Kashmir, il peso geostrategico di una regione contesa

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di Stefano Vernole

Venerdì 27 ottobre si è tenuto a Milano presso il Consolato Generale del Pakistan “Kashmir Black Day”, un seminario sull’armonia interreligiosa e sui diritti delle donne e dei bambini.
Hanno partecipato diaspora, mondo accademico, studenti ed esperti di diritti umani; I messaggi PM e FM sono stati letti dal Vice Console, Ahmad Waled.
Stefano Vernole del CeSEM – Centro Studi Eurasia Mediterraneo, il professor Cianitto di Milano e il professor Diego Abenante di Torino hanno evidenziato gli aspetti storici, costituzionali e relativi ai diritti umani della controversia. Al seminario è intervenuto anche Arshad Tanveer Kadhar, Consigliere del Comune di Brescia.
Il Console Generale Aqsa Nawaz ha concluso il seminario esprimendo sostegno politico e morale al popolo indiano dello Jammu e Kashmir illegalmente occupato (IIOJK) e ha esortato la comunità internazionale a farsi avanti e a svolgere il dovuto ruolo nella rapida risoluzione della disputa di lunga data secondo le Risoluzione del Consiglio delle Nazioni Unite sulla sicurezza.

Di seguito il contributo di Stefano Vernole.

Storicamente la regione del Kashmir ha vissuto una profonda contraddizione interna. Ad una maggioranza di popolazione di fede islamica, dedita al lavoro della terra e all’allevamento, ha fatto da contraltare una minoranza composta da pochi notabili indù. Al momento della partizione, il Padre della Patria Muhammad Ali Jinnah chiese l’ammissione totale al Pakistan del Kashmir sulla base della “teoria delle due nazioni” secondo la quale musulmani e indù dell’Asia meridionale rappresentano due nazioni ben distinte.

Nell’ottobre 1947 si scatenarono le prime rivolte contro l’autoritarismo del Maharaja indù Hari Singh; spaventato, costui chiese il diretto intervento indiano in cambio dell’annessione della regione da parte dell’India, seppur con la garanzia di una “autonomia speciale”. Tale garanzia venne inserita nella Costituzione dell’Unione Indiana all’articolo 370, proprio quello recentemente abrogato dal governo di Narendra Modi.

Il primo conflitto indo-pakistano, iniziato con l’invio dell’esercito di Islamabad a difesa della popolazione musulmana della Valle del Kashmir, terminò nel gennaio 1949 con la mediazione dell’ONU che cristallizzò le posizioni dei due eserciti. Questa mediazione prevedeva che la popolazione del Kashmir decidesse tramite referendum il proprio destino, ma esso non ebbe mai luogo[1]. Così l’India, sulla base dell’accordo stipulato con il Maharaja, rifiutò di ritirare il proprio esercito ed il Pakistan fece altrettanto.

Nel XX secolo India e Pakistan si sono affrontati diverse volte sul campo di battaglia, nel 1965 e soprattutto nel 1971 quando si arrivò alla creazione del Bangladesh ed alla denominazione del confine tra Kashmir indiano e pakistano come “Linea di Controllo”. Una nuova crisi si verificò nel 1999, con lo sconfinamento di militari pakistani nel distretto del Kargil.

La collaborazione pakistano-statunitense provocò anche lo sconfinamento dall’Afghanistan al Kashmir di diversi militanti jihadisti addestrati dai servizi segreti dei due Paesi in funzione anti-indiana. L’esasperazione della situazione è dovuta al fatto che l’India non ha mai rispettato pienamente l’autonomia del Kashmir nelle forme stabilite dall’art. 370 della sua Costituzione e nell’agosto 2019, poco dopo la sua rielezione, il primo ministro indiano Narendra Modi ha sostanzialmente revocato l’articolo 370, che garantiva uno status speciale alla parte del Kashmir amministrata dall’India, senza alcuna consultazione preventiva con l’assemblea parlamentare del Jammu e Kashmir, come previsto dall’articolo stesso.

