pa, in tibetano) da parte di padre, mentre per parte di madre alla corrente detta dei Virtuosi (dGe-lugs-pa in tibetano). Il nuovo Dalai Lama cominciò a manifestare atteggiamenti poco consoni alla sua carica, deludendo le gerarchie religiose: agli studi il giovane lama preferiva il tiro con l’arco, le cavalcate, gozzovigliare nelle taverne di Lhasa e frequentare disinvoltamente diverse donne. Nel 1702 rinunciò addirittura ai voti presi di fronte al quinto Panchen Lama, Lobsang Yeshe, ma il clero e i quadri politici tibetani cercarono ugualmente di soprassedere da questa inaspettata abiura: Tsangyang, reincarnazione del Gran Quinto, rimase quindi il primo (e ancora oggi l’unico) Dalai Lama laico. Questo contribuì a deteriorare i rapporti già difficili tra Tibet e Cina. Il reggente, ancora attivo, decise di punire il giovane progettando la morte del suo compagno di bevute, nonché funzionario dello Stato. Ironia della sorte, il caso volle che Tsangyang e l’amico si scambiassero proprio quella notte i vestiti, e l’omicida (per errore o propria decisione) accoltellò il nobile sbagliato: sarebbe a dire colui che portava i vestiti del principe, in realtà il suo più fedele amico. Tsangyang Gyatso fece condannare i congiurati, alcuni dei quali pubblicamente lapidati. E poiché il reggente successivamente tentò anche di avvelenare il sovrano mongolo Lhabzang Khan, suo protettore, venne diplomaticamente allontanato una volta per tutte da Lhasa. A causa di queste strane vicende, lo scontro con i mongoli non poté essere evitato, e l’ex reggente venne decapitato, portando Lhabzang al governo del Tibet nel 1705. Contestualmente, il VI Dalai Lama venne arrestato, cosa che provocò una forte reazione del popolo della capitale che così dimostrò come, nonostante l’eccentricità della Sesta Reincarnazione, Tsangyang rimaneva l’autorità ancora riconosciuta per le genti del Tibet. Durante il tragitto verso la capitale cinese, il VI Dalai Lama si ammalò e morì, la notte tra il 14 e il 15 novembre 1706 nel Qinghai, vicino al lago Gongga. Sarebbe stata proprio la scomparsa in tali circostanze tanto drammatiche quanto misteriose che permise il diffondersi di successive biografie segrete su questa figura. Il suo successore fu Kelzang Gyatso, e senza ombra di dubbio rese assai meno movimentate le vicende religiose e amministrative della regione, rimanendo fedele all’Imperatore cinese oltreché giocando un ruolo di stabilizzazione in seno al potere politico locale. Kelzang Gyatso nacque a Lithang nel 1708, secondo la profezia del suo predecessore, Tsangyang Gyatso. Una volta riconosciuto come reincarnazione del VI Dalai Lama, venne posto sul trono nel 1720, ed educato secondo le usanze tradizionali del buddhismo tibetano. Contrariamente al suo discusso predecessore, si rivelò incline agli studi e alla meditazione, compose poemi, e fu lodato da più correnti sociali, politiche e monastiche come un grande erudito. Nel corso della sua vita, non partecipò attivamente alla gestione degli affari politici, lasciando la piena gestione del potere temporale ad un reggente laico, investito del potere direttamente dall’Imperatore della Cina. Morì nel 1757 e fu seppellito nel palazzo del Potala. Con la sua morte, la carica stessa del Dalai Lama avrebbe subito un certo declino, pur mantenendo viva la devozione popolare – assieme alla figura del Panchen Lama – quale somma carica spirituale. Infatti, i suoi successori non furono in grado di avere una certa influenza sulla storia tibetana, lasciando un maggiore spazio d’azione ai reggenti, forti della fiducia della corte imperiale cinese; nel corso del secolo successivo si susseguirono ben cinque Dalai Lama che, per differenti ragioni, non poterono garantire alcuna stabilità politico-spirituale, scalfendo da lì in avanti il prestigio stesso di questa figura.

