L’impero tra crisi dello Stato-Nazione e integrazione dello spazio civilizzazionale

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di Maxence Smaniotto

Permanenze storiche e tempo corto

Presa individualmente, la disciplina della geopolitica non è sufficiente per spiegare le dinamiche profonde che caratterizzano, sovente determinandole, le relazioni tra nazioni. Per essere proficua e, soprattutto, completa, la loro analisi deve prendere in considerazione una griglia di lettura multifattoriale e comparativa in cui convergono, completandosi vicendevolmente, diversi fattori esplicativi, così da evitare le pericolose spiegazioni mono fattoriali (A. Chauprade, 2007).

Come potrebbe infatti la geopolitica sola spiegare le violente e spettacolari rivolte avvenute in Sri-Lanka? La geopolitica come scienza non può al contrario essere d’aiuto altrimenti che come “letto del fiume della storia”, secondo la bella espressione concepita da Carlo Terracciano (1986, p. 67). Con ciò, l’autore intendeva sottolineare come la geopolitica debba prendere in conto non i rapporti tra geografia e politica, ma più globalmente la storia, la religione, le specificità delle culture – insomma, l’immensa varietà dell’essere umano.

In tal senso, il grande storico francese Fernand Braudel – il cui impatto sul pensiero geopolitico e storico contemporaneo è incredibilmente passato sotto silenzio – invitava a raggruppare le scienze sociali in un obiettivo comparativo al fine di porre le basi per una scienza “totale” che prendesse in conto, valorizzandole, tutte le branche delle scienze umane, dalla storia all’economia, dalla geografia all’antropologia.

Inoltre, ed è certamente la parte più esaltante del suo percorso intellettuale, forse quella più feconda, invitava a interessarsi al “tempo lungo” ( la “longue durée”), cioè alle dinamiche sociali più profonde, antiche e restie al cambiamento. E ciò in un’epoca, quella degli anni Trenta e Quaranta, che vedeva nella storia null’altro che una lunga successione di eventi che lo studioso deve ricostruire e analizzare separatamente. Al contrario, il “tempo corto”, quello degli eventi, presenta un’importanza più ridotta.

Senza dinamiche del tempo lungo, senza le permanenze, siano esse d’odine economico, sociale, geografico e pure mentale, nessun evento avrebbe potuto aver luogo. Gli esseri umani, al contrario, nascono e si sviluppano in legame con un dato contesto, sviluppano dei valori e dei comportamenti che li contraddistinguono da altri popoli.

Tutti questi fattori devono dunque essere presi in considerazione. E per fare ciò, è necessario andare controcorrente con la concezione del tempo dominante dalla fine del XX secolo, quella del tempo corto, dove l’accento è posto sugli eventi, la velocità, le crisi, i cambiamenti improvvisi, l’emotività, e pensare, invece, in termini di un tempo lungo caratterizzato da ritmi molto lenti, dove i cambiamenti avvengono un poco alla volta, su diverse generazioni. Concezione, quest’ultima, insopportabile in un mondo dettato dalle leggi del neoliberalismo, ossessionato dalla ricerca sfrenata di godimento effimero, dall’euforia senza limiti (M. Recalcati, 2011).

Non è dunque un caso se questa concezione del tempo e della storia abbia avuto particolare successo negli anni Sessanta e Settanta, l’epoca dove un certo numero di intellettuali francesi successivamente raggruppati sotto l’appellazione di French Theory, avranno un immenso impatto nel paese del liberalismo e delle concezioni individualiste, gli Stati Uniti d’America. Da Michel Foucault a Judith Butler, in un movimento di sempre maggiore accelerazione che ben si sposerà con le teorie della cybernetica e del transumanesimo che hanno reso la Silicon Valley il baricentro civilizzazionale occidentale del XXI secolo.

Vivere nel tempo corto, nella rapidità, significa, da un punto di vista psicologico, vivere nell’immaginario. La ricerca sfrenata della novità e del godimento risponde a un imperativo ben preciso: negare, cortocircuitandolo, il principio di realtà al fine di mantenere esclusivamente il principio di piacere (C. Melman, 2003). Ma il secondo deve, presto o tardi, sottomettersi al primo. Questo passaggio può avverarsi particolarmente complicato e doloroso, in quanto impone una rivoluzione copernicana e una rinuncia, da parte del soggetto, a una parte considerabile del piacere ricercato. Ciò determina invariabilmente una rinegoziazione della visione di sé e del mondo, processo estremamente complicato nel quadro di una civilizzazione edonista e dove l’individuo è, in nome dell’egualitarismo, sovrano di sé e dove la società deve potersi adattare alle sue necessità.

A questo punto possiamo dichiararlo esplicitamente: gli eventi che scuotono il mondo da alcuni anni e che sembrano trovare, nel 2022, dei punti di convergenza preoccupanti, incarnano il principio di realtà. Da un punto di vista geopolitico e più generalmente storico, il principio di realtà si traduce in quelle costanti del tempo lungo di cui abbiamo accennato precedentemente, e che il tempo corto, quello degli eventi, non intacca minimamente. E, potremmo aggiungere, una certa concezione della storia non come semplice successione lineare di eventi, ma come tempo ciclico, come venne concepito, pur partendo da presupposti diversi, da Oswald Spengler (1922) e Arnold J. Toynbee (1972).

