Modelli contrastanti: Demostenes Floros su Cina ed UE in competizione in Africa

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L’Africa è al centro di un nuovo scenario geopolitico nel quale Cina ed Unione Europea si stanno affrontando. Il continente ospita l’8% delle riserve di gas mondiali, il 25% della biodiversità naturale globale e il 30% delle risorse minerarie mondiali, oltre che un potenziale energetico inestimabile e una giovane popolazione che alimenta la forza lavoro del continente. Il crescente interesse europeo e cinese per le risorse africane è dettato dalle nuove richieste dell’Industria 4.0, basata sullo sfruttamento di terre rare ed energia rinnovabile per la costruzione delle nuove tecnologie del secolo. Le nuove necessità dello sviluppo industriale hanno obbligato la Cina e l’Unione Europea a ristabilire le priorità dei propri interessi commerciali, riconoscendo l’Africa come una nuova “Eldorado”. Da qui, i due attori internazionali in questione hanno costruito un loro proprio approccio verso i Paesi africani, dei modelli strutturati per poter raggiungere in maniera rapida i propri obiettivi.

Modello cinese ed europeo a confronto: quali dei due prevale ad oggi in Africa?

Come si differenzia il modello cinese da quello europeo? Quali dei due i Paesi africani tendono a preferire? Abbiamo posto queste domande a Demostenes Floros, analista geopolitico ed economico e Professore presso l’Università di Bologna Alma Mater e l’Università Aperta di Imola.

In merito alle politiche che si sono sviluppate con i paesi del Continente africano dopo la fine della Guerra Fredda, esistono fondamentalmente tre differenze tra il modello europeo e quello cinese. Da un punto di vista strettamente economico, potremmo definire l’approccio europeo come tendenzialmente neo-coloniale, nel quale gli interessi economici europei sono fortemente prevalenti rispetto a quelli della controparte africana. Il modello cinese, invece, si caratterizza per un approccio cosiddetto “win-win”, cioè che tende a fare prevalere i vantaggi reciproci.
In secondo luogo, gli innumerevoli progetti d’investimento europei in Africa sono stati spesso caratterizzati da una visione parziale, settoriale, nonché di breve periodo, mentre quelli cinesi da una visione d’insieme, complessiva e di lungo periodo.
Da ultimo, da un punto di vista politico, i cinesi hanno prestato molta attenzione alla non intromettersi negli affari interni altrui. Non dico che questo principio sia sempre stato rispettato, ma siamo piuttosto distanti da quanto hanno fatto tutti i paesi europei in Africa negli ultimi tre decenni.

Questi tre aspetti hanno ovviamente determinato risultati chiari: da una parte, la penetrazione economica cinese in Africa è una realtà indiscutibile; dall’altra, altrettanto indiscutibile è la chiara volontà da parte di diversi paesi africani di liberarsi dal gioco europeo (della Francia, ad esempio, visti gli avvenimenti più recenti). Tutto ciò è emerso con sempre maggiore chiarezza dopo il 24 febbraio 2022 (inizio dell’Operazione Speciale russa in Ucraina). Senza dubbio i Paesi africani apprezzano molto di più il modello cinese (e russo, aggiungerei), rispetto a quello europeo.

L’approccio “win-win” citato da Floros per delineare il modello cinese ha le proprie radici nella conferenza di Bandung del 1955 quando, nell’occasione, si riunirono i principali leader dei Paesi africani ed asiatici al fine di compattarsi in una sorta di “terzo blocco” (in contrasto al rigido bipolarismo della Guerra Fredda) di Paesi non allineati. La non volontà ad assoggettarsi al dominio americano o sovietico fu determinata da una comune prospettiva anticolonialista: entrambi i continenti riconoscevano il fatto di avere in comune un vissuto storico flagellato dagli imperialismi europei di fine XIX secolo, i quali non hanno avuto nessun interesse nel portare sviluppo economico o progresso tecnologico nei territori colonizzati (se non per i propri interessi economici). Lo spirito di Bandung ha dunque forgiato l’inizio della cooperazione economica tra i due continenti, dove la Cina ha saputo raccogliere i migliori frutti grazie ad un considerevole impegno diplomatico ed economico nel corso della seconda metà del XX secolo.