Terzo protagonista di questo passaggio epocale fu indubbiamente la figura dell’Imperatore cinese Kangxi (1654-1722). Questi fu il terzo Imperatore della dinastia Qing (1644-1911), e governò dal 1661 fino alla sua morte. È considerato uno dei più importanti imperatori della storia cinese, ed il suo regno è stato uno dei più stabili e duraturi, anche se va ricordato che nella prima parte la gestione dell’Impero venne effettuata da quattro reggenti e dalla nonna, l’imperatrice Xiaozhuang. La storia della sua reggenza è tanto ampia quanto interessante; non è qui tuttavia che si possono fornire ulteriori note biografiche, se non in funzione delle vicende tibetane. Va segnalato che a quell’epoca i mongoli khalkha conservavano la loro indipendenza pagando solamente un tributo all’impero Manciù. Un conflitto intestino, tra le casate Jasaghtu Khan e Tösheetü Khan, condusse ad un’altra disputa tra i khalkha e i mongoli zungari (o Dzungar). Oggetto della contesa fu proprio l’interferenza mongola sulle nomine della gerarchia lamaista. Nel 1688 Galdan, capo degli Dzungar, invase e occupò la terra dei Khalkha la cui famiglia reale e il primo Jebtsundamba Khutughtu, ovvero il capo spirituale della linea Gelug del buddhismo tibetano in Mongolia, attraversarono il deserto del Gobi per chiedere aiuto alla dinastia Qing, sottomettendosi ad essa. Nel 1690, gli Dzungar si scontrarono con l’impero Manciù nella battaglia di Ulaan Butun, in Mongolia, durante la quale Galdan inflisse pesanti perdite all’armata Qing. Nel 1696, lo stesso imperatore Kangxi condusse la campagna contro gli Dzungar. La sezione occidentale della armata Qing si scontrò con quella di Galdan nella battaglia di Dsuunmod e, dopo la morte di Galdan avvenuta nel 1697, gli Dzungar continuarono a minacciare la Cina invadendo nel 1717 il Tibet. Con circa seimila uomini conquistarono Lhasa in risposta alla deposizione e conseguente sostituzione, nel 1706, del Dalai Lama con Lha-bzan Khan. Gli Dzungar rimossero quindi Lha-bzan-Khan, tenendo sotto scacco la città per due anni, e nel 1718 distrussero una armata cinese. Tuttavia questa vittoria si sarebbe rivelato un episodio sporadico, e Lhasa venne riconquistata dai cinesi definitivamente nel 1720, regalando probabilmente uno dei maggiori motivi di prestigio all’Imperatore Kangxi.

Vediamo brevemente come queste tre figure si sono intersecate nella storia sino-tibetana. Tsangyang Gyatso, come detto, rinunciò ai suoi voti monastici, ma l’idea di un sovrano reincarnato e riconosciuto secondo la procedura tradizionale si era ormai consolidata tra i tibetani ed egli, nonostante i suoi comportamenti dissoluti, mantenne l’incondizionata devozione della gran parte dei monaci e dei laici ordinari, ed anche le autorità tradizionali più elevate e la nobiltà, pur facendo ricorso ai mezzi di persuasione a loro disposizione, non riuscirono ad influenzarlo più di tanto. Succubi in questo modo, come sarebbe rimasto anche negli anni a venire, della trappola incautamente tesa da loro stessi attenendosi ad un sistema tanto bizzarro quanto irrazionale e discutibile di nomine politico-religiose, i tibetani si mostrarono ampiamente incapaci di risolvere i loro dissensi interni e di trovare una via d’uscita dalla loro intricata posizione. Così rimasero imprigionati in una complessa situazione di stallo, in cui vennero inclusi temporaneamente come feudo dei mongoli ma costituendo un motivo di minaccia per la Cina. Il quinto Dalai Lama, di cui già abbiamo detto, aveva peraltro esercitato una notevole influenza sugli affari mongoli, ed aveva intessuto strette relazioni con un particolare gruppo di mongoli, gli Oirat Dzungar di Chugachak, che erano saliti alla ribalta nel loro paese. Il loro precedente sovrano B’atur era stato associato a Gu-shri, ed il figlio di B’atur, tale Ganden, Khan dal 1676, era stato precedentemente monaco a Lhasa, e continuava ad avere stretti legami con il reggente Sangye Gyatsho. Il gruppo degli Dzungar costituivano una delle maggiori spine nel fianco dell’Impero cinese dell’epoca e, nonostante subissero una dura sconfitta nel 1695 e lo stesso Ganden morisse due anni dopo, venne sostituito al comando da un suo