Il secondo “giro a la izquierda” in America Latina: il caso Colombiano

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Le elezioni di ottobre  2022 in Brasile, vinte da Inácio Lula da Silva, hanno segnato il massimo risalto mediatico di ritorno di un l’orientamento verso Governi di sinistra, una sorta di inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni, diffuso, peraltro in diversi paesi dell’America Latina. Questo cambiamento politico è emerso, infatti, dopo la fine di una serie di governi conservatori – notoriamente più a destra nella collocazione nello spettro politico – come quello di Jair Bolsonaro in Brasile, di Mauricio Macri in Argentina, di Iván Duque in Colombia e di quello boliviano durante la presidenza ad interim di Jeanine Áñez.

Le ragioni del cambio di orientamento ai vertici degli establishment politici in Sud America sono molteplici e ogni paese ha le sue particolarità specifiche che lo spiegano; però, il fattore comune a buona parte di queste esperienze – e che accomuna parte delle realtà di questi paesi usciti dall’esperienza dei governi di destra – è che le popolazioni vedono una classe popolare esausta per la crisi economica, segnata dall’aumento della povertà e dell’ineguaglianza sociale.

La classe popolare durante le elezioni si è orientata, dunque, verso i partiti di sinistra, promotori di una serie di misure sociali, di mettere al centro del discorso politico i bisogni del popolo e, così, rendendosi capaci di intercettare questo sentimento di frustrazione più o meno latente nell’elettorato di molti Paesi. Questa scelta è stata anche influenzata dalle devastanti conseguenze della pandemia e dalla gestione confusa della stessa da parte dei diversi esecutivi al potere nei rispettivi Paesi.

La pandemia ha messo in luce le carenze e l’inefficienza del sistema sanitario e il sistema di istruzione pubblica in diversi paesi. L’America Latina, infatti, rappresenta una delle regioni in cui la Pandemia ha causato più danni e per tempi più prolungati. Mentre in Europa, Canada, Stati Uniti e parte dell’Asia stavano iniziando le campagne di vaccinazione in America Latina si è rimasti spesso indietro obbligando i governi locali ad allungare i periodi di isolamento e lockdown. Di conseguenza, questo ha provocato danni economici maggiori in una regione dove le disuguaglianze di classe, la povertà e la disoccupazione mostravano livelli ancora precari e preoccupanti prima della crisi sanitaria.

La regione ha affrontato uno dei confinamenti più rigorosi, dalle chiusure scolastiche più prolungate a una delle maggiori contrazioni economiche del mondo. Inoltre molte comunità indigene – in particolare quelle dell’Amazzonia Brasiliana – sono state colpite in maniera particolarmente invasiva dal COVID-19.

Il Brasile è stato infatti uno dei paesi maggiormente colpito a livello sanitario: il sistema non ha retto ed è collassato non potendo garantire più cure e l’adeguata assistenza ai propri pazienti.

I governi si sono trovati spesso in difficoltà nel gestire le restrizioni anche dato l’alto numero di persone che lavorava nel sistema informale e dunque le conseguenze sono state inevitabili e terribilmente drammatiche in termini di morti per il virus. Le cicatrici economiche, sociali e di salute pubblica lasciate dalla Pandemia in America Latina sono inestimabili.

Statistic: Impact of the novel coronavirus (COVID-19) on gross domestic product (GDP) growth in selected countries in Latin America as of April 2021 | Statista
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Tuttavia, va osservato che in alcuni paesi questo cambio di rotta è avvenuto prima della pandemia.

Nel 2019, l’Argentina ha eletto Alberto Fernández, di orientamento principalmente peronista. A seguire nel novembre 2020 il Movimiento per il Socialismo, è tornato al potere in Bolivia con Luis Arce. Successivamente nel dicembre del 2021 il Cile ha scelto Gabriel Boric, il più giovane presidente del Cile, candidatosi con una lista civica indipendente ma appoggiato dal Fronte Ampio, una serie di organizzazioni, movimenti e partiti di sinistra.