Floros ha inoltre sottolineato come un altro attore occidentale, gli Stati Uniti, stiano avendo difficoltà a mantenere la propria sfera d’influenza nel continente:

Credo sia importante sottolineare che altri paesi, come l’Angola, uno Stato ricco di materie prime appena uscito dall’OPEC e dall’OPEC plus, pare stia “virando” sotto l’influenza degli Stati Uniti d’America, soprattutto dopo che il Presidente Usa, Joe Biden, ha promesso grandi investimenti. Più in generale, in Africa si rafforza il modello cinese (e russo), nonché la forza attrattiva dei BRICS, gli Stati Uniti sono tutt’ora presenti, seppur tra sempre maggiori difficoltà, mentre le vecchie potenze colonialiste europee vedono scemare velocemente la loro influenza.

Dall’Occidente all’Oriente: la rivoluzione dei commerci africani

I rapidi cambiamenti cui stiamo assistendo nella geopolitica africana possono essere resi più chiari se si analizzano i cambiamenti dei flussi commerciali continentali.

Negli ultimi 20 anni, l’Africa ha tendenzialmente ampliato le relazioni commerciali con le grandi economie emergenti dei Paesi asiatici -tendenza che si è verificata a scapito dei Paesi europei o, più generalmente, dell’Occidente.

Di fatto, fino all’inizio del XXI secolo, l’Africa è stata principalmente sotto la sfera d’influenza (politica ed economica) prima dei Paesi europei e poi degli Stati Uniti, i quali riuscirono a contenere l’espansione dell’Unione Sovietica in Africa. Ad oggi, la competizione tra i due continenti è divenuta centrale, soprattutto in termini commerciali, poiché oltre tre quarti dell’import ed export africano è legato ai mercati asiatici ed europei.

Tuttavia, il continente asiatico rappresenta circa il 42% delle esportazioni africane e oltre il 45% delle sue importazioni, dati che in entrambi i casi superano quelli relativi l’Europa. Questo dato ci permette di capire il peso non solo cinese, ma dell’intero continente asiatico sull’economia dei Paesi africani, le cui performance economiche sono strettamente dipendenti dal mercato globale piuttosto che da quello continentale – il commercio intra-regionale africano rappresenta, infatti, meno del 13% del totale).

Scambiando oltre un quarto delle esportazioni (28,2%) e delle importazioni (26,7%) africane, l’UE rimane, comunque, ancora tra i più importanti partner commerciali dell’Africa.

Ma se dovessimo distribuire le quote di import-export in termini nazionali, sarebbe la Cina ad essere il primo partner, detenendo, da sola, il 16,8% delle esportazioni e un quinto delle importazioni (19,9%).

L’evoluzione del mercato africano negli ultimi venti anni ha portato a degli stravolgimenti rilevanti.

Se nel 2000 i Paesi occidentali svolgevano un ruolo centrale nelle relazioni commerciali – il continente europeo era la destinazione principale e privilegiata di quasi la metà di tutte le esportazioni africane e il Nord America rappresentava una quota maggiore rispetto all’Asia – nel corso dell’ultimo ventennio la quota di mercato delle esportazioni dell’UE verso l’Africa è diminuita di un quarto e quella degli Stati Uniti di due terzi.

Dall’altra parte, i Paesi dell’Oriente si sono inseriti in maniera repentina nei flussi commerciali africani, in particolare nell’export africano, con la quota cinese che è aumentata di cinque volte e quella indiana di ben undici.

L’industria mineraria africana alimenta uno dei mercati più redditizi del continente.

In questo settore, quasi due terzi delle esportazioni convergono in Asia (60.5%), mentre l’Europa ne intercetta meno di un quarto (23,4%). Oltre ad essere il primo partner asiatico, la Cina è anche il maggiore importatore di minerali africani (28,0%), mentre il primo partner europeo è la Svizzera (9,4%).

Le terre rare ed i metalli preziosi stanno acquisendo un ruolo strategico nella geopolitica africana, in quanto sono destinati alla produzione e allo sviluppo di nuove tecnologie; al fine di mantenere la propria leadership nel settore produzione mondiale di batterie, infatti, il colosso asiatico importa il 96,7% del cobalto estratto in Repubblica Democratica del Congo.

Questo dato risulta ancora più sorprendente se si considera che più del 70% del cobalto globale proviene proprio dalla Repubblica Democratica del Congo.