Le esplosioni degli stati-nazione siriano, iracheno e libico, artificiali in quanto costruiti da potenze straniere e non corrispondenti ai confini etnici e linguistici dei popoli che li abitano, avrebbero dovuto svelare quelle dinamiche profonde proprie del tempo lungo; la guerra in Ucraina le palesa in maniera chiara e incontrovertibile. Contrariamente a quello che è dichiarato da governi e analisti, la Russia non sta inglobando le porzioni orientali e meridionali dell’Ucraine a causa di Euromaidan. Euromaidan è un evento in sé di scarsa o nulla importanza, e che traduce, rende sintomo, potremmo dire, dinamiche più profonde e antiche. La Russia, dal nostro punto di vista, dopo una pausa di trent’anni sta invece proseguendo quel che aveva iniziato nel VIII secolo, quando, seguendo i corsi dei fiumi, la Rus’ di Kiev e, successivamente, quella della Moscovia, iniziarono a estendere la propria influenza a sud, e che infine completarono nel XVIII secolo con l’annessione della Crimea e la fondazione di Odessa, e cioè accedere ai mari caldi, quello del mar Nero e, da lì, al Mediterraneo.

Senza questi accessi, la Russia è geopoliticamente strangolata, in quanto né la facciata marittima siberiana né la minuscola e isolata exclave di Kaliningrad, che fornisce un esiguo ma strategicamente importante accesso al mar Baltico, possono compensare la perdita sugli sbocchi marittimi del mar Nero e Mediterraneo.

Gli eventi che caratterizzano le relazioni tra Russia e Ucraina sono inoltre incomprensibili per l’uomo che vive nei (e dei) singhiozzi del tempo corto, ma comprensibili per quello che vive nel tempo lungo, che concepisce la storia in termini di lentezza. Egli comprende che l’umanità assiste al crepuscolo degli Stati-nazione frutto della Modernità e, dunque, sulla scala del tempo storico lungo, un evento, e del ritorno degli Imperi, elementi propri al tempo lungo, permanenze che resistono al passaggio del tempo e al ciclo degli eventi, e dove confluiscono, sedimentandosi e completandosi, elementi geografici, civilizzazionali, antropologici, religiosi e mentali.

L’obiettivo di questo breve studio, necessariamente incompleto vista la complessità e la vastità dell’argomento trattato, sarà di mettere in luce quelle dinamiche soggiacenti le relazioni tra paesi e che ne determinano le orientazioni. Tenteremo, con umiltà e circospezione, di andare più in profondità dell’analisi superficiale dell’attualità, di legare eventi a permanenze, e viceversa.

Ciò è necessario in quanto è ormai chiaro che la Russia e la Cina, e, come vedremo, altri ancora, non stanno tentando di ridivenire degli imperi – esse non hanno mai cessato d’esserlo.

Ma prima di addentrarsi nella definizione di cosa intendiamo con il concetto, fondamentalmente assai vago, di “impero”, è necessario abbordare in una panoramica generale i temi oggi particolarmente sensibile della crisi degli stati-nazione, del mondialismo e della multipolarità.

Impero e Stato-nazione

Le dinamiche che hanno condotto all’attuale crisi degli Stati-nazione sono varie e presenti da alcuni secoli. Più esattamente dal 1648, quando il trattato di Vestfalia sancì che ormai le guerre e i trattati erano prerogativa delle monarchie, allorché precedentemente esse si svolgevano principalmente su base religiosa. Il trattato stipula quel che avveniva già da tempo, e cioè la nascita degli Stati-nazione, il che avrà delle conseguenze immense. Già un secolo e mezzo più tardi sarà l’alba delle guerre di massa, degli ideali repubblicani, dei principi della laicità e del Progresso, cardini della maggior parte degli Stati-nazione. E’ questo movimento che frammenta, su base etnica e culturale, i grandi Imperi dell’epoca, e che, diffondendosi ovunque nel mondo, distruggeranno le monarchie del mondo intero e creeranno a loro volta nuovi Stati-nazione, nuove repubbliche che, staccate dall’Impero di cui facevano parte, saranno troppo deboli per essere realmente sovrane.

Due dinamiche appaiono importanti e intimamente legate tra loro.

Prima di tutto l’essenza stessa dell’Occidente, che porta in essa le contraddizioni interne che stanno conducendo alla crisi quegli Stati-nazione che ad essa aderiscono: industrializzazione, capitalismo, razionalismo, secolarizzazione, laicismo, materialismo sono ideologie che hanno costantemente distrutto le basi stesse delle società tradizionali, ivi comprese quelle che si erano costituite in Stati-nazione.

La seconda dinamica è quella ha permesso all’Occidente di operare fin nei più reconditi spazi dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina: la globalizzazione, che diventerà ormai mondializzazione, cioè tentativo di convertire ogni spazio civilizzazionale, ogni cultura, ai valori dell’Occidente.