L’India ha poi diviso lo Stato di Jammu e Kashmir in due nuovi territori governati direttamente dalla capitale federale, Nuova Delhi. Il governo indiano ha affermato che si tratta di una misura attesa da tempo che aiuterebbe a stabilizzare la situazione integrando completamente l’area con l’India[2].

Il Kashmir è l’unico Stato indiano ad aver disposto di un’Assemblea Costituente incaricata di redigere una Costituzione separata da quella di Nuova Delhi; all’India rimanevano comunque pieni poteri in materia di difesa, politica estera e comunicazioni, prerogative che le hanno consentito di amministrare direttamente la regione e di considerare impossibile qualsiasi negoziato che potesse sfociare nell’autodeterminazione o nella secessione del Kashmir.

L’art. 370 vietava ai cittadini indiani di altri Stati di comprare proprietà immobiliari in Kashmir e la sua recente abrogazione spiana la strada ad una colonizzazione indù della regione sul modello, ad esempio, di quella intrapresa da Israele in Cisgiordania[3].

L’hindutva (“induità”) è l’ideologia storica fatta propria dall’ala paramilitare del Bharatiya Janata Party  (BJP), partito indiano di cui Modi è stato in passato dirigente, sostenitore del progetto della “Grande India” attraverso un potenziamento militare del Paese in chiave anticinese e antipakistano[4].

L’importanza geostrategica del Kashmir

Un Kashmir permanentemente destabilizzato giova alla strategia degli Stati Uniti perché metterebbe a rischio il progetto infrastrutturale del Corridoio economico sino-pakistano (componente estremamente rilevante della Nuova Via della Seta a guida cinese) e minerebbe il sistema di relazioni eurasiatiche.

Muhammad Ali Jinnah, nel 1948, definì il neonato Paese dell’Asia meridionale come il futuro “Stato perno globale”. L’idea derivava dalla consapevolezza che la posizione geografica del Pakistan (suggerita dal poeta e pensatore Muhammad Iqbal durante un celebre discorso alla Lega Musulmana nel 1930) si trovasse all’incrocio tra le direttrici Nord-Sud ed Ovest-Est dell’Eurasia e che da tale posizione si potesse facilmente accedere sia allo spazio dell’Asia centrale (il “cuore del mondo” nella prospettiva del celebre geopolitologo britannico Sir Halford Mackinder) sia all’Oceano Indiano.

Cercando di manipolare l’informazione geopolitica sulla regione contesa, alcuni anni fa Nuova Delhi diffuse una presunta dichiarazione russa a sostegno dell’azione indiana nel Kashmir, ma il Ministro degli Esteri di Mosca Sergej Lavrov ribadì al contrario la necessità di ridurre le tensioni attraverso i rapporti bilaterali indo-pakistani così come stabilito negli accordi di Simla del 1972. Questi prevedono che la Carta delle Nazioni Unite governi i rapporti tra i due Paesi, i quali sono invitati a risolvere le proprie dispute attraverso negoziati bilaterali e nel rispetto dell’unità territoriale e della sovranità di entrambi[5].

Oggi, dopo vent’anni di disastrosa occupazione occidentale a Kabul (con tanto di aumento esponenziale della coltivazione di oppio e produzione in loco di eroina), si aprono nuove opportunità per la connessione infrastrutturale con l’Asia Centrale attraverso un Afghanistan finalmente stabilizzato. Dunque, si aprono importanti opportunità geoeconomiche per il Pakistan.

Il corridoio economico sino-pakistano garantirebbe una rapida crescita economica al Pakistan (stimata intorno al 2,5% annuo) e l’accesso diretto della Cina al lato africano dell’Oceano Indiano; inoltre, questa infrastruttura consentirebbe all’Iran di aggirare il blocco delle esportazioni di petrolio imposto dalle sanzioni unilaterali statunitensi. Gli accordi sino-pakistani, infatti, prevedono l’ammodernamento dell’autostrada Karachi-Lahore, la ricostruzione dell’autostrada del Karakorum, il potenziamento della linea ferroviaria Karachi-Peshawar e la costruzione di solidi rapporti militari tra i due Paesi.