Segue nel giugno 2021 in Perù l’elezione del sindacalista e professore Pedro Castillo, successivamente nel giugno 2022 l’elezione di Gustavo Petro in Colombia che vince contro Rodolfo Hernandez, ed infine a ottobre 2022 l’elezione di Inácio Lula da Silva in Brasile.

Ciononostante va sottolineato che questo cambio di potere non presenta le stesse caratteristiche della cosiddetta “marea rosa” o del “giro a la izquierda” degli anni 2000.

Gli attuali governi si mostrano, ad esempio, più cauti per quanto riguarda misure di nazionalizzazione dei settori principali di produzione e l’espulsione di imprese estere. Hugo Chávez nel 2007 aveva nazionalizzato il settore petrolifero, appartenete fino ad allora a compagnie straniere, creando la Petrocarabobo S.A., società di Stato venezuelana. In seguito nel 2008 Chavez annunciò anche la nazionalizzazione dell’industria dell’acciaio e dell’elettricità.

Tuttavia, il progetto di nazionalizzazione di Hugo Chávez non si fermò al settore industriale ma decise di nazionalizzare anche il settore delle telecomunicazioni e di aver un maggior controllo statale su canali televisivi e sulla stampa, ricevendo numerose critiche soprattutto dagli Stati Uniti poiché – secondo Washington – non si garantiva più la libertà di stampa ed espressione.

Simili, sono state le misure promosse e attuate da Evo Morales in Bolivia. Nel 2006, Morales annunciò la nazionalizzazione delle risorse petrolifere e del gas naturale. Questa azione richiedevano alle compagnie petrolifere straniere di cedere il controllo delle risorse energetiche al governo boliviano. L’obiettivo era garantire una maggiore partecipazione del governo nella gestione e nei profitti derivanti da queste risorse. Successivamente nazionalizzò il settore minerario, elettrico e delle telecomunicazioni.

A livello agricolo invece importante fu la riforma agricola volta a redistribuire le terre precedentemente concentrate in mano a grandi proprietari terrieri. Lo stesse politiche furono perseguite da Rafael Correa in Ecuador. In generale questi governi abbracciavano politiche di tipo socialista piuttosto che favorire le politiche capitaliste e neoliberali del decennio precedente.

A livello regionale invece favorirono alleanze economiche volte a incentivare la cooperazione regionale come i progetti ALBA e PetroCaribe, un accordo regionale per l’approvvigionamento di petrolio tra il Venezuela e gli Stati membri dei Caraibi siglato il 29 giugno 2005 a Puerto La Cruz, in Venezuela in base al quale il Paese guidato da Hugo Chávez avrebbe offerto agli Stati membri forniture di petrolio in base a un accordo finanziario di concessione.

Invece i programmi elettorali di questi nuovi governi di sinistra sono più moderati rispetto a quelli della prima ondata degli anni 2000: non vi è un rifiuto netto e totale del libero mercato o delle misure neoliberali, e non si oppongono completamente ad accordi economici e commerciali con gli Stati Uniti. Si può, anche, affermare che questo nuovo ciclo di governi di sinistra è caratterizzato da una maggiore moderazione ideologica rispetto al passato: i leader di questa nuova virata a sinistra – in questa fase almeno – non abbracciano una retorica anti-capitalista radicale ma, spesso, cercano di bilanciare le politiche sociali con il rispetto delle regole – scritte e non scritte – caratterizzanti l’economia di mercato.

Si può anche affermare senza timori di smentita che questi nuovi governi di sinistra non si trovano ad agire nelle stesse condizioni economiche dei governi progressisti di inizio anni 2000. In quel periodo, infatti, le elezioni avvennero in un contesto economico diverso, favorevole alle loro politiche. Grazie, infatti, al boom economico da ricercarsi nell’aumento del costo e nella crescita dell’esportazione delle materie prime verificatisi tra il 2000 e il 2004, i governi progressisti poterono usufruire di maggiori risorse da spendere per le loro politiche di welfare.

La situazione, ad oggi, è bene diversa visto che molti Paesi, reduci dalla pandemia e dalla crisi economica che ne è susseguita, hanno a disposizione risorse di gran lunga inferiori per finanziare politiche di sviluppo sociale.