La mondializzazione e la proliferazione di Stati-nazione, molto spesso con confini totalmente artificiali, hanno rappresentato dei fattori di destabilizzazione mondiale. Oggi un certo numero di analisti parla dell’emergenza di un mondo multipolare basato sulle civilizzazioni (S. Huntington, 1996; A. Dugin, 2013), ma ogni civilizzazione necessita di un polo organizzatore, il quale non può essere null’altro che l’Impero, il modello dello Stato-nazione non essendo storicamente, demograficamente e geograficamente in grado di organizzare le civilizzazioni.

Un esempio molto chiaro è quello dell’Islam sunnita, in cui nessuno Stato-nazione arabo è mai riuscito a divenire leader di questa civilizzazione. Per un certo tempo l’Egitto ci aveva provato, ed oggi è l’Arabia saudita, che possiede La Mecca, che tenta goffamente. Ma la realtà è che solamente due Imperi musulmani sono sopravvissuti e possono oggi organizzare e integrare questo spazio civilizzazionale: la Turchia (sunnita) e l’Iran (sciita). I loro rapporti conflittuali e impregnati di concorrenza, ivi compresa militare, hanno radici profonde, storiche, ma risultano prima di tutto da questa dinamica imperiale di ergersi in guide dell’Islam.

Gli Stati-nazione hanno funzionato ad un momento preciso della storia umana, soprattutto in Europa. Essi sono nati in opposizione a Imperi in decadenza, o che avevano intrapreso una volontà di assimilazione che mal si adatta a una concezione imperiale, dove l’estensione territoriale comporta forzatamente una pluralità di popoli, ciascuno con la propria cultura, e che non è possibile assimilare di forza senza rischiare di far implodere l’Impero.

Detto altrimenti, gli Stati-nazione sono nati in seguite alla crisi del modello imperiale, che era ormai patente nel XVIII secolo. Il XXI secolo sarà l’epoca che vedrà la crisi degli Stati-nazione e la rinascita di quegli Imperi che, costanti del tempo lungo, hanno saputo, ognuno a modo proprio, limitare i danni degli Stati-nazione moderni e tecnologicamente avanzati, assumerne determinate caratteristiche e utilizzarle contro di essi.

Se gli Imperi hanno saputo resistere nel tempo, ciò è dovuto a una serie di fattori, geografici come religiosi, demografici e civilizzazionali. Oggigiorno possiamo individuare sei paesi che possono essere definiti Imperi e che profittano della crisi degli Stati-nazione per riemergere come centri di potere e integrazione regionale: gli USA, la Turchia, la Russia, l’Iran, la Cina e l’India.

Ma quali sono le caratteristiche che definiscono un Impero, dall’antichità ai giorni nostri? Ne proponiamo sette, e le analizzeremo brevemente una ad una.

Caratteristiche dell’Impero

Una volta presa in considerazione l’ipotesi second cui la forma imperiale s’inserisce come costante del tempo lungo, resta il compito forse più arduo, quello di definire cosa sia un impero e le caratteristiche che lo contraddistinguono.

Compito arduo, dicevamo, in quanto la sua definizione risente dell’epoca e delle concezioni degli uni e degli altri, che traducono riferimenti molto diversi. Per esempio, la visione tradizionalista non corrisponde che in minima parte a quella materialista. Per la prima l’Impero è tale solamente in virtù della presenza di un imperatore di diritto divino. Nella seconda, l’Impero non è altro che una costruzione elaborata da una classe privilegiata al fine di giustificare e legittimare i propri interessi sulle altre classi. Dal nostro punto di vista, in Impero non si definisce esclusivamente per la vastità del suo territorio e la presenza di un imperatore di diritto divino. La Cina, per esempio, non è mai stata una monarchia di diritto divino, e nel Sacri Romano Impero germanico, gli imperatori erano eletti dai Grandi Elettori. Né il primo né il secondo Impero francese furono di diritto divino, al contrario!

Quello che desideriamo proporre in questa sede è di definire l’Impero secondo dei criteri non partigiani, quasi scarni, scevri da ogni concezione ideologica. Definiamo l’Impero come un insieme coerente di popoli diversi per etnia, cultura e religione ma viventi in seno a un medesimo Stato decentralizzato, dotato di una certa vastità territoriale, risorse sufficienti e caratteristiche che lo rendono sovrano e indipendente rispetto ad altri Stati.

L’Impero riconosce la necessità di un certo grado di autorità, da intendersi nel senso latino di autoritas, necessaria per permettere la coesistenza di popoli differenti. Questa autoritas può essere esercitata dalla figura simbolica del monarca, oppure da un’altra figura apparentata, oppure ancora da un sistema statale e civilizzazionale sufficientemente forte e stabile da garantire l’unione dell’Impero. Detto altrimenti, l’Impero esiste necessariamente in virtù della presenza o meno di un monarca di diritto divino, e si definisce più specificatamente in funzione della sua essenza.