Da Gwadar, i carichi di idrocarburi iraniani potrebbero raggiungere qualsiasi destinazione, dall’Estremo Oriente all’Africa. Nell’area di libero scambio di Gwadar è prevista la costruzione di una piattaforma per lo stoccaggio di gas naturale liquefatto che dovrebbe connettersi al gasdotto Iran-Pakistan (“gasdotto della pace”).

Il CPEC dovrebbe collegare Kashgar nello Xinjiang cinese con il porto pakistano di Gwadar e, attraverso le sue diramazioni, il Pakistan all’intera Asia centrale[6]. Da qui il rinnovato interesse pakistano per la creazione di un mercato unico per beni e servizi attraverso la piattaforma dell’Economic Cooperation Organization (ECO) votata alla cooperazione industriale ed agricola fino alla costituzione di un vero e proprio blocco commerciale centro-asiatico. Tra le infrastrutture, spicca il collegamento ferroviario Islamabad-Istanbul-Teheran (ITI) che dal 2021 ha iniziato a lavorare a pieno regime con la possibilità di espandersi verso l’Europa e divenire un ramo della Nuova Via della Seta cinese.

Nel 2017 il Pakistan, al pari dell’India, è entrato a far parte dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (OCS) e i rapporti con la Russia sono migliorati notevolmente, dalla visita di Lavrov nel Paese fino alle esercitazioni militari congiunte nel 2018.

Limare le posizioni di ciascuno dei due contendenti utilizzando gli strumenti garantiti dall’OCS potrebbe essere la soluzione migliore qualora tutti intendano realmente collaborare per superare l’unipolarismo statunitense. Quest’anno il ministro degli Esteri pakistano, Bilawal Bhutto Zardari, è arrivato a Goa, la prima visita in India di un alto funzionario pakistano in 12 anni, sostenendo che il viaggio era solo per il vertice regionale dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Ma secondo alcuni analisti, i motivi per cui Bhutto Zardari ha partecipato alla riunione dell’OCS in India è merito di Pechino. Il suo obiettivo è di riaffermare stretti legami con la Cina, importante alleato e contrappeso regionale all’India, costruendo relazioni con la Russia, che ha recentemente iniziato a vendere petrolio a buon mercato al Pakistan.


La repressione dei musulmani nel Kashmir


Il rapporto di 43 pagine dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), pubblicato l’8 luglio 2019, ha sollevato serie preoccupazioni sugli abusi da parte delle forze di sicurezza statali e dei gruppi armati nelle parti del Kashmir controllate dall’India e dal Pakistan. Il Governo indiano ha respinto il rapporto definendolo una “narrativa falsa e motivata” che ignorava “la questione centrale del terrorismo transfrontaliero”[7]. Il Pakistan ha accolto con favore il rapporto, ma ha chiesto che fossero rimosse o modificate le sezioni in cui le informazioni “non erano specifiche del Kashmir amministrato dal Pakistan, ma riguardavano preoccupazioni generali sui diritti umani che interessavano tutto il Pakistan”.

L’OHCHR ha affermato che sia l’India che il Pakistan non sono riusciti a compiere alcun passo chiaro per affrontare e attuare le raccomandazioni formulate nel suo rapporto del giugno 2018, il primo in assoluto dell’ufficio sui diritti umani in Kashmir.

La Coalizione della società civile di Jammu e Kashmir, con sede a Srinagar, ha riferito che le vittime legate al conflitto sono state le più alte nel 2018 dal 2008, con 586 persone uccise, tra cui 267 membri di gruppi armati, 159 membri delle forze di sicurezza e 160 civili. Il Governo indiano ha affermato che 238 militanti, 86 membri delle forze di sicurezza e 37 civili sono stati uccisi.