In più, oggi, l’attenzione maggiore è rivolta alle tematiche ambientali e di genere, con un minor interesse per la promozione dell’identità regionale, anche se, a questo livello, viene promossa una maggior cooperazione tra Stati. Centrali rimangono le questioni relative alla giustizia sociale – in particolare si mette in evidenza una crescente preoccupazione per la salute pubblica nell’era post-Covid. 

Tuttavia, il tratto che più risalta agli occhi è che gli esponenti fautori della nuova ondata di idee “di sinistra” non temono di essere identificati come tali, come portatori di ideali tipici di questo orientamento politico cercando di indirizzare e incanalare la frustrazione del loro elettorato verso un cambio di paradigma e orientamento politici, puntando proprio sui valori che rappresentano per evidenziare una netta differenza rispetto alle precedenti esperienze politiche.

In politica estera, in linea del tutto generale, il nuovo “giro a la izquierda” vede l’elezione di Governi più pragmatici e concentrati sulla difesa dei propri interessi nazionali, non così fortemente e convintamente anti-americani come quelli della prima ondata, ma nemmeno completamente adagiati su posizioni pro-Washington. Incentivano, piuttosto, un cambiamento nell’ordine internazionale verso dinamiche caratterizzate dalla multipolarità, un ordine, quindi, che si basi su relazioni bilaterali e multilaterali, più equilibrate. A tal proposito durante la visita di Lula da Silva in Argentina si è rimarcata l’importanza e la condivisione di questa visione dell’ordine internazionale, queste alcune parole del meeting tra il presidente dell’Argentina Alberto Fernández e il presidente Brasiliano “A livello internazionale, siamo partner nella creazione di un ordine multipolare e di un multilateralismo più rappresentativo ed efficace. Difendiamo l’Atlantico del Sud come una zona di pace e cooperazione, senza dispute di natura geopolitica”.Inoltre ciò che è comune a parte di questi governi di sinistra è il desiderio di differenziare i partner internazionali ricercando accordi non solamente con i tradizionali partner ma anche con altri paesi potenzialmente importanti per il perseguimento di una cooperazione economica. Sempre Lula, grande promotore di un ordine multipolare dal 2008 quando il Brasile fu uno dei paesi fondatori dei BRICS, si è espresso in questo modo al summit dello scorso Agosto dei BRICS a Johannesburgin in Sud Africa “Con la mia visita in Sudafrica, da cui proseguirò in Angola e a São Tomé e Príncipe, intendo inaugurare una nuova agenda di cooperazione tra il Brasile e l’Africa” aggiungendo poi “Molte delle risposte che cerchiamo per costruire un mondo più equo si trovano in Africa”.

L’America Latina, infatti, si mostra disponibile al dialogo con gli Stati Uniti, ma tale dialogo dovrebbe cambiare registro rispetto al passato e dovrebbe essere un’interazione rispettosa tra pari, piuttosto che un’imposizione dall’alto verso il basso.

Per questi nuovi governi eletti è giunto, dunque, il momento non più procrastinabile di ridefinire le concezioni predominanti sulla regione favorendo una politica basata sul pragmatismo e sulla collaborazione costruttiva.

Muovendoci più nello specifico, la vera sorpresa di questa tornata di elezioni non è stata l’elezione di presidenti di sinistra in Cile, Brasile, Bolivia o Perù quanto ciò che è accaduto in Colombia, dove per la prima volta è stato eletto un presidente di chiaro orientamento di sinistra, Gustavo Petro.

Questa elezione è particolarmente significativa se considerata in relazione alla storia colombiana, in cui diversi candidati di sinistra furono brutalmente assassinati in passato da gruppi criminali o paramilitari, spesso con il sostegno dell’opposizione. Il primo episodio significativo di tale portata fu l’assassinio del candidato liberale Jorge Eliécer Gaitán (1948) che scatenò furiose rivolte popolari nelle strade di Bogotà, represse nel sangue: passata alla storia come Bogotazo (da “Bogotà” e dal suffisso -azo, che indica un aumento di violenza), la rivolta, durata 10 ore, distrusse gran parte del centro di Bogotà. La scossa di assestamento dell’assassinio di Gaitán continuò ad estendersi nelle campagne, intensificando un periodo di violenza iniziato diciotto anni prima, nel 1930, e innescato dalla caduta del partito conservatore dal governo e dall’ascesa dei liberali.