La struttura di un Impero si definisce secondo sette tratti fondamentali: l’area geografica, lo spazio civilizzazionale, la lingua, la religione, l’economia, la demografia e l’esercito. Se uno di questi tratti viene a mancare, l’Impero non è più tale, in quanto non è né sovrano né centrale né capace di garantire un’autorità.

La geografia è la base dell’Impero, l’asse fisico su cui si basa la sua esistenza e sui cui esercita la propria sovranità. Un Impero senza assetto territoriale è semplicemente inesistente, e un popolo senza territorio è alla mercé degli Stati in cui vivono. Esso non può ambire ad altro che a effimeri successi economici e politici nel quadro di altri paesi, il che può rivelarsi pericoloso qualora la situazione locale si degradi. Esempi tipici di questi casi sono gli armeni, gli ebrei, gli yazidi e gli zoroastriani.

La geografia ingloba diverse nozioni. Prima di tutte quella territoriale. L’Impero è una realtà vivente, un’entità statale, sociale e civilizzazionale. Pertanto, essa necessita di un territorio su cui svilupparsi e esercitare la propria sovranità attraverso le leggi che si è esso stesso dato e che, in taluni casi, può addirittura imporre all’estero, direttamente tramite la propria presenza fisica, oppure indirettamente attraverso le strutture sovranazionali, dunque imperiali, che controllano o in cui vige un’influenza maggiore. Caso paradigmatico sono gli USA, le cui leggi nazionali sono fatte di modo che possono violare a loro piacimento la giurisdizione dei paesi detti “alleati”, ad esempio multando quelle imprese straniere che commerciano con paesi che Washington ha decretato essere suoi “nemici”.

La geografia territoriale dell’Impero si caratterizza per una certa estensione. Esso deve poter assicurare, in caso di guerra o di catastrofe naturale, un entroterra sicuro, come fu regolarmente il caso per la Russia (invasione napoleonica, Seconda Guerra mondiale) e la Turchia durante e dopo la Grande Guerra. Inoltre, il territorio deve poter garantire un sostentamento alimentare per la popolazione. Pertanto, e qui sta la seconda nozione, un territorio necessita di infrastrutture di buona qualità che assicurino i collegamenti tra una regione e l’altra, cioè che favoriscano l’integrazione geografica.

La forza di Roma risiedette non solo nelle sue eccellenti legioni o nell’amministrazione, ma soprattutto nella costruzione di strade, ponti, acquedotti e porti. Un Impero vasto e mal collegato, con poche e fatiscenti infrastrutture, è destinato a frammentarsi e implodere in quanto troppe regioni e popoli rimangono isolati e, non riconoscendosi come facente parte di uno stesso insieme statale, sarebbero logicamente tentati di fare secessione.

Terzo fattore, forse il più importante, è quello della posizione. Esso fu sottolineato dal geografo americano Nicholas J. Spykman. La posizione garantisce l’accesso alle risorse naturali, alle migliori vie di comunicazione, agli sbocchi sui mari caldi e agli oceani, e permette inoltre la prossimità con alleati, la distanza con i nemici e con i centri di potere. Gli USA posseggono importanti risorse naturali sul proprio territorio, non sono circondati da paesi ostili e, grazie alle loro coste, l’atlantica e la pacifica, sono esattamente al centro dei due poli più ricchi del pianeta, quello europeo e quello est asiatico. Al contrario, la Russia, immensa, possiede pochi sbocchi sui mari caldi, che sono d’altronde chiusi (il mar Caspio) o semi-chiusi (il mar Nero).

Essa incontra notevoli difficoltà all’ovest, dove l’UE, “testa di ponte degli USA in Eurasia” (Z. Brzezinski, 1997) e cavallo di Troia della NATO, ha integrato la maggior parte del continente a discapito di Mosca, e all’est, dove la Cina aspira a integrare e sfruttare la Siberia orientale, immensa, ricca e spopolata.

L’Iran, maggiormente desertico, è chiuso tra le catene montuose dell’ovest (catena montuosa dei monti Zagros), quelle del nord (monti Elbrus e catena del Kopet Dag) che danno accesso il mar Caspio; ad est e ad ovest, il paese è delimitato da vasti deserti confinanti con Stati-nazione che per lungo tempo furono o occupati dagli USA, l’Afghanistan e l’Iraq, o stretti alleati di essi, il Pakistan e la Turchia. Il sud dell’Iran dà accesso al golfo Persico, anch’esso chiuso, e all’oceano Indiano. I numerosi incidenti lungo le rive dello stretto di Hormuz hanno come obiettivo quello di limitare ulteriormente le capacità di proiezione dell’Iran, chiudendo definitivamente il paese al resto del mondo.

Infine, la Cina, la cui interfaccia marittima – che dà accesso alla zona economica più ricca del pianeta – risulta estremamente limitata da una coalizione USA che funge da “cordone sanitario”, rappresentata da Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Guam, Filippine, Vietnam. Da qui i tentativi di Pechino per aprirsi delle vie di comunicazione tramite le catene montuose dell’ovest e, sui mari, recuperare Taiwan e una parte delle isole Spratly, passare accordi con le Isole Salomone e il Myanmar, e infine appoggiarsi sulla numerosissima e ricca diaspora cinese disseminata nel sud-est asiatico, a Singapore, Malesia, Indonesia e Thailandia.

