A colloquio con Sylvain Takoué: “Il gigante che sta arrivando per aiutare l’Africa a svegliarsi e a rimettersi in piedi è la Cina”

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A cura di Andrea Turi

SYLVAIN TAKOUÉ Buongiorno e grazie per la sua disponibilità. Prima di entrare nel vivo di questa intervista, potrebbe presentarsi ai lettori italiani del Centro Studi Eurasia e Mediterraneo?

Grazie per avermi dato la parola. Sono Sylvain Takoué, uno scrittore della Costa d’Avorio che vive ad Abidjan. Ho pubblicato diversi libri, tra cui romanzi, saggi, pamphlet politici, poesie e opere teatrali. I miei libri sono pubblicati in Costa d’Avorio, Canada e Francia. Sono anche presidente di una ONG chiamata CHINAFRICA INTERNATIONAL, creata nel giugno 2022 in Costa d’Avorio, che lavora per l’amicizia e la cooperazione tra Cina e Africa.

In qualità di persona con esperienza diretta, può dirci cosa significa la Cina per il continente africano e, viceversa, cosa significa il continente africano per la Cina?

La Cina Popolare e l’Africa hanno un partenariato globale che porta vantaggi a tutte le parti. Sono, quindi, partner che lavorano insieme per rafforzare efficacemente questo quadro di cooperazione, e questo non è uno sviluppo recente, perché dobbiamo ricordare la Conferenza di Bandung, tenutasi nell’aprile 1955, che è stata il primo quadro di contatto tra le due parti.

Poi c’è stata l’istituzione, nell’ottobre 2000, del Forum per la Cooperazione Africa-Cina (FOCAC), che per la Cina e l’Africa è il crogiolo, per eccellenza, del loro partenariato win-win, stabilito su un piano di parità. Sotto questo aspetto, Cina e Africa rappresentano mani che si tengono reciprocamente, in modo che le due parti possano camminare insieme sulla strada dello sviluppo globale congiunto e condiviso.

L’Africa sembra, però, essere il nuovo campo di battaglia delle potenze. Quali sono gli interessi di queste nazioni e come agiscono sul suolo africano?

Ma non è una novità. È un fenomeno che risale a molto tempo fa e, quindi, non è una sorpresa per nessuno, qui, in Africa.

D’altra parte, ciò che è sorprendente e divertente allo stesso tempo è vedere che le potenze a cui vi riferite sono esse stesse sorprese nel vedere un cambiamento della situazione che le oltrepassa.

Perché un’altra realtà strategica sta emergendo e apparendo davanti ai loro occhi. Mentre queste potenze avevano abituato il mondo a creare precarietà economica per perseguire i loro interessi Africa – comportandosi, così, come se il continente fosse loro proprietà nutritiva e potessero, di conseguenza, fare esattamente ciò che volevano – un gigante globale sta arrivando e propone all’Africa qualcosa di molto diverso: una comunità di intenti con il continente, uno sviluppo congiunto, uno sviluppo condiviso, un partenariato win-win, rispetto del diritto internazionale ed equità.

Tutto ciò è molto più comodo rispetto all’infinita morsa delle potenze sull’Africa e sulle sue ricchezze, soprattutto quelle del sottosuolo di cui il continente è ricco. Il gigante che sta arrivando per aiutare l’Africa a svegliarsi e a rimettersi in piedi è la Cina.

E un altro gigante che sta al fianco della Cina è la Russia.

Con la Russia, guardate con attenzione a ciò che sta accadendo nella regione dell’Africa occidentale del Burkina Faso, del Niger, del Mali e della Guinea Conakry: il respiro dell’Africa libera.

In generale, quali sono i risultati raggiunti dalla Cina che l’hanno maggiormente impressionata?

In Etiopia, ad esempio, la Cina ha costruito il più grande centro socio-sanitario dell’Africa: il CDC, il Centro africano per il controllo e la prevenzione delle malattie. Si tratta di un edificio gigantesco che copre un’area di 90.000 m2, con tecnologie all’avanguardia e di ultima generazione. Questo centro medico è stato inaugurato l’11 gennaio 2023 ad Addis Abeba. È uno dei frutti della FOCAC, che si concentra sulle Nuove Vie della Seta.