nipote, ostinato a proseguire le azioni di disturbo in chiave anticinese. Al tempo, la guida degli affari cinesi era nelle mani del celebre Kangxi a partire dal 1662, secondo Imperatore della dinastia Qing (nota anche come dinastia Manciù, al potere dal 1644) nonché protagonista assoluto della sua linea dinastica. Questi, aveva già dovuto far fronte a diverse rivolte localizzate nella Cina meridionale, e non aveva minimamente intenzione di tollerare destabilizzazioni sulle frontiere settentrionali. Il legame dei tibetani con gli Dzungar, che erano fattore di profonda preoccupazione e di frazionismi interni di vario tipo come quello del ribelle cinese Wu Shin-pan – che si scoprì stesse cercando di guadagnarsi il sostegno dei mongoli contro la dinastia Qing – costituivano fattori di seria attenzione. Inoltre le modalità con cui Sangye Gyatsho lo aveva deliberatamente tenuto all’oscuro del decesso del quinto Dalai Lama era già di per sé un atto di ostilità, pur tenendo conto che in quella fase il Tibet godeva di una maggiore autonomia nei confronti della Cina. Questa indeterminatezza nelle decisioni politiche derivava da un’ormai endemica mancanza di interesse da parte tibetana nelle relazioni esterne; trascurarono, tra le altre cose, tanto la solidità dell’Impero cinese quanto l’instabilità dei regimi mongoli. Seppur tardivamente, sembra che il reggente Sangye Gyatsho avesse tentato di ristabilire un’intesa con l’Imperatore, ed avesse anche ricevuto il riconoscimento della sua posizione con un sigillo ufficiale. Le già citate vicende riguardanti la spregiudicata ed irrefrenabile dissolutezza del sesto Dalai Lama avrebbero certamente accelerato tale processo. Il Dalai Lama continuò imperterrito a trascorrere senza ripensamenti la sua vita, creando un’ insanabile tensione tra il reggente Sangye Gyatsho e Lha-bzang Khan, il re del Tibet, appoggiato da alcuni membri della nobiltà laica che erano recalcitranti al reggente ed al suo regime ecclesiastico. Il reggente manteneva ancora rapporti amichevoli con gli Dzungar, che non erano solamente nemici della Cina ma anche avversari dei Khan Qosot. Così, nel 1706 Lha-bzang Khan, con il pieno sostegno dell’Imperatore Kangxi, riunì un piccolo ma combattivo esercito, marciando si Lhasa e catturando infine il reggente, che mise immediatamente a morte. Quindi, l’Imperatore inviò un messaggero per accordare il riconoscimento formale a Lha-bzang Khan come governatore, in cambio di un’offerta di tributo, cosicché il Tibet tornò ad essere uno Stato vassallo della Cina. Uno dei suoi primi atti fu, come è facile pensare, quello di destituire un Dalai Lama così inadatto al ruolo. Tuttavia, riconoscendo che nonostante il suo controverso stile di vita e il suo pubblico disconoscimento dei poteri spirituali mantenesse ancora una certa considerazione da parte mongola e da parte delle gerarchie tibetane, Lha-bzang Khan tentò di persuadere i Lama di maggior rango di Lhasa a sconfessarlo pubblicamente quale vera reincarnazione. Tuttavia, nel momento decisivo nessuno volle assumersi tale responsabilità, e lo stesso Lha-bzang Khan prese il giovane Dalai Lama sotto la sua custodia e lo condusse in Cina al fine di allontanarlo da quel ruolo. All’epoca Tsangyang Gyatso aveva ventiquattro anni, e non si oppose affatto a tale allontanamento, che anzi andava incontro alla sua volontà di abdicare dalla carica di Dalai; morì sulla via della Cina, in circostanze ancora oggi abbastanza misteriose. Al suo posto Lha-bzang Khan inserì uno dei suoi protetti, un monaco di cui si hanno pochi riferimenti e che era nato in concomitanza della morte del quinto Dalai Lama, dichiarando che questi fosse la vera reincarnazione e che Tsangyang fosse stato scelto per errore. Il monaco nominato da Lha-bzang Khan non incontrò tuttavia grande riconoscimento dalla popolazione tibetana, che invece diede credito alle voci secondo cui Tsangyang si fosse già reincarnato come settimo Dalai Lama nell’estremo est della regione. Tuttavia la figura di Lha-bzang Khan giunse ad essere generalmente accettata, forte anche del supporto di un ambasciatore inviato direttamente dall’Imperatore e del supporto di due influenti nobili