In seguito a questo periodo, alla guida del Paese si instaurarono Governi del “Frente Nacional“, esecutivi nati da un accordo tra i partiti liberali e conservatori colombiani per l’alternanza al potere. Tuttavia, questo accordo escludeva qualsiasi carica politica che non fosse affiliata a queste due correnti, in particolare, comunisti e movimenti politici di orientamento marxista-leninista i quali vennero completamente escluse dalla vita politica colombiana.

In questo contesto, e in un contesto internazionale segnato dalla Guerra Fredda, emersero i primi gruppi guerriglieri, tra cui le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia Ejercito del Pueblo (da qui, FARC-EP)  e l’Ejercito de Liberacion Nacional (da qui, ELN). I due gruppi guerriglieri nascono in maniera diversa, se infatti le FARC sono nate principalmente come gruppo guerrigliero contadino che ha dichiarato i suoi primi obbiettivi politici nel 1964 con il programma agrario incitando ad una riforma agraria a favore della popolazione e denunciando gli abusi di potere della borghesia, delle oligarchie e del governo corrotto, l’ELN nasce invece principalmente sotto l’influenza della Rivoluzione cubana e la disputa sino-sovietica, abbracciando l’ideologia maoista, si batte per la liberazione del popolo colombiano dalle oligarchie e dai governi oppressori sostenendo la nazionalizzazione delle risorse primarie.

Entrambi i gruppi, però, si battevano per il rovesciamento dello status quo in favore di una visione rivoluzionaria che voleva il Paese governato dal popolo e non più dalle oligarchie, basato su una maggior giustizia sociale.

Sono seguiti decenni di conflitti e confronti violenti tra le forze sovversive e i vari Governi che si sono succeduti alla guida della Colombia e che hanno sempre mantenuto un forte legame con gli Stati Uniti e portato avanti una linea politica volta al contenimento del comunismo.

Sono stati diversi i tentativi di dialogo e negoziazione con i gruppi sovversivi, ma questi, spesso, sono falliti a causa delle condizioni non favorevoli per la costruzione di uno stato democratico. Uno dei primi tentativi di apertura democratica a sinistra è stato l’esperienza dell’Unión Patriótica, un’organizzazione multipartitica e multiclassista che univa elementi tipici del pensiero più di sinistra.

Tuttavia, negli anni ’80, l’Unión Patriótica fu oggetto di sterminio selettivo da parte dei paramilitari e dei narcotrafficanti.

Durante il periodo della guerra fredda non solo la Colombia ma parte dell’America latina presentava una situazione conflittuale, un contesto segnato dalla presenza di gruppi guerriglieri sovversivi nati anche sull’onda rivoluzionaria scaturita dal successo della rivoluzione cubana del 1958: tra questi, non possiamo non citare la guerriglia sandista che condusse la rivoluzione in Nicaragua contro la dittatura della famiglia Somoza oppure il Sendero luminoso in Perù, un’organizzazione guerrigliera d’ispirazione maoista fondata fra il 1969 e il 1970 da Abimael Guzmán a seguito di una scissione dal Partido Comunista del Perú – Bandera Roja che si proponeva di sovvertire il sistema politico peruviano e di instaurare il socialismo attraverso la lotta armata.

Con la caduta del muro di Berlino, la susseguente fine della divisione bipolare del mondo e il processo di democraticizzazione iniziato con la fine delle dittature latinoamericane, molti dei gruppi guerriglieri abbandonarono le armi e scelsero la via elettorale per arrivare al potere. All’inizio del XXI secolo infatti, le condizioni strutturali erano ben diverse di quelle del secolo precedente e parte dei partiti e movimenti di sinistra scelsero di agire per vie istituzionali.

Il discorso, tuttavia, non si può estendere alla Colombia, Paese in cui la situazione rimase molto critica, tanto da essere l’unico Stato dove i due gruppi guerriglieri principali non si erano sciolti ma, anzi, raggiunsero un controllo territoriale talmente importante da minacciare, spesso, la stessa struttura statale colombiana.