Ma in modo specifico, i Paesi africani beneficiano, ciascuno sul proprio territorio nazionale, dei frutti della FOCAC che si traducono, in particolare, in termini di realizzazioni di infrastrutture economiche, ossia strade asfaltate e ferroviarie, ponti, infrastrutture idrauliche e agricole, ecc.

Dall’inizio del XXI secolo, la Cina ha costruito in Africa più di 6.000 km di ferrovie, più di 6.000 km di strade, quasi 20 porti e più di 80 centrali elettriche. Queste realizzazioni hanno dato un forte impulso allo sviluppo economico e al benessere delle popolazioni africane.

In questo 2023 che sta volgendo a termine, il Centro Studi Eurasia e Mediterraneo ha deciso di realizzare un progetto di ricerca incentrato sulla Repubblica Popolare Cinese e sul suo inedito ruolo, per così dire, di mediatore nei conflitti internazionali. Nell’attuale contesto caotico delle relazioni internazionali, la mediazione delle discordie tra Arabia Saudita e Iran ha dato lustro all’azione diplomatica cinese. Le chiedo: esiste una mediazione con caratteristiche cinesi? Le caratteristiche con cui Pechino intende svolgere il ruolo di mediatore nei conflitti internazionali sono già emerse o è troppo presto per parlarne? Nella risoluzione dei conflitti internazionali e nella tessitura delle relazioni internazionali tra Paesi, quali sono le principali differenze rispetto allo stile degli Stati Uniti, la grande potenza egemone fino ad oggi? Al contrario, che tipo di potenza rappresenta la Cina di oggi sulla scena internazionale contemporanea?

Si tratta di una serie di buone domande che vale la pena porre. Innanzitutto, accolgo con favore e mi congratulo con la decisione del vostro centro di ricerca di interessarsi in modo specifico al ruolo davvero inedito della Repubblica Popolare Cinese come mediatore nei conflitti internazionali.

A questo proposito, è bene chiarire che la Cina sta assumendo un vero e proprio ruolo di mediatore per la pace e la sicurezza nei punti critici del mondo, e non come quelle altre nebulose potenze il cui metodo è quello di gettare costantemente benzina sul fuoco, invece di salvare dal pericolo.
A questo proposito, la mediazione diplomatica di pace recentemente messa in atto dalla Repubblica Popolare Cinese nel conflitto tra Arabia Saudita e Iran è di per sé un modello di successo che dovrebbe essere emulato ovunque.

Perché è stato un successo tale da renderlo esportabile? Semplicemente perché la Cina non si mostra in alcun modo come una potenza mondiale arrogante che si muove per imporre il suo gioco, senza andare al cuore della questione o al nocciolo del conflitto.

No, Pechino non agisce così. Al contrario, la Cina cerca sempre, innanzitutto, un punto di accordo su cui riconciliare gli antagonismi.

La Cina non usa mai il trucco di soffiare sul caldo e sul freddo, ma infonde fiducia e acquiescenza. Quindi, se esiste “una mediazione con caratteristiche cinesi“, come lei dice, è proprio questa e consiste, per la Cina, nel non invitarsi mai in un conflitto per gettare benzina sul fuoco.

E queste caratteristiche stanno già emergendo, in particolare con il successo della mediazione cinese nella crisi tra Iran e Arabia Saudita; così come nella crisi ucraina, dove la Cina ha reso nota la sua proposta di pace, di cui l’Occidente non vuole sentir parlare; così come nell’attuale tensione israelo-palestinese, dove la Cina ha chiaramente chiesto la creazione di due Stati liberi, basati sul diritto internazionale.

Quando si tratta di risolvere i conflitti internazionali e di plasmare le relazioni internazionali, la chiara differenza tra la Cina e le potenze occidentali è che la Cina non si comporta come una potenza imperialista sulla scena mondiale. La Cina non ha colonie, né ex colonie, né tantomeno vassalli nel mondo, mentre le potenze occidentali (Stati Uniti ed Europa) ne fanno il loro principio di egemonia.


Tenuto conto di questo e visti gli ultimi sviluppi e le recenti iniziative cinesi, possiamo dire che con Xi Jinping e il suo gruppo dirigente, l’era del “basso profilo” tanto cara a Deng è finalmente giunta al termine?

Un tempo la Cina era riservata, lavorava al proprio sviluppo interno. Non possiamo chiederle di scusarsi per questo, perché ogni popolo ha il suo modus vivendi e il suo modus operandi.

Ma la Cina ha avuto un enorme successo, oggi tutto il mondo lo può vedere. Avendo in mano il proprio modello di sviluppo globale di successo, la Cina intende generosamente condividerlo con il resto del mondo, soprattutto con i Paesi economicamente più deboli.

Da quando è salito al potere nel 2013, il presidente Xi Jinping ha lavorato per questa affermazione della Cina sulla scena internazionale. Le sue iniziative sono intrise di umanesimo: la “comunità di destino“, lo “sviluppo comune“, lo “sviluppo condiviso“, la “Belt and Road Initiative” (BRI), le “Nuove Vie della Seta“, la “nuova era multipolare“; parla di equità, rispetto del diritto internazionale, sviluppo globale e così via.

Tutto ciò dimostra chiaramente che la Cina non è più orientata verso l’interno, ma è portatrice di una nuova offerta esistenziale per il mondo.

Sylvain Takoué, scrittore e saggista, presidente di ChinAfrica International


Le chiedo, allora: che cosa l’Occidente non ha capito della Cina e che cosa, invece, ha imparato?

L’Occidente non ha capito che la Cina non è come lui.

L’Occidente non ha capito che la Cina non è impegnata in alcuna corsa egemonica sulla scena internazionale e che il suo discorso non è quello tipico delle potenze imperialiste, che intendono mantenere il mondo, a tutti i costi, in un sistema di sovrasfruttamento dei popoli e dei Paesi soggiogati.

Oggi, l’ascesa globale della Cina sta insegnando all’Occidente a essere un po’ più cortese e rispettoso del diritto internazionale, dell’integrità politica di altri Paesi e delle loro ricchezze minerarie.


Il nostro progetto di ricerca si concentra anche sulla Belt and Road Initiative (BRI); sono passati dieci anni da quando Xi Jinping ha presentato al mondo questo progetto infrastrutturale senza precedenti. A dieci anni di distanza, la BRI ha mantenuto le sue promesse, ha superato le aspettative o c’è qualcosa che manca?

La BRI (Belt and Road Initiative) è una visione pragmatica del mondo come dovrebbe essere, ossia legata allo sviluppo, alla sicurezza e alla pace.

Si tratta quindi di una dinamica e in quanto tale, questa iniziativa non è uno sprint, ma una corsa a lunga distanza. È un’offerta al resto del mondo e spetta ai Paesi del mondo coglierla, se sono interessati e la apprezzano, per renderla efficace, ciascuno secondo le possibilità del proprio Paese.

Il fatto che il Presidente cinese Xi Jinping abbia lanciato questo progetto infrastrutturale senza precedenti non significa che prenderà lui stesso la cazzuola per costruire le infrastrutture di cui gli altri Paesi hanno bisogno. No, non è così.

L’iniziativa è un invito a pensare in grande nella vita. Un tempo si pensava che il gigantismo delle infrastrutture fosse appannaggio degli Stati Uniti d’America. Oggi è il segno distintivo della Cina continentale.

È questo sogno di grandezza delle infrastrutture economiche e sociali che la Cina chiede al resto del mondo di costruire. Spetta a coloro che sono interessati posizionarsi come partner vincenti con la Cina, in questo progetto vendibile e realizzabile.


La BRI è un progetto che deve inserirsi nel paradigma geopolitico della proiezione internazionale della Cina o in un paradigma di stabilizzazione dell’ambiente economico interno del Paese?

A nostro avviso, la Belt and Road Initiative prelude alla nuova era del mondo multipolare. Che cosa significa? Significa che oggi tutti i Paesi possono commerciare, stringere alleanze o firmare contratti e accordi di sviluppo strategico con tutti i Paesi. Le restrizioni, in cui era assolutamente vietato ai Paesi aprirsi economicamente agli altri, con il pretesto di essere pre-segnalati, queste restrizioni devono scomparire per sempre. Questo si chiama multilateralismo.

È in questo quadro che la Cina propone al mondo la sua richiesta di partenariato per le infrastrutture economiche, tradotta in questo grande progetto BRI. Tanto peggio per quelle potenze che temono l’ombra della Cina.

Sì, la Cina è stata a lungo demonizzata per la sua ideologia di socialismo alla cinese.

I capitalisti e gli ultra-liberali ne sono spaventati a morte. Quindi chiediamo l’emergere della nuova era multipolare, che riguarda il multilateralismo, e lavorando nel quadro dei BRICS (ora BRICS +), la Cina si propone di stabilire un contatto effettivo con le altre regioni del mondo, giocando l’ottima carta dello “sviluppo globale condiviso”. In questo senso, l’iniziativa Belt and Road promuove il modello cinese di successo economico e di gigantismo infrastrutturale su scala internazionale. Quale Paese arretrato non sogna di diventare come la Cina?


Direi pochi..le chiedo, allora, di quali vantaggi godono in generale i Paesi che hanno aderito al progetto BRI? Pongo questa domanda perché, come magari già sa, l’Italia ha firmato un memorandum per aderire alla Belt and Road Initiative, che ora l’attuale governo Meloni sta mettendo in discussione su pressione di Washington che vuole l’Italia fuori dall’iniziativa di Pechino. Cosa perderebbe l’Italia?

La risposta a questa domanda si trova nella mia risposta precedente. Gli Stati Uniti d’America sono uno Stato federale con una dottrina economica ultra-liberale, l’epitome del capitalismo. Ma il socialismo alla cinese, la dottrina dell’equità sociale che sta dando alla Cina le sue credenziali ideologiche ed economiche, spaventa, e molto, l’America.

Capite bene che se un Paese come l’Italia ha come padrone gli Stati Uniti d’America, questi ultimi non permetteranno mai all’Italia di aderire alla Belt and Road Initiative promossa dalla Cina.

Ancora una volta, si vede il modus operandi degli Stati Uniti d’America, che è quello di esercitare pressioni su Paesi sovrani e di mettersi nella posizione di nemico della Cina. Tuttavia, i vantaggi per i Paesi che aderiscono al progetto BRI sono quelli di beneficiare del valore aggiunto della Cina.

Così come una guerra convenzionale si vince con gli alleati, lo sviluppo globale di un Paese bisognoso si ottiene con partner che hanno un’economia affidabile e vitale e che hanno già dato prove inconfutabili di ciò in patria. Questo è il caso della Cina.

Stracciando l’accordo con Pechino su pressione degli Stati Uniti d’America, l’Italia perde il vantaggio che aveva intravisto e che l’aveva spinta a sottoscriverlo, ovvero il vantaggio dell’attraente sistema di debito estero cinese, che batte tutti i record dell’ermetico ed egemonico sistema di Bretton Woods in termini di flessibilità. In secondo luogo, l’Italia sta perdendo il controllo della propria sovranità nazionale (politica ed economica).


Cosa pensa dell’ultima iniziativa del Corridoio India-Medio Oriente-Europa (IMEC) lanciata da Washington al recente vertice del G20 a Nuova Delhi, in India, per contrastare l’espansione della BRI?


È un fatto risibile, visto quanto gli Stati Uniti sono nervosi per le nuove iniziative economiche che la Cina sta lanciando sulla scena internazionale. Attraverso il corridoio da lei citato, gli Stati Uniti sperano di arginare l’espansione della BRI in Asia e in Occidente.

Lo stesso disperato tentativo è visibile in un certo “G7 asiatico” di ispirazione occidentale, che farebbe di tutto per contrastare l’espansione dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico), che ha legami commerciali con la Cina.


Lo studio che stiamo conducendo analizza anche le relazioni tra Cina e Africa. Lei vive e lavora in Costa d’Avorio. Come viene rappresentata la Cina in quel Paese e come viene percepita dall’opinione pubblica?

La Costa d’Avorio e la Cina hanno 40 anni di relazioni bilaterali. Non è una cosa da poco. Oggi queste relazioni godono di buona salute. Ciò significa che la cooperazione sino-ivoriana è di buona qualità e sta crescendo. La Cina è un partner di alto livello per la Costa d’Avorio in settori chiave come l’economia, il commercio, l’agricoltura, l’istruzione e la sanità.

Per quanto riguarda la percezione della Cina da parte dell’opinione pubblica ivoriana, in Costa d’Avorio c’è un vero e proprio entusiasmo nel confrontarsi con il mondo cinese, innanzitutto attraverso l’Istituto Confucio, che è la voce culturale della Cina nel Paese. Questa voce sta facendo sentire la voce del cinese mandarino negli ambienti educativi, dove l’entusiasmo degli studenti per l’apprendimento della lingua è un dato certo. Esistono inoltre circa cinque organizzazioni ivoriane che promuovono l’amicizia e la cooperazione con la Cina, tutte impegnate a rafforzare le relazioni della Costa d’Avorio con la Cina. In altri Paesi africani si trova al massimo una sola organizzazione che svolge questo lavoro. In Costa d’Avorio, invece, ce ne sono cinque, tra cui quella che dirigo io, Chinafrica International, e un’altra organizzazione, la più antica, che esiste da 20 anni: il Club des amis de la Chine en Côte d’Ivoire, guidato dal suo presidente Rodrigue Ouakiri.


La BRI si concentra sullo sviluppo delle infrastrutture per creare un ambiente favorevole alla crescita economica nei Paesi in cui opera. Da questo punto di vista, possiamo dire che il continente africano – ampiamente citato ma inizialmente non centrale nel progetto BRI – è servito da “laboratorio” – se posso usare questo termine – per tutte queste politiche diplomatiche ed economiche che sono state poi dispiegate in tutta l’iniziativa BRI?

Lei ha ragione a sottolineare che l’Africa è ampiamente citata, ma inizialmente non è al centro del progetto BRI. Perché ciò che va spiegato a sufficienza è che la Cina è un Paese metodico, che sa come mettere le cose al loro posto e che non fa nulla in modo disordinato o indisciplinato. Per ogni regione del mondo e sulla scena internazionale, la Cina propone iniziative di sviluppo concrete, che sono prima di tutto molto ben studiate.

Con l’Africa, la Cina ha proposto un partenariato win-win attraverso il FOCAC. Con il Sud-Est asiatico, la Cina ha proposto di entrare a far parte dell’ASEAN. Con il mondo in generale, la Cina ha proposto la BRI e si è proposta ai BRICS.

La BRI non è quindi specifica per l’Africa, di cui si è parlato a lungo, perché l’Africa ha ancora molto da sviluppare e quindi è principalmente interessata dalla BRI. Ma questo progetto è aperto a tutto il mondo, poiché apre al mondo le Nuove Vie della Seta cinesi.

Tuttavia, no, l’Africa non serve come “laboratorio” per il progetto BRI, ma come parte in causa, poiché vi ho appena detto che in Africa c’è ancora molto da sviluppare. L’Africa dovrebbe essere più preoccupata da guerre fratricide, alimentate dalla gestione del potere politico, che da atti concreti di progresso economico?

Questa è la domanda centrale in un momento in cui la Cina sta proponendo al mondo il suo progetto BRI. Aderendo alla BRI, l’Africa non si presenta come un banco di prova, ma come un partner che coglie un’opportunità di sviluppo.


Considerato lo stato di base dell’economia del continente, quali sono le conseguenze e i vantaggi della partecipazione dell’Africa all’iniziativa BRI per i paesi interessati?

La partecipazione come stakeholder all’iniziativa della BRI consente ai Paesi africani interessati di finanziare liberamente le loro economie nazionali, da un lato, e di essere attori sovrani nel multilateralismo, dall’altro.

La Cina condivide la sua chiara visione del mondo, che è quella della nuova era multipolare, dell’equità, del rispetto del diritto internazionale e dello sviluppo globale condiviso. Qualsiasi Paese africano che sia d’accordo con questa visione chiara vi aderisce liberamente, affermando così la propria sovranità.

Ma la Cina sta facendo un’importante precisazione, affermando che in questa visione multipolare del mondo, i Paesi sono su un piano di reale parità.

È sconvolgente constatare che l’Africa non ha mai sentito discorsi del genere da parte dell’Occidente, che parla solo il linguaggio brutale e bestiale della sua dominazione e sottomissione dell’Africa.


Spesso ci imbattiamo nel seguente ragionamento: CINA + AFRICA + INVESTIMENTI = TRAPPOLA DEL DEBITO. Mito, realtà, propaganda o cosa?

L’ho spiegato in un altro contesto: è disinformazione. Verso la fine del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo, la Cina è stata sottoposta al “Break of China“, lo smembramento della Cina da parte delle potenze straniere dell’epoca. 74 anni dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, il 1° ottobre 1949, questa è stata l’epoca del “Bashing China“, la denigrazione dell’economia cinese da parte dell’Occidente.

La questione del debito cinese in Africa è stata affrontata con una tendenza alla spacconeria e alla fantasia dagli stessi scagnozzi occidentali che sognavano una sola cosa: veder crollare l’economia cinese. Diffondendo a piacimento la voce della trappola del debito cinese, le voci che vi si prestano sono inebrianti. In primo luogo, il debito è un modo normale di finanziare lo sviluppo di un Paese.

In secondo luogo, un rapporto britannico (Debt Justice) mostra che i Paesi africani hanno un debito tre volte maggiore nei confronti delle istituzioni finanziarie private occidentali rispetto alla Cina, con interessi doppi.

Secondo le statistiche della Banca Mondiale, su un totale di 696 miliardi di dollari di debiti con l’estero dei 49 Paesi africani, i debiti delle istituzioni finanziarie multilaterali e dei creditori commerciali, esclusi quelli della Cina, rappresentano circa i tre quarti del debito totale, rendendoli i principali creditori del debito africano.

La Cina ha sempre perseguito gli investimenti e la cooperazione finanziaria con i Paesi africani sulla base dell’uguaglianza e del mutuo vantaggio. In secondo luogo, la Cina è sempre impegnata ad aiutare l’Africa ad alleviare la pressione del debito.

In questo contesto, ha firmato accordi di riduzione del debito, o ha raggiunto un consenso sulla riduzione del debito, con 19 Paesi africani e ha attuato la sospensione del maggior numero di debiti tra i membri del G20. Questi sono solo alcuni esempi.


La logica alla base di questi paradigmi geopolitici è chiaramente “a somma zero” e finalizzata al dominio di una nazione sull’altra. L’enfasi sulla pacificazione e sulla creazione di uno scenario di stabilità, unita alla logica “win-win” con cui ragionano dalla parte di Pechino, se si impongono sulla scena internazionale, potrebbero consentire di superare il concetto stesso di “geopolitica” come l’abbiamo conosciuta finora?

La geopolitica, così come è stata concepita finora nel mondo, ha un solo significato, quello del dominio del più forte. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, questo discorso è stato essenzialmente occidentale. A che punto siamo oggi? Siamo arrivati al punto in cui una potenza mondiale come gli Stati Uniti d’America si proclama innanzitutto “gendarme del mondo” e come tale cerca paesi in cui imporre la propria “democrazia”.

Il fatto è che non è la democrazia a essere imposta dove vogliono loro, ma l’apocalisse. Si noti che tutti i Paesi in cui il potere americano è stato politicamente presente sono stati Paesi in cui è stato acceso il fuoco. E poi c’è il caos per le popolazioni di questi Paesi vittime. Ci sono molti esempi che lo dimostrano.

Al contrario, il ragionamento della Cina di fronte a questo pericolo internazionale è semplice e chiaro: permettere al mondo di muoversi verso una cooperazione win-win, una garanzia di stabilità e di coesistenza pacifica. Cosa ci sarebbe di male nel rispettare le altre nazioni su un piano di parità e nel trattare con loro in modo equo, indipendentemente dalle loro dimensioni? Quindi, sì, il partenariato win-win nel mondo, come promosso dalla Cina, potrebbe a lungo termine permettere di superare il concetto di geopolitica, che si ispira all’egemonia e viceversa.


Cosa possiamo aspettarci nel prossimo futuro e quali sono gli scenari a cui dobbiamo prestare attenzione?

Quello che dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro è l’avvento della nuova era multipolare nel mondo, una garanzia di stabilità, sicurezza e coesistenza pacifica, con, soprattutto, la de-dollarizzazione dell’economia mondiale. È una boccata d’aria fresca. Questo processo è in corso.

Ciò da cui dobbiamo guardarci, tuttavia, è la “controffensiva” che l’Occidente è in grado di mettere in atto nel tentativo di salvaguardare la sua dottrina capitalista e ultraliberista. Questo provocherà scosse, apocalittiche, di cui la maggior parte del mondo non vuole più sentir parlare.

Per fortuna, oggi ci sono forze di equilibrio.

Signor Takoué, la ringrazio.

Sono io che devo ringraziarla.

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