tibetani, Kang-chen e Pho-lha. Lha-bzang Khan rimase al potere fino al 1717, quando i monasteri di Lhasa, che non avevano dimenticato come egli avesse destituito il sesto Dalai Lama e ridotto il potere temporale delle gerarchie ecclesiastiche, ottennero la sua caduta con l’appoggio di un alleato straniero, gli stessi Dzungar che erano già collegati con il precedente reggente. Tentarono quindi di abbattere Lha-bzang Khan e di condurre a Lhasa il fanciullo che era stato scoperto nel Li-thang e che, a causa della previdenza dell’Imperatore, viveva sotto controllo nel monastero di Kumbum. Gli Dzungar inviarono un gruppo di miliziani dal Khotan che, attraversando il nord-ovest del Tibet, arrivasse a marciare su Lhasa, mentre un altro gruppo avrebbe dovuto attraversare la regione di Kokonor, per arrivare a prendere il bambino dal monastero di Kumbum. Questo secondo gruppo fallì la sua missione mentre il primo, usando lo stratagemma di sostenere che stavano portando aiuto a Lha-bzang Khan in una spedizione contro il Bhutan, raggiunsero il loro obiettivo. Lha-bzang Khan cadette nella trappola, fidandosi improvvidamente di questi Dzungar memore del fatto che avevano appena stretto un’alleanza matrimoniale con lui, attraverso suo figlio. Fu quindi colto alla sprovvista e sconfitto nonostante il combattimento degli uomini di Pho-lha, suo alleato. Infine, gli Dzungar si scatenarono su Lhasa con una violenza indicibile, e lo uccisero.

In un primo momento, i tibetani accolsero benevolmente gli Dzungar, ma ben presto la storia avrebbe riservato loro una dura disillusione. Oltre a non avere recuperato l’aspirante nuovo Dalai Lama, questa popolazione mongolica si abbandonò a saccheggi e violenze barbariche, tenne soggiogata la popolazione locale ed arrivò perfino a deturpare la tomba del quinto Dalai Lama. Il ministro Kang-chen venne catturato e torturato; i monasteri del lignaggio Nyingmapa furono colpiti in modo particolarmente violento, ma anche gli insediamenti del lignaggio Gelugpa furono deturpati e depredati. Neppure gli umili padri cappuccini ed altri missionari cristiani provenienti da occidente furono risparmiati. Gli Dzungar nominarono un anziano nobile, sTag-rtse-pa, quale nuovo reggente provvisorio, ma non fu affatto nelle condizioni di arrestare il loro regno di terrore. Kangxi venne costantemente informato dello svolgersi degli avvenimenti, cosicché fu in grado di prevenire l’attacco degli Dzungar al monastero di Kumbun, e preparò velocemente un esercito da inviare a Lhasa. Il primo corpo che mandò, di circa settemila uomini, venne completamente sterminato. Nel frattempo Pho-lha e i suoi seguaci tibetani attaccavano gli Dzungar, e prima ancora che il secondo corpo cinese si avvicinasse a Lhasa, gli Dzungar, più interessati alle incursioni e al bottino che all’amministrazione degli affari locali, stavano già uscendo dal Tibet centrale. Quindi lo scontro dirimente tra cinesi e Dzungar venne ulteriormente procrastinato. La principale carta da giocare per i cinesi rimaneva comunque il nuovo Dalai Lama, la cui accoglienza sarebbe stata trionfale. Sicché i cinesi giunsero in qualità di amichevoli liberatori dagli odiati Dzungar, e l’Imperatore Kangxi poté vantare il fatto di essere stato il protettore dell’autentico nuovo Dalai Lama, Kelzang Gyatso, che sarebbe stato effettivamente nominato quale settimo Dalai nel 1720. A questo punto, dopo avere reinsediato le truppe cinesi nella regione, Kangxi decise di stabilire dei rappresentanti imperiali a Lhasa (detti Amban), al fine di prevenire possibili ulteriori pericoli e destabilizzazioni interne all’Impero cinese. Questo fu l’avvio di un tipo completamente nuovo di rapporto tra la Cina e il Tibet, formalizzato con un lungo decreto nel 1721 il quale sosteneva che il Tibet apparteneva a tutti gli effetti alla Cina, ed anzi lo si considerava tributario dell’Impero da oltre ottanta anni. A tal proposito Kangxi faceva riferimento ai messaggi inviati dai suoi antenati dai partiti in lotta ai tempi della seconda conquista del Tibet da parte di Gu-shri, già prima che i Qing fossero Imperatori della Cina. Da quel momento in poi, l’Imperatore Manciù fu ufficialmente sovrano del Tibet.