L’ultimo fattore geografico di una certa importanza è la varietà dei paesaggi. Determinate geografie fisiche favoriscono l’omogeneità e la centralizzazione, mentre altri favoriscono la pluralità e la decentralizzazione.

Ciascun Impero si percepisce come polo centrale di uno spazio civilizzazionale e agisce di conseguenza. Quando il sultano ottomano Selim I costrinse l’ultimo califfo abbaside al-Mutawakki III a cedergli il titolo di guida dei credenti, l’Impero ottomano divenne per quattro secoli il centro dell’Islam. Allo stesso modo, la Russia, che non ha mai contenuto entro i propri confini tutti gli Stati e popoli di fede ortodossa, ne rappresenta comunque il polo centrale, soprattutto in virtù del concetto di Terza Roma.

La tendenza di ogni Impero è di integrare lo spazio civilizzazionale di cui si percepisce il centro. Ciò non avviene esclusivamente tramite la religione o la lingua, ma anche attraverso le vie di comunicazione, gli scambi commerciali, la diffusione di mode e idee, oltre a una storia comune. Tutto ciò partecipa a imprimere una certa mentalità o, piuttosto una certa visione del mondo, un certo rapporto ad esso, talmente peculiare che finisce per differenziare uno spazio civilizzazionale da un altro. Quello della mentalità è un fattore decisivo che venne già a suo tempo sottolineato da Fernand Braudel: “Questi valori fondamentali, queste strutture psicologiche sono senza dubbio quello che le civilizzazioni hanno di meno comunicabile le une alle altre. E queste mentalità sono ugualmente poco sensibili allo scorrere del tempo”. (p. 66).

Le visioni di sé e del mondo, dunque, variano da civilizzazione a civilizzazione. Quella occidentali s’iscrive in un movimento che tende al razionalismo, all’uscita dalla visione religiosa, alla secolarizzazione e a un certo materialismo. Quella induista, struttura invece una visione ciclica, per certi versi fatalista, e s’impregna di sacralità. Quella confuciana si caratterizza infine per une ricerca dell’equilibrio, del rispetto delle gerarchie e dell’ordine – in essa l’individuo non esiste se non in funzione della collettività.

Gli spazi civilizzazionali come li definiamo non sono etnicamente e culturalmente omogenei, e in taluni casi possono addirittura includere diverse religioni, come sono il caso della Russia e dell’Iran. La nozione d’Impero esclude il ricorso all’assimilazione e alla centralizzazione, due concetti cardine degli Stati-nazione, ed è al contrario garante delle autonomie locali, siano esse culturali, territoriali o religiose. Nell’Impero asburgico, per esempio, né gl’italiani né i bosniaci né gli ungheresi erano considerati austriaci. Al contrario, con la Rivoluzione francese del 1789 lo Stato-nazione francese considerava Bretoni, Averni, Provenzali e Corsi come francesi, cioè franchi: l’assimilazione fu spesso brutale, e la scuola repubblicana, resa obbligatoria alla fine del XIX secolo, vi giocò un ruolo fondamentale.

Questi spazi civilizzazionali tendono invariabilmente ad essere integrati sotto alla spinta dell’Impero, il quale lo organizza e struttura. Esso ne ha i mezzi economici e militari, la demografia sufficiente, il potere politico. Oggigiorno tale integrazione avviene soprattutto via la creazione di strutture economiche, culturali e armate sovranazionali, come il Consiglio di cooperazione dei Paesi turcofoni.

Ne risulta che gli USA, eredi dell’Impero inglese e del pensiero greco-romano e protestante, si pongono ormai come polo organizzatore dello spazio Occidentale. La Cina lo è dello spazio neoconfuciano e taoista, l’Iran di quello sciita e persiano (Tajikistan, Iraq, Siria, Libano, Bahrein e Afghanistan occidentale), la Turchia di quello turcofono e turcofilo (Cipro Nord, Bosnia, Albania, Azerbaijan, parte del Caucaso del Nord e dell’Asia centrale, Misurata, Kurdistan iracheno e Kurdistan siriano), l’India dell’hindustan e la Russia di quello ortodosso e eurasiatico (Europa dell’est, Serbia, Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, Bielorussia, Ucraina, Moldova, paesi Baltici, parte del Caucaso meridionale, parte dell’Asia centrale).

La lingua è un fattore unificante estremamente potente, ma non l’unico. Essa è un importante segno identitario, e in generale è proprio attorno alla questione linguistica che si cristallizzano le rivendicazioni secessioniste e autonomiste. Lo Stato-nazione impone la sua assimilazione soprattutto via l’apprendimento della lingua, e tende a far sparire le altre, lasciando solamente spazio ai dialetti. Nel caso dell’Impero, la lingua può essere imposta, ma poiché la sua vocazione non è l’assimilazione, in generale questa politica si rivela fallimentare e controproducente.

Negli anni Trenta, all’apice dello stalinismo, l’Unione sovietica tentò senza successo di imporre il russo in tutte le repubbliche. Non solamente falli, ma inoltre dovette riconoscere le lingue vernacolari di ogni repubblica, dimodoché pure alfabeti differenti dal cirillico (il georgiano e l’armeno) furono mantenuti.

Tra il 1926 e il 1938 vi fu addirittura un tentativo di unificare tutti gli alfabeti dell’URSS, e perciò venne istituito il Comitato Centrale Federale del Nuovo Alfabeto. Il progetto, utopico, fu un fallimento, ma contribuì in ogni caso al passaggio all’alfabeto latino per la maggior parte dei popoli turcofoni (Elena Simonato-Kokochkina, 2010). Oggi, il cirillico è un alfabeto regolarmente utilizzato in tutto il Caucaso meridionale, in Russia, in Bielorussia, in Ucraina, Moldova, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Macedonia del Nord, Montenegro, Mongolia e Asia centrale, ed è ufficiale in molti di questi paesi.

Insomma, la capacità di un Impero a mantenersi nel tempo e a proiettare e strutturare il proprio spazio civilizzazionale è proporzionale alla sua capacità di conservare una lingua nello spazio civilizzazionale di cui rappresenta il centro.

Un Impero necessita di una demografia dinamica e importante, con una bilancia positiva tra nascite e morti. La massa demografica mantiene intatto il territorio dell’Impero, lo legittima, lo nutre e ne protegge le frontiere. I mastodonti cinese e indiano rappresentano insieme un terzo dell’umanità, rispettivamente un miliardo e quattrocento milioni e un miliardo e trecento ottanta milioni di abitanti. Gli altri Imperi posseggono masse demografiche più esigue ma sufficientemente importanti per pesare a livello regionale, in ogni caso ben più importanti degli Stati-nazione che li attorniano e che non rappresentano null’altro che delle regioni facenti parte degli spazi civilizzazionali. Gli USA hanno trecentotrenta milioni di abitanti, la Russia centoquaranta, la Turchia ottantacinque, l’Iran ottantaquattro.

Il tasso di natalità è un parametro di primo ordine che deve essere costantemente preso in considerazione. Il problema è molto presente in Russia (9.71 bambini nati per 1000 abitanti, quando il tasso medio nel mondo è di 17.5), ma anche negli USA, dove il tasso di fertilità è tutto sommato mediocre (12.33) e in Cina (11.30)1. Iran (15.78), India (17.53) e Turchia (14.53) si portano meglio, e possono contare su una popolazione piuttosto giovane e dinamica che accede sempre di più a degli studi superiori.

Sebbene la struttura di un Impero sia pensata per accogliere, entro certi limiti, determinati flussi migratori, ciascuno di essi nasce e si struttura attorno a un’etnia principale, a cui se ne aggiungono altre nel tempo, tramite espansione territoriale, alleanze o invasioni. Se l’etnia declina e diventa minoritaria, essa si trova a dover scegliere tra due opzioni. O diviene una casta dominante ma in equilibrio precario, oppure l’Impero implode sotto le spinte separatiste o le invasioni. Il sostrato etnico degli USA, che viene generalmente indicato con il termine di Wasp, è quello anglo-sassone, di fede cristiano-protestante. Nel caso cinese, l’etnia dominante è quella Han (92% della popolazione), mentre in Iran è quella persiana (circa 60%), in Turchia i turchi (circa 75%), in Russia i russi (80%). L’India rappresenta un caso particolare in quanto non presenta un gruppo entico principale ben identificato – l’identità dell’Impero è basata sull’appartenenza religiosa all’induismo (80%) e alla lingua parlata. Si può in ogni caso affermare che il principale gruppo indiano è quello degli hindi, che praticano l’induismo e parlano l’hindi.

La religione struttura l’identità dell’Impero, ma non ne è un elemento esclusivo. L’Impero austro-ungarico era cattolico, ma aveva minoranze musulmane e ortodosse. Allo stesso modo, la Russia è ortodossa ma non esclude né tenta di convertire le sue popolazioni musulmane, animiste o buddhiste. Resta in ogni caso che la pratica religiosa è fondamentale per l’Impero, il quale perderebbe della propria essenza se si convertisse o se abbandonasse totalmente la sfera religiosa. Dei sei imperi oggi esistenti, nessuno tralascia la questione religiosa – al contrario. Sia essa praticata con fervore o secolarizzata, la religione determina profondamente gli orientamenti interni ed esteri dell’Impero. La lotta al terrorismo e l’esportazione della democrazia dell’era Bush rispondono a quella volontà di evangelizzazione e proselitismo così caratteristico delle sette evangeliche che pullulano negli USA, tutte d’ispirazione protestante: metodisti, battisti, mennoniti, mormoni e via dicendo hanno un potere e un’influenza decisiva.

Ogni Impero ha la sua religione e ideologia : gli USA, il protestantesimo e il progressismo, la Cina il neoconfucianesimo e un comunismo riadattato al contesto locale, la Russia l’ortodossia (nozione della Terza Roma) e l’eurasismo, l’Iran lo sciismo e l’eredità persiana, l’india l’indù e la democrazia, la Turchia, infine, l’Islam sunnita, di cui tenta di ridivenire il leader mondiale, e il neottomanesimo, che è null’altro è se non un panturchismo che, contrariamente al repubblicanismo kemalista, integra l’eredità dell’Impero ottomano.