L’OHCHR ha riscontrato che le forze di sicurezza indiane hanno spesso ricorso ad un uso eccessivo della forza per rispondere alle violente proteste iniziate nel luglio 2016, incluso l’uso continuato di fucili a pallini come arma per controllare la folla, causando un gran numero di morti e feriti tra civili: “Il Governo indiano dovrebbe rivedere le proprie tecniche di controllo della folla e le regole di ingaggio e ordinare pubblicamente alle forze di sicurezza di rispettare i principi fondamentali delle Nazioni Unite sull’uso della forza e delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine”.

Il rapporto denuncia, inoltre, la mancanza di giustizia per abusi passati come l’uccisione e lo spostamento forzato di Pandit indù del Kashmir, sparizioni forzate o involontarie e presunte violenze sessuali da parte del personale delle forze di sicurezza indiane. Esprime preoccupazione per l’uso eccessivo della forza durante le operazioni di cordone e di perquisizione, che hanno provocato la morte di civili nonché nuove accuse di tortura e morte in custodia.

L’OHCHR ha osservato che lo Special Powers Act (AFSPA) delle forze armate indiane (Jammu e Kashmir) “rimane un ostacolo fondamentale alla responsabilità”, perché fornisce un’immunità effettiva per gravi violazioni dei diritti umani. Da quando la legge è entrata in vigore in Kashmir nel 1990, il Governo di Nuova Delhi non ha mai concesso il permesso di perseguire il personale delle forze di sicurezza nei tribunali civili.

L’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha anche affermato che l’India dovrebbe modificare la legge sulla sicurezza pubblica, una legge sulla detenzione amministrativa che consente la detenzione senza accusa né processo fino a due anni. La legge è stata spesso utilizzata per detenere manifestanti, dissidenti politici e altri attivisti per motivi vaghi e per lunghi periodi, ignorando le normali garanzie della giustizia penale.

Nel luglio 2018, il governo di Jammu e Kashmir ha modificato la sezione 10 della legge sulla sicurezza pubblica, eliminando il divieto di detenere residenti permanenti di Jammu e Kashmir al di fuori dello Stato. Almeno 40 persone, principalmente leader politici separatisti, sono state trasferite in carceri fuori dallo Stato nel 2018 secondo l’OHCHR. Il trasferimento dei detenuti al di fuori dello Stato rende più difficile per i familiari visitarli e per i consulenti legali incontrarli. Ha inoltre osservato che le carceri fuori dallo Stato sono considerate ostili ai detenuti musulmani del Kashmir, in particolare ai leader separatisti.

L’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha affermato che i gruppi armati sono responsabili di violazioni dei diritti umani, tra cui rapimenti, uccisioni di civili, violenza sessuale, reclutamento di bambini per combattimenti armati e attacchi contro persone affiliate o associate a organizzazioni politiche in Jammu e Kashmir. Ha citato al riguardo come fonte la Financial Action Task Force (FATF), un’organizzazione intergovernativa che monitora il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo[8].  

L’OHCHR ha poi riscontrato che le violazioni dei diritti umani nel Kashmir controllato dal Pakistan – pur di natura diversa rispetto a quelle perpetrate dall’India – includevano restrizioni al diritto alla libertà di espressione e associazione, discriminazione istituzionale contro gruppi minoritari e uso improprio delle leggi antiterrorismo per prendere di mira oppositori e attivisti politici. Ha rilevato minacce contro i giornalisti per aver svolto il loro lavoro. L’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha anche espresso preoccupazione per le sparizioni forzate di persone provenienti dal Kashmir controllato dal Pakistan, sottolineando che i gruppi delle vittime hanno affermato che le agenzie di intelligence pakistane erano responsabili delle sparizioni.

Per questa ragione l’OHCHR ha invitato i 47 Stati membri del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a “considerare … la possibile istituzione di una commissione d’inchiesta per condurre un’indagine internazionale indipendente e completa sulle accuse di violazioni dei diritti umani in Kashmir”, dato che il Governo indiano ha finora proibