Le isole contese tra Cina e Giappone (parte 2)

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Articolo originale: http://www.ilcaffegeopolitico.org/39079/le-isole-contese-tra-cina-e-giappone-ii

Seconda parte della nostra analisi sulle isole Senkaku-Diaoyu. Una questione controversa, che fa da cartina di tornasole allo status delle relazioni bilaterali tra Cina e Giappone, ancora complesse.

Parte Prima

IL RAPPORTO CON GLI USA – Il confronto arrivato al primo livello USA-Cina innesca un periodo di sostanziale riduzione di atti dimostrativi che si limitano agli sconfinamenti di pescherecci cinesi, più o meno involontari o sollecitati da Pechino. Il 5 febbraio 2014 una nave militare cinese usa il radar di puntamento dell’armamento verso un cacciatorpediniere giapponese che comunque era in vista ravvicinata. Lo sviluppo dei sistemi di puntamento elettronico di missili e armi sofisticate in genere è diventato uno strumento sistematico di provocazione dimostrativa; basti pensare che già in Iraq, negli anni ’90, dopo la sconfitta del 1991, le batterie contraeree di Saddam Hussein “puntavano” i caccia statunitensi e inglesi come gesto dimostrativo pur sapendo che per questo sarebbero stati bombardati senza poter rispondere con le armi.
Comunque il 9 novembre 2014, al summit dell’APEC, il primo ministro giapponese Shinzo Abe e il presidente cinese Xi Jinping si stringevano la mano sotto i flash dei media mondiali. Questo però non ha contribuito a nuovi sviluppi sulla questione perché le rispettive rivendicazioni di sovranità non vengono modificate e il procedere della politica più assertiva di Abe nel senso dell’orgoglio nazionale e di un maggiore attivismo internazionale anche militare non favoriscono certo l’allentamento della tensione. Il Giappone rinnova e firma il trattato di reciproca difesa con gli USA (azione al primo livello) e fa approvare dal parlamento dei criteri di interpretazione del superpacifista articolo 9 della Costituzione per consentire al Giappone di inviare truppe all’estero secondo un concetto “difensivo” più attivo e proiettato all’estero (azione di secondo livello).

GLI ULTIMI SCONTRI – Gli “scontri” tra pescherecci cinesi e motovedette giapponesi vengono risolti a colpi di cannoni d’acqua che i giapponesi hanno da tempo imparato ad usare per “difendersi” dai gommoni di Greenpeace che cercano di impedire la caccia alle balene. Per le Diaoyu/Senkaku il confronto segue percorsi ed eventi non lineari e talvolta di difficile interpretazione per osservatori occidentali. In ogni caso la continuità dell’azione cinese di spostare sempre più verso i “mari lontani” l’area di “difesa” strategica sembra essere la chiave interpretativa del recente atto dimostrativo (26 dicembre 2015) per cui tre navi militari cinesi (per la prima volta) si avvicinano alle Diaoyu/Senkaku (a 29 km e per 70 minuti, da fonte giapponese). La distanza “dell’intrusione” può essere significativa: 29 km significa al di fuori delle acque territoriali (12 miglia marine), ma dentro le acque della cosiddetta Zona contigua (altre 12 miglia) nelle cui acque (12 + 12) la Cina può appellarsi al cosiddetto “passaggio inoffensivo”; definito come l’attraversamento di aree marine in modo continuo e spedito che non pregiudichi la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero. La pesca, lo scarico di rifiuti, le attività armate e lo spionaggio non sono considerate azioni inoffensive; sottomarini e sommergibili devono inoltre navigare in emersione mostrando la bandiera. Naturalmente il Giappone può definirlo “spionaggio” o “minaccia alla sicurezza” e quindi considerarlo illegale.

UNA SOLUZIONE CONDIVISA? – Il problema, reale e di fondo, è che a livello delle relazioni internazionali, ovunque, la gabbia mentale e concettuale della sovranità, della cosiddetta integrità territoriale, confina le menti e le politiche dei decision makers orientandole, a volte spingendole, verso dinamiche conflittuali e di dimostrazioni di forza invece di cercare soluzioni pratiche concrete e non conflittuali. Cosa sempre possibile, sempre che si sappia distinguere tra forma e sostanza; cosa che i cinesi sanno fare per lunga tradizione, ma anche se vengono aiutati da controparti flessibili e che sanno come trattarli. Negli anni ’80 Deng Xiaoping si espresse esplicitamente sullo sfruttamento congiunto delle risorse, lasciando da parte le discussioni sui principi (Dossi, p.80). Oltre a ciò Corea del Sud e Giappone, e le stesse Cina e Giappone hanno già in corso da anni lo sfruttamento congiunto delle risorse sottomarine di petrolio e gas in acque prospicienti le proprie coste. Resta difficile comprendere perché questa soluzione non venga presa in considerazione nel caso delle Diaoyu/Senkaku e delle altre citate. Va precisato che per quanto riguarda i fondali intorno a quest’ultime si hanno solo stime circa la presenza e le dimensioni dei giacimenti; chi scrive ritiene che non siano le risorse l’oggetto del confronto, ma il prestigio e l’equilibrio geopolitico USA-Cina.

Una possibile spiegazione “psicologica” è che la presenza di elementi fisici fissi (isole e qualsiasi cosa possa paragonarvisi) nelle acque marine risvegli ancestrali pulsioni di possesso favoriti da qualche millennio di guerre di conquista di “terre” e da una diplomazia contemporanea basata su trattati che però, come per quello di Montego Bay del 1982, commettono l’errore (per gli effetti collaterali non percepiti) di “inventare” le Zone Economiche Esclusive marine fino a 200 miglia marine (1852 m.) dalla costa (elemento geografico fisso): cioè 370 chilometri! E’ il risultato di una vecchia percezione e concezione geografica che trasferisce criteri tradizionali terrestri di delimitazione alle mobili e difficilmente delimitabili acque marine e oceaniche. Purtroppo anche la tecnologia GPS con la sua precisione nella localizzazione sostiene questa attitudine di pensare che i confini marini siano “fissi” e fissabili come quelli terrestri. E’ necessaria una inversione di approccio concettuale: solo il trasferimento della flessibilità geografica degli oceani alla terraferma può sostenere concettualmente e iconograficamente politiche di condivisione e di cooperazione nello sfruttamento delle risorse. Cosa per altro già da tempo praticata anche sulla terraferma, in Europa come esempio per tutti.

Fabrizio Eva

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