La persistente questione della (in)sicurezza energetica del continente

Guardando al mercato del gas africano, emerge ancora una volta il ruolo centrale rivestito dal continente asiatico il quale detiene il predominio sulle esportazioni gaziere proveniente dall’Africa con una quota pari a quasi la metà (43,4%) delle esportazioni totali – per un confronto, circa un terzo (36,1%) del gas africano viene destinato all’Unione Europea.

Tra i paesi europei, l’Italia (27,7%) e la Spagna (24,3%) rappresentano oltre la metà quote relative alle importazioni totali di gas dal continente africano. Il vantaggio di questi due Paesi è determinato dal fatto che le loro reti di gas che si allacciano a quelle nordafricane nei fondali del Mediterraneo, fungendo da tramite tra i due continenti.

Per l’Italia, il Trans-Mediterranean Gas Pipeline (conosciuto come Transmed pipeline o Gasdotto Enrico Mattei), con un’estensione di quasi 2500 chilometri e una capacita di 33,5 miliardi di metri cubi l’anno, è il principale impianto del Mediterraneo per l’importazione di gas dall’Algeria (con il taglio alle forniture russe è diventata il primo partner italiano e terzo partner europeo). Allo stesso modo, la Spagna importa gas dall’Algeria attraverso due gasdotti: il Maghreb-Europe Gas Pipeline, che garantirebbe una portata di 12 miliardi di metri cubi di gas l’anno, ed il il gasdotto Medgaz. Tuttavia, con la chiusura del Maghreb-Europe Gas Pipeline a seguito del congelamento delle relazioni diplomatiche tra Algeria e Marocco (il gasdotto passa per il territorio marocchino prima di giungere in Spagna), il solo Medgaz garantirebbe il normale flusso di gas dall’Algeria alla Spagna.

La vicinanza con le sponde nordafricane è un fattore che certamente contribuito a facilitare i flussi energetici diretti in Europa: infatti, quasi due terzi (64,6%) delle esportazioni di combustibili dirette verso l’UE ha origine in Nord Africa.

D’altra parte, la Cina può confidare nell’Angola come principale partner energetico continentale: le esportazioni di gas dall’Angola verso la Cina costituiscono il 10,7% delle esportazioni totali di combustibili del continente e oltre la metà (55,1%) di tutti i combustibili africani esportati verso Pechino.

Tuttavia, la crescente ricerca – se non proprio caccia – di accedere alle risorse energetiche africane ha prodotto notevoli distorsioni nelle dinamiche di mercato all’interno dei Paesi africani, i quali pur di continuare ad esportare in Europa e supportare le proprie economie pongono seri rischi per la sicurezza energetica della propria popolazione. Un primo esempio può essere il caso della Nigeria: nonostante abbia l’undicesima più grande riserva di petrolio greggio al mondo, non riesce a soddisfare la propria domanda energetica interna, ed è costretta ad importare prodotti petroliferi raffinati dall’Europa.

Quasi la metà (44,6%) della popolazione nigeriana non ha accesso all’elettricità e l’85% non ha accesso a energia derivante da combustibili per cucinare.

La drammatica crisi energetica africana è principalmente dovuta alla scarsa presenza di infrastrutture capaci di raffinare il petrolio, rimanendo costretta ad importare prodotti petroliferi raffinati. La situazione si è inoltre aggravata nel 2020, quando il costo dell’importazione di prodotti petroliferi raffinati ha superato quello esportazioni di prodotti petroliferi raffinati della Nigeria di 43,56 miliardi di dollari, creando un forte squilibrio nella bilancia commerciale del Paese.

Questa distorsione del mercato del petrolio nigeriano è ancora più evidente sei si considera che il Paese africano esporta quasi la metà (45,8%) del suo petrolio greggio in Europa, ma allo stesso tempo importa oltre l’80% dei suoi prodotti petroliferi raffinati dall’Europa, nonostante il Vecchio Continente disponga di meno della metà delle riserve nigeriane.

Anche l’Egitto, nonostante le sue grandi riserve di gas, ha preferito continuare ad esportare in UE a scapito dei bisogni energetici della propria popolazione, imponendo blackout programmati e riducendo la distribuzione di energia elettrica nei centri urbani. Ne abbiamo parlato in maniera dettagliata in questo articolo.

Il report dell’International Energy AgencyAfrica Energy Outlook 2022” ha messo in evidenza le criticità del continente africano nell’affrontare le sfide della sicurezza energetica. Ad oggi, circa il 40% della popolazione africana non ha accesso all’elettricità.

Inoltre, onostante il continente produca meno del 3% delle emissioni mondiali di anidride carbonica (CO2) legate all’energia, l’Africa è il continente dove si sono registrati i peggiori effetti negativi dei cambiamenti climatici; l’alternarsi di forti siccità ad eventi metereologici estremi ha contribuito al drastico calo della produzione alimentare dei Paesi. Gli effetti si sono poi riflessi in campo sociale, alimentando le crisi sociopolitiche del continente, tra cui le prime migrazioni di massa per i cambiamenti climatici.

Di fronte alle urgenze della crisi energetica africana, abbiamo chiesto ancora Floros se l’effettivo aumento di produzione energetica finanziata dai Paesi esteri potrà creare un surplus da esportare oppure soddisferà il crescente fabbisogno energetico africano:

Esistono almeno 650 milioni di africani che ancora oggi non hanno accesso all’energia elettrica da cui la domanda a cui i politici locali dovranno necessariamente rispondere: soddisfare, in primo luogo, i propri consumi interni per poi favorire l’esportazione di energia in Europa oppure l’opposto?

Ovviamente, la cosa migliore sarebbe quella di riuscire a tenere insieme entrambi i versanti della contraddizione, ma penso che ciò non sia del tutto possibile e nemmeno facile quand’anche esistesse la volontà politica.

Quando si parla di energia, vorrei evidenziare un aspetto che spesso e volentieri non viene tenuto in debita considerazione per quanto attiene gli investimenti in Africa. Date le condizioni climatiche, tutti i grandi investitori di rinnovabili si sarebbero già dovuti precipitare per produrre energia solare, ad esempio. Purtroppo, non è così perché parliamo di un Continente fondamentalmente privo di reti di trasmissione, un problema non indifferente per chi deve investire visto che parliamo di centinaia di miliardi di dollari, se non qualche trilione.

Proprio per questo, fin dal 2012, con il Programma per lo Sviluppo delle Infrastrutture in Africa (PIDA), l’Unione Africana ha cercato di progettare nuovi processi per accelerare la costruzione di nuove infrastrutture nel continente. Il PIDA ha infatti come obiettivo primario quello di “costruire le infrastrutture necessarie per reti di trasporto, energia, ICT e acqua transfrontaliera più integrate al fine di stimolare il commercio, innescare la crescita e creare posti di lavoro“, al fine di “accelerare l’integrazione regionale del continente e facilitare la creazione di una Economia Regionale Africana“.

Ad oggi si contano 409 progetti inerenti al PIDA: 54 in materia di Energia, 114 in ICT, 232 in Trasporti e 9 in Acqua. I dati del “PIDA Progress Report” di dicembre 2020 ci consentono di avere anche un quadro geografico dello sviluppo delle infrastrutture: i Paesi dell’Africa Orientale detengono la maggior parte dei progetti nel settore dei Trasporti, mentre i pochi progetti legati all’Acqua sono principalmente nella regione dell’Africa Occidentale e del Maghreb; se da una parte circa la metà dei progetti ICT sono stati completati e si trovano nella fase operativa, dall’altra solo il 6% dei progetti energetici, il 19% dei progetti di trasporto e l’11% dei progetti legati all’acqua si trovano in fase operativa.

Africa: nuovo colonialismo o processo di sviluppo definitivo?

Considerando il massiccio impatto economico del continente europeo ed asiatico su quello africano, l’esito dello scontro tra Cina ed Unione Europea per il dominio delle relazioni con i Paesi africani sarà determinante nella costruzione di un continente sviluppato. Tuttavia, la minaccia di nuove forme di colonialismo – soprattutto di stampo europeo – basato sullo sfruttamento delle risorse energetiche e minerarie del continente, rischia di contrastare gli sforzi del continente nel proprio processo di costruzione politica, sociale ed economica.

Il Professor Floros ha suggerito una chiave di lettura interessante nella comprensione delle finalità europee nelle politiche in territorio africano, che vanno ben al di là della sola ricerca di energia e terre rare:

“Le politiche implementate verso il “capitale umano” africano saranno la vera cartina di tornasole. L’Unione Europea mi pare voglia continuare ad attrarre forza lavoro nel proprio continente – i paesi del nord europea hanno la capacità di attrarre forza lavoro specializzata e/o altamente istruita in maniera nettamente superiore rispetto al sud Europa – senza troppo preoccuparsi delle ricadute che ciò ha sulla reale possibilità che l’Africa esca dalla condizione attuale. Senza la presenza di capitale umano infatti, non ci sono possibilità di crescita. L’impressione è che i cinesi, proprio perché anch’essi colonizzati dall’Occidente in passato, hanno chiaro il problema. Auspico quindi che possano proseguire e migliorare il percorso di cooperazione reciprocamente vantaggiosa da poco iniziato.”

Un altro esempio di come le due potenze si differenziano nelle relazioni con il continente africano lo possiamo trovare nella sfera politica: infatti, sia l’Unione Europea sia la Cina contribuiscono al miglioramento delle politiche domestiche del continente, applicandosi però in termini diversi.

Da una parte, l’Unione Europea nel 2021 ha lanciato un piano di 1,5 miliardi di euro al fine di promuovere e proteggere le organizzazioni della società civile e dei diritti umani, in nome “dei diritti umani e delle libertà fondamentali, della democrazia e dello stato di diritto”. Nello specifico, il programma prevede di sorvegliare l’osservanza dei diritti umani, delle libertà fondamentali e del giornalismo indipendente nei Paesi africani. Sebbene il progetto ambisca a un netto progresso nelle strutture sociopolitiche dell’Africa, diversi Paesi africani hanno dimostrato una discreta intolleranza nei confronti delle intromissioni provenienti dal continente europeo, talvolta sfociati in dichiarazioni apertamente antieuropeiste (facendo uso di una retorica che rianima le oscure vicende dell’epoca coloniale del XX secolo). Di fatto, tra il 2000 e il 2022, l’UE ha lanciato missioni diplomatiche volte all’osservazione elettorale di 45 elezioni presidenziali e 45 elezioni parlamentari in Africa.

D’altra parte, l’approccio cinese risulta essere opposto ma allo stesso tempo complementare. Se l’Unione Europa intende sorvegliare “dall’alto” lo sviluppo politico del continente tutelando il corretto svolgimento delle elezioni ed i diritti fondamentali, la Cina predilige un approccio “dal basso” radicato nella società civile e politica. Infatti, tra il 2011 ed il 2015 la Cina ha gestito la formazione di oltre 2000 aspiranti politici. Successivamente nel 2018, con l’inizio del “Piano d’Azione Cina-Africa 2018-2021”, sono stati formati circa 50.000 funzionari civili africani.

La Cina sembrerebbe dunque voler distribuire le proprie modalità di governance finanziando, in loco, la formazione della società civile e della classe politica. Ciò rientra in uno dei punti chiave della Nuova Via della Seta, ossia la “connettività tra persone”: questa consiste nel creare ponti tra la Cina ed il resto del mondo attraverso espedienti sociali e culturali, come la condivisione della cultura cinese presso istituti educativi o di formazione, in un processo di soft power finalizzato ad attrarre i Paesi africani nella sfera d’influenza cinese.

Tuttavia la formazione non si limita ai singoli individui, ma si rivolge anche ai partiti politici africani, ai quali vengono forniti gli strumenti della governance cinese nella politica domestica, come l’influenza sull’opinione pubblica, le relazioni con i media, la censura su Internet, il monitoraggio delle opposizioni e la gestione delle critiche al partito.

Entrambi gli approcci sembrerebbero presentare rischi e opportunità per l’Africa.

L’assistenza europea volta alla promozione della stabilità politica e sociale viene talvolta percepita come un’intrusione negli affari interni, alimentando tensioni e risentimenti nelle società africane. Sul versante opposto, l’approccio cinese si mantiene quanto possibile lontano dalle politiche domestiche degli Stati africani, incentivando uno sviluppo sociopolitico basato sui paradigmi del Partito cinese, i quali si contraddicono talvolta agli ideali proposti dagli europei. Spetterà dunque ai singoli Stati africani decretare le sorti della competizione tra Cina ed UE, i quali dovranno essere capaci di riconoscere in quali programmi, progetti ed iniziative si possa ricavare il proprio massimo beneficio.

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