L’esercito è la prima, e forse maggiore, garanzia della sovranità dell’Impero. Esso ne protegge i confini, mobilizza le risorse economiche, funge da strumento di pressione sugli Stati-nazione circonstanti. La composizione dell’esercito in un Impero è generalmente diversa da quella propugnata dagli Stati-nazione, dove non è riconosciuta la differenza tra i vari gruppi etnici e culturali. La questione non è mai stata totalmente risolta, in quanto la costituzione di unità di combattimento basate su gruppi etnici comporta un rischio maggiore, quello di formare, a spese dell’Impero, unità coese che potrebbero attuare delle rivolte militari e secessioniste. Oggigiorno i curdi di Turchia sono, durante il loro servizio militare, assegnati a compiti secondari, e l’uso delle armi è riservato da gruppi etnici considerati “fedeli” alla Turchia. Precedentemente, durante la Grande Guerra, il genocidio armeno iniziò con il disarmo degli uomini impegnati al fronte.

In ogni caso, ciascun Impero odierno si definisce per la sua capacità militare. Gli USA rappresentano la prima forza armata al mondo, e la Turchia, oggi impegnata su ben tre fronti (Siria del Nord, Kurdistan iracheno, Libia e Nagorno-Karabakh), detiene il secondo esercito della NATO. Quattro dei sei Imperi che abbiamo identificato possiedono l’arma nucleare, mentre l’Iran tenta da anni di dotarsene.

L’esercito non ha la sola funzione di far la guerra, ma è anche un fattore maggiore di coesione tra gruppi etnici e sociali, oltre che, come nel caso della Turchia, della Russia e dell’Iran, dove i movimenti secessionisti sono sempre stati presenti, uno strumento di controllo territoriale.

Ogni Impero procede alla costruzione di strutture militari sovranazionali, di cui la NATO e l’OTSC, rispettivamente per gli USA e la Russia, rappresentano i fenomeni più illustri, mentre nei casi di Iran e Turchia, queste strutture sono semi-formali (utilizzazione di mercenari, inquadramento e finanziamento di unità militari straniere e paramilitari). India e Cina hanno fatto la scelta di utilizzare truppe originarie del territorio.

La ricostruzione del mondo multipolare rivela il ritorno a un mondo multi-economico, in cui ciascun Impero e spazio civilizzazionale determina a proprio modo l’essenza della propria economia. Ciascun Impero, integrando il proprio spazio civilizzazionale, forma quella che Braudel chiamava “economia-mondo” (“économie-monde”), e che caratterizza una porzione dem mondo, non l’economia mondiale in sé (F. Braudel, 1985). Lo storico francese affermava che l’economia-mondo si definisce secondo una triplice funzione: è legata a uno spazio geografico ben determinato, si caratterizza invariabilmente per avere un polo centrale rappresentato da una città; e infine si suddivide in zone successive, dove l’una influenza le altre in maniera gerarchica (dal polo centrale, ricchissimo, alle zone intermediare alle zone periferiche, generalmente molto povere).

Oggi, i diversi Imperi che si stanno ritagliando la propria posizione in un mondo multipolare, cercano di sottrarsi agli obblighi di un’economia mondializzata basata sull’esclusivo modello neoliberale degli USA. Si assiste a una lotta tra modelli che tentano di rispondere all’eterna questione avanzata dallo sviluppo del capitalismo, soprattutto da quello finanziario; lo Stato deve oppure no dirigere, sottomettere l’economia? Non è un caso se il socialismo si è installato in certi paesi mentre in altri non ha avuto quasi nessun riscontro. Il fatto è che il modello socialista non può trionfare all’infuori di culture e spazi civilizzazionali che già praticano una certa forma di ridistribuzione delle risorse, e dove l’individuo esiste in funzione della collettività. In questo senso, Cina, Russia e Iran hanno la tendenza a creare delle economie dove lo Stato ha un ruolo fondamentale, soprattutto in Iran, dove gli aiuti per le famiglie e le borse di studio sono numerosi, e dove vige una concezione islamica dell’economia.

All’estremo opposto, gli USA praticano un’economia basata sul libero mercato che logicamente non può non incontrare delle tensioni in quelle aree geografiche dove Imperi e Stati-nazioni sufficientemente forti per poterlo fare, impongono dazi e dove le principali imprese sono di proprietà dello Stato. A metà strada, India e Turchia hanno sviluppato delle economie miste, e variabili nel tempo, dove lo Stato è un importante investitore, ma dove delle grosse imprese private sono emerse. La tendenza resta tuttavia di evitare che esse non diventino eccessivamente influenti, in quanto essi sono al corrente che un capitalismo fuori controllo tende a sradicarsi, a non avere nessuna patria e nessun destino al di fuori del guadagno.

In tutti e sei i casi, l’economia deve poter essere al servizio dell’Impero, in quanto essa permette una certa indipendenza, dunque garantisce la sovranità. Per garantire ciò, ciascun polo civilizzazionale cerca d’integrare lo spazio civilizzazionale anche tramite strutture economiche transnazionali: l’Unione economica eurasiatica (UEE) per la Russia, l’FMI per gli USA, la Belt and Roads Initiative (BRI) e la Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB) per la Cina, l’Agenzia turca di cooperazione e di sviluppo (TIKA) per la Turchia, l’Organizzazione di Cooperazione Economica per l’Iran e l’Associazione sud-asiatica per la cooperazione regionale (SAARC) per l’India.

Conclusioni: verso un nuovo Medioevo?

Il 25 luglio 2022 si è svolta a Praga la seconda conferenza del Forum russo delle Nazioni libere, mentre il 31 luglio 2022 una nuova indagine statunitense ha evidenziato flagranti violazioni dei diritti umani da parte delle autorità cinesi nello Xinjiang. Questi due eventi si sono verificati in un contesto caratterizzato da un aumento senza precedenti delle tensioni tra la Russia e la Cina da un lato e gli Stati Uniti e i loro alleati dall’altro, ovvero tra gli imperi e i loro alleati. Gli Stati Uniti stanno cercando di organizzare la periferia orientale della loro civiltà in funzione anticinese e antirussa, esacerbando i sentimenti nazionalisti dei popoli precedentemente sotto la dominazione russa e ora costituiti in Stati nazionali di modeste dimensioni e fragile sovranità. Washington ha studiato bene la storia di Roma ed è la degna erede del Regno Unito quando usa i sentimenti nazionalisti per minare gli imperi – in questo caso, russo e cinese.

Lo scontro di civiltà sostenuto da Samuel Huntington deve essere finalmente rivisto e, oggi, ridefinito come scontro tra imperi.

Ma quali potrebbero essere le conseguenze di questi scontri? Il rischio di “balcanizzazione” degli Imperi è una costante della storia e riguarda tutti gli Imperi di oggi, compresi gli Stati Uniti. Tutto dipenderà dall’equilibrio che ogni Impero sarà in grado di stabilire tra centro e periferia e dal modo in cui integrerà il proprio spazio civilizzazionale, perché se la crisi del modello dello Stato-nazione continuerà, la “balcanizzazione” avverrà innanzitutto in questi Paesi. Potrebbero emergere nuovi Stati, ancora più piccoli e fragili dei loro predecessori, e quindi ancora più inclini all’integrazione negli spazi civili degli Imperi – o, addirittura, negli Imperi stessi, come potrebbe essere il caso dell’Ossezia del Sud, dell’Abkhazia e del Donbass con la Russia, o di Cipro Nord e dell’Azerbaigian con la Turchia2.

Questo ci riporta indietro di almeno mille anni, quando in Europa e nel resto del mondo non esistevano ancora gli Stati nazionali nel senso moderno del termine, quando il mondo era diviso tra vasti Imperi, regni più o meno costituiti e un gran numero di città libere, feudi, principati e libere comunità. Il crollo delle narrazioni e delle logiche dello Stato-nazione potrebbe portare l’umanità, in termini politici e di civiltà, in un nuovo Medioevo?

Questa era la speranza del filosofo russo Nicholas Berdiaev quando scrisse uno dei suoi testi più noti, Il nuovo Medioevo. Riflessioni sui destini della Russia e dell’Europa. redatto nel 1924, due anni dopo la sua espulsione dall’URSS, il filosofo russo fa il punto su ciò che, secondo lui, la Modernità ha portato non solo alla Russia ma anche all’Europa, e analizza le conseguenze della sua crisi. Tornare al Medioevo è impossibile perché la Modernità, dice, ha invariabilmente cambiato il rapporto degli uomini con sé stessi e con il sacro, e quindi con il mondo. Quello che l’autore russo auspicava era quindi un “nuovo Medioevo”, cioè una nuova epoca caratterizzata da un rinnovamento spirituale.

L’uomo ha bisogno di dare risposte a ciò che accade nel mondo per mettere ordine in un universo altrimenti insopportabilmente caotico e quindi imprevedibile. Il modello dello Stato-nazione ha dominato le coscienze per quasi due secoli. È quindi inevitabile che il suo crollo sollevi interrogativi angosciosi ai quali solo un rinnovamento spirituale, conseguenza della consapevolezza collettiva che si è appena aperta una nuova configurazione del mondo, potrebbe tentare di dare risposta. Un “nuovo Medioevo”, dunque, l’inizio di un nuovo ciclo storico.

NOTE AL TESTO

1 Fonte : CIA World Factbook 2021

2 La presente analisi é stata redatta tra agosto e settembre 2022, ben prima dell’annessione russa delle quattro regioni riconosciute come facenti parte dell’Ucraina, il 30 settembre. L’autore ha deciso di non alterare il contenuto del testo per riadattarlo artificialmente al nuovo corso degli eventi. L’obiettivo dell’articolo era appunto dimostrare, con un certo anticipo, quel che sta avvenendo

Bibliografia

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