Durante la presidenza di Andrés Pastrana Arango, vi fu la negoziazione del Caguán che portò ad una serie di dialoghi volti al raggiungimento di un accordo con le FARC-EP. Malgrado le buone intenzioni del Governo di porre fine alla situazione conflittuale, l’accordo non fu raggiunto e così il conflitto si accentuò maggiormente, in particolar modo con la successiva elezione del presidente Álvaro Uribe e il cambio dello scenario internazionale seguito agli eventi dell’11 settembre 2001; il presidente colombiano, infatti, decise di condurre una guerra militare contro tutte le realtà sovversive del Paese – che vennero definite gruppi terroristici – ritenuti pericolosi non solo per la Colombia ma anche per il resto del mondo. L’azione di Uribe trovò il pieno sostegno degli Stati Uniti e con il favore dell’allora amministrazione repubblicana di George W. Bush implementò una serie di misure volte a fermare quello che venne definito come nemico interno.

La strategia politica di Uribe intendeva così rappresentare le FARC-EP e ELN come attori non più con fini politici ma, semplicemente, come veri e propri attori criminali che minavano la sicurezza dei cittadini della Colombia, derubricando quello che era un conflitto sociale con radici storiche e di stampo politico, evoluto con il tempo in trame sempre più complesse articolate ad una mera lotta criminale anti-terroristica e anti-narcotica.

Con la successiva elezione di Juan Manuel Santos (Partito Sociale di Unità Nazionale), venne finalmente raggiunto un accordo con le FARC. L’accordo firmato a La Avana nel 2016, oltre a consegnare nelle mani del Presidente il Premio Nobel per la pace, rappresentò un traguardo politico e sociale dal momento che, finalmente, avrebbe messo fine al conflitto sociale armato che da tempo piegava la popolazione colombiana.

Le misure che adottò per gestire il conflitto furono fin da subito spinte dal voler promuovere una cultura dei diritti umani, una maggior giustizia sociale e un rafforzamento delle istituzioni incentivando i principi democratici. Sul fronte interno, Santos, fu dunque più attento alle richieste del popolo colombiano, attuando anche una serie di politiche sociali, promuovendo il dialogo piuttosto che la violenza.

A livello di relazioni estere, invece, l’esperienza presidenziale di Santos non iniziò nel migliore dei modi: infatti nel 2010 durante la fase di transizione, dove tuttavia formalmente il presidente attuale era ancora Álvaro Uribe, si verificò una crisi diplomatica importante con Ecuador e Venezuela.

Crisi che fu risolta grazie alla cooperazione regionale dell’UNASUR che al tempo era diretta da Néstor Kirchner.

A livello internazionale, la Colombia comunque molto fedele agli Stati Uniti, con i quali, riconfermò il programma del Plan Colombia (approvato durante la presidenza Pastrana e l’amministrazione Clinton) cercando, inoltre, di incentivare la spesa dedicata alle misure sociali piuttosto che a quelle militari e legate alla sicurezza.

Ciònonostante, alla fine del mandato di Santos, un ritorno gli esponenti più duri dell’uribismo, fortemente contrari al processo di pace, sostennero con forza il candidato Iván Duque Marquez alle elezioni presidenziali.

Duque, uscito vincitore alle elezioni del 2018, fece della lotta al “Castrochavismo” il suo punto di forza.

Il Castrochavismo infatti è una parola utilizzata proprio da quella classe politica avversa ai negoziati di pace condotti da Santos e incline piuttosto a quella strategia incline a considerare le FARC come gruppo terrorista e non come attore politico con il quale non è legittimo condurre delle trattative e per altro raggiungere un accordo.

Il termine Castrochavismo, tuttavia, non ha trovato ancora una definizione chiara e comune a tutti gli accademici. Alcuni lo intendono come un movimento politico e una ideologia che racchiude elementi del Chavismo e del Castrismo, secondo il professore del dipartimento di scienze politiche dell’Università di Los Andes in Colombia, il Castrochavismo esiste come ideologia ed è pienamente identificabile in un “un insieme strutturato di idee, credenze e valori di varie nature (filosofiche, morali, economiche, sociali e politiche) che forniscono significato e orientamento all’azione politica, oltre a identità e coesione agli attori politici“. Dall’altra parte secondo Jairo Estrada Alvarez, professore dell’Università Nacional e parte della commissione storica del conflitto armato, il termine è semplicemente un neologismo utilizzato come strumento al servizio della classe politica avversa e dagli Stati Uniti che vogliono polarizzare la società tra democrazia e antidemocrazia, dove l’antidemocrazia è rappresentata dal Castrochavismo.