Le implicazioni di questo nuovo rapporto tra il Tibet e la Cina furono indubbiamente di portata storica, nonostante l’ampia autonomia che rimaneva in mano al potere locale. Dopo alcuni anni di riassestamento, il nuovo protettorato cinese garantì condizioni in cui l’unità amministrativa e sociale della regione ebbe la possibilità di svilupparsi sotto uno stabile governo centrale. Le direttive cinesi ebbero diversi effetti sull’ordinamento amministrativo, ed in forma minore sulle tradizioni culturali locali. La riorganizzazione dell’esercito tibetano fu probabilmente l’innovazione più efficace ispirata dai modelli cinesi. In altre funzioni del governo locale, anche se le nomine degli ufficiali erano effettuate per decreto imperiale, le consuetudini tibetane continuarono con una relativa stabilità. Certamente, la vittoria del 1720 e il proclama di Kangxi del 1721, non diedero immediatamente inizio ad un’era di unità e pace. Anche alla luce di questo fatto, diverse truppe di almeno duemila cinesi vennero lasciate come guarnigione imperiale a Lhasa; alla morte di Kangxi, suo figlio Yung Cheng alleggerì questa presenza, anzitutto per non aggravare la situazione economica disperata in cui viveva la popolazione locale, in cui anche la presenza delle truppe cinesi costituiva un ostacolo agli approvvigionamenti. La conseguenza di tale parziale ritiro di truppe cinesi fu l’immediata ripresa delle vecchie rivalità tra i nobili tibetani, che culminò con l’assassinio di Kang-chen e un’aspra guerra civile, da cui Pho-lha emerse vittorioso. D’altra parte, rimaneva la preoccupazione che una guerra civile interna al Tibet potesse ravvivare le mire degli Dzungar nella regione; il nuovo Imperatore non poté che consolidare la presenza di truppe cinesi nella regione, al fine di sedare i disordini e le frizioni. Come nel 1720, non ci furono affatto combattimenti tra cinesi e tibetani, e il governo venne riorganizzato alla presenza di altri rappresentanti imperiali, mentre le truppe in loro sostegno si insediarono a Lhasa. La nuova riorganizzazione consisté in due decenni di comando detenuto da Pho-lha, un’età veramente favorevole al Tibet nel quadro dell’Impero Qing. Nello sviluppo complessivo della storia tibetana, questo nuovo regime, garantito dalla supervisione imperiale, rappresenta da un lato l’ascendente degli elementi laici su quelli sacerdotali e, dall’altro, l’affermarsi di un inedito periodo di stabilità amministrativa. Nelle sue relazioni con la Cina, Pho-lha intuì abilmente che fino a quando la politica tibetana non avesse compromesso o minacciato i più ampi interessi della Cina nell’Asia centrale, la dominazione cinese in Tibet si sarebbe limitata solamente ad alcuni ambiti, quali quello militare o economico, mentre gli affari interni culturali, religiosi e di amministrazione locale si sarebbero ridotti ad una pura formalità. Così una certa autonomia tibetana venne preservata proprio in funzione della protezione cinese, senza alcun particolare timore di interferenza. Il successo di Pho-lha fu completo: egli guadagnò la piena fiducia dell’Imperatore grazie alla sua competenza ed attendibilità, e a Lhasa i suoi rapporti con gli Amban, come erano chiamati i rappresentanti cinesi, rimasero amichevoli e collaborativi.

Marco Costa

BIBLIOGRAFIA

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