In una società polarizzata come quella della Colombia durante la presidenza Duque numerosi sono stati gli atti di repressione, indebolimento delle istituzioni democratiche, forte repressione delle proteste civili e dei movimenti sociali, uso illegittimo della violenza statale e mancato rispetto degli accordi di pace con le FARC, così come la mancata realizzazione dell’agenda post-conflitto.

Frustrata lungamente dalla difficile situazione sociale ed economica, alle elezioni del 2022 la popolazione colombiana ha deciso di operare una scelta epocale premiando, per la prima volta, un candidato Presidente apertamente di sinistra: Gustavo Petro.

Gustavo Petro che in giovane età condivideva ideologicamente i principi della guerriglia urbana del Movimiento 19 de Abril (M19) si è candidato con una coalizione di sinistra di orientamento principalmente progressista, socialdemocratica e socialista, chiamata il PACTO-HISTORICO.

Il 7 agosto 2022 Gustavo Petro è diventato ufficialmente presidente della Colombia con la cerimonia della “Poseción”. Durante questo giorno storico, la consegna della spada di Simon Bolivar al presidente neoletto è stato uno dei passaggi più importanti della cerimonia. La spada infatti è simbolo di giustizia e potere al popolo, “[…] Que sea del pueblo: es la espada del pueblo y por eso la queríamos aquí en este momento y en este lugar“.

Il discorso di Petro si è concentrato sul suo programma di Paz total volto ad abbandonare la via repressiva del conflitto sociale e aprire dialoghi con tutti gruppi armati, in particolare con ELN (una guerriglia sovversiva ancora operante nel Paese), con i gruppi dissidenti delle FARC, con il neo-paramilitarismo, con i potenti gruppi dei narcotrafficanti e con le bande armate criminali, Las bandas emergentes y bandas criminales (BACRIM).

Altri punti fondamentali del programma elettorale di Petro guardano prettamente alla risoluzione dei problemi interni della Colombia e propongono un differente approccio alla lotta alle droghe, al sistema tributario che si vuole più equo, ad una serie di misure volte a sostenere e ad aumentare la spesa pubblica per l’istruzione e la sanità, misure volte a tutelare la popolazione indigena e i diritti umani, oltre una serie di politiche ambientali volte a tutelare i territori dell’Amazzonia e a ridurre l’estrazione di materie naturali dal sottosuolo colombiano.

Tuttavia a più di un anno dalla presidenza, le speranze si sono scontrate con la difficile realtà in cui versa il Paese, la popolarità del presidente è diminuita e la strategia applicata su diversi punti non è stata così efficace come si sperava. Ciononostante, il Governo ha ottenuto l’approvazione della Legge sulla Paz Total, che permette, così, all’esecutivo di avere la possibilità di avviare negoziati con gruppi dichiarati fuori legge.

Le misure applicate per il problema delle droghe e del commercio illegale sono ancor lontana da risolvere e ridurre il commercio illegale di narcotici, saldamente in mano ai grandi ed influenti e potenti cartelli della droga colombiani.

Importante è stato, però, il discorso del Presidente colombiano durante i lavori delle settantesima assemblea generale delle Nazioni Uniti, nel settembre 2022, nel quale si è dimostrato apertamente critico verso la lotta contro le droghe fino ad allora condotta dagli Stati Uniti in America Latina. Nel discorso Petro ha spiegato come la guerra contro le droghe oltre ad aver fallito ha causato anche gravi danni a livello climatico, date le diverse misure condotte in passato con glifosato per sradicare la pianta di coca ma che purtroppo spesso ha avvelenato il terreno e, di conseguenza, la popolazione.

Queste sono solo alcune delle frasi di denuncia del Presidente: “la guerra contro la droga è fallita. La lotta contro la crisi climatica è fallita. I consumi mortali sono aumentati, dalle droghe leggere si è passati a quelle più pesanti, si è verificato un genocidio nel mio continente e nel mio paese, milioni di persone sono state condannate al carcere per nascondere le proprie colpe sociali (riferendosi agli Stati Uniti), hanno attribuito la colpa alla foresta e alle sue piante. Hanno riempito di assurdità i discorsi e le politiche“.

Petro, poi, ha aggiunto: “Vi esorto da qui, dalla mia ferita America Latina, a porre fine alla irrazionale guerra contro le droghe. Ridurre il consumo di droghe non richiede guerre, ma piuttosto richiede che tutti contribuiamo a costruire una società migliore“.

Per quanto riguarda però la redistribuzione delle terre agricole, punto fondamentale dell’accordo di pace con le FARC nel 2016, Petro in un anno ha superato ciò che Duque aveva raggiunto nei quattro anni di Presidenza, investendo più di 1 miliardo di dollari per comprare le terre da redistribuire ai contadini, raggiungendo 25.802 ettari di terra.

Invece, la spesa pubblica dedicata all’istruzione è aumentata di 350 miliardi di dollari, riproponendo il la legge “matricula cero” volta a garantire l’accessibilità alle università pubbliche e assicurare il diritto universale all’istruzione annullando le tasse universitarie agli studenti che frequentano un corso universitario triennale presso un università pubblica. Tale misura sarà possibile grazie al fondo di circa 13 milioni di dollari stanziato per l’educazione pubblica.

A livello ambientale è stato lanciato il programma per la protezione dell’Amazzonia con uno stanziamento di 200 milioni di dollari annui, per 20 anni, per proteggere il Polmone Verde della Terra attraverso una serie di finanziamenti economici alle comunità contadine indigene al fine di trasformarli in una forza rigeneratrice della foresta stessa.

Per quanto riguarda, invece, la politica estera e le relazioni regionali Petro è promotore di un ruolo più attivo e influente della Colombia sia a livello regionale che mondiale.

Tuttavia, ha riconosciuto che l’America Latina a livello regionale è stata in grado di unirsi nelle decadi passate per la creazione di diverse istituzioni volte a migliorare la cooperazione, ma spesso non è stata capace di portare a termine progetti concreti e influenti.

Il suo appello all’unità non cerca, dunque, una nuova forma di coordinamento regionale, poiché la partecipazione attuale della Colombia in 11 meccanismi di cooperazione e integrazione regionale è sufficiente. Pertanto, è probabile che cerchi di sfruttare, ampliare e migliorare la cooperazione tra le istituzioni esistenti.

A livello globale è sostenitore di una cooperazione sud-sud che si suole identificare spesso in maniera più ampia con il sud globale, comprendendo Africa, Asia e Caraibi. A tal proposito Petro ha dichiarato che la Colombia “cercherà alleanze più strette con l’Africa, da cui proveniamo, cercheremo un’associazione con le comunità afroamericane in America, e lavoreremo per fare di San Andrés un centro sanitario, culturale ed educativo per il Caribe Antillano: da lì partiranno gli ambasciatori colombiani per i paesi delle Antille“.

In generale Petro si presenta con l’ambizione di diventare uno dei prossimi leader regionali in grado di portare la pace in America Latina attraverso il dialogo e, da questa base, interloquire con il mondo comprendendo pienamente, inoltre, che le questioni estere e la cooperazione regionale avranno un ruolo fondamentale nel successo della sua agenda politica.

A livello regionale Petro ha deciso di riaprire le relazioni diplomatiche con il Venezuela congelatesi con il la precedente esperienza governativa. Inoltre, ad oggi Bogotà conta una forte collaborazione con Cuba, e per L’Avana si impegna a fondo nella denuncia dell’embargo economico degli Stati Uniti verso l’isola.

Non solo: insieme agli altri leader regionale, in particolare con il brasiliano Lula, la Colombia si è fatta promotrice di una serie di programmi ambientali e di una strategia volta alla transizione economica che, secondo il pensiero del Presidente, dovrebbe essere una strategia coordinata tra tutti i Paesi al fine di essere concretamente efficace. A tal proposito la Colombia si è unita ai paesi parte dell’accordo di Escazu stipulato tra molti paesi dell’America Latina e dei caraibi al fine di tutelare l’ambiente.

A livello di relazioni estere internazionali Petro vuole differenziare maggiormente il mercato colombiano favorendo le relazioni bilaterali regionali, incrementando le relazioni con la Cina e mantenendo le attuali relazioni con Stati Uniti e Europa. Recentemente il presidente Petro è stato in visita in Cina dove sono stati valutati alcuni accordi di tipo economico. 

Invece, venerdì 27 ottobre Il presidente Gustavo Petro è atterrato a Washington per incontrare Joe Biden, nel mezzo del vertice dei leader della “Americas partnerships for Economic Prosperity”, meeting convocato dalla Casa Bianca ed al quale hanno partecipato diversi rappresentanti dei Governi dell’America Latina e che ha visto al centro dei lavori l’intenzione di porre le basi per uno sviluppo economico più equo ed inclusivo nella regione.

Per quanto riguarda la politica estera Petro è stato particolarmente critico nei confronti della politica diplomatica colombiana fino ad allora condotta dagli altri governi sottolineando il forte allineamento – se non appiattimento servile – colombiano con la politica estera statunitense. Spesso, infatti, negli anni il Governo colombiano di turno pur di ingraziarsi i favori della potenza egemone e di allinearsi con la volontà statunitense è diventato complice di violazioni del diritto internazionale e del diritto internazionale umanitario.

A tal proposito, nell’ultimo mese, dopo lo scoppio delle tensioni in medio oriente per la questione Israele Palestina, Gustavo Petro si è schierato a sostegno della causa palestinese, queste le sue parole: “Se avessi vissuto in Germania nel ’33, avrei lottato al fianco degli ebrei e se avessi vissuto in Palestina nel 1948, avrei lottato al fianco dei palestinesi“. Una posizione che non sorprende dato il passato sostegno del presidente al M19 che, a sua volta, si schierò a favore della causa palestinese.

Recentemente il presidente Petro si è espresso riguardo gli scenari di crisi che stanno mettendo a ferro e fuoco il fianco est dell’Europa e il Medio Oriente: ha anche dichiarato che la Colombia non acquisterà più armi da quei Paesi che non hanno sostenuto la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per un cessate fuoco nella striscia di Gaza. Il presidente Petro ha inoltre denunciato l’ipocrisia di molti paesi occidentali che hanno mostrato pieno sostegno all’Ucraina dopo l’invasione Russa ma nei recenti sviluppi della questione israelo-palestinese si sono subito schierati a favore di Israele e non a sostegno del popolo Palestinese, che secondo il presidente Colombiano nel contesto attuale risulterebbe come la prima vittima dell’escalation del conflitto.

Nell’ultimo mese, il presidente Petro si è espresso più volte per esprimere la sua piena condanna dei crimini contro l’umanità commessi dal governo israeliano. Il presidente, inoltre, ha sottolinea che si impegnerà al fine che la Palestina venga riconosciuta dalle Nazioni Unite come stato a pieno titolo e non solo come stato osservatore. Sul suo account sulla piattaforma social X, Petro scrive che “i paesi democratici e progressisti devono lottare per preservare il diritto internazionale umanitario al fine di impedire che la barbarie si diffonda nel mondo“.

Se le reazioni diplomatiche sono state diverse da paese a paese in America Latina, ciò che accomuna parte dei nuovi governi progressisti della regione riguardo l’attuale crisi in medio oriente è che la gran parte denuncia la violazione del diritto internazionale umanitario e richiede un “cessate il fuoco” comune. In particolar modo tra i  paesi dell’America Latina che si sono maggiormente esposti vi è proprio la Colombia, Petro ha infatti richiamato l’ambasciatrice israeliana in Colombia per un incontro. Sulla stessa linea troviamo il Cile di Boric che ha fortemente criticato l’abuso dei diritti umani nella striscia di Gaza e la Boliva che ha rotto le relazioni diplomatiche con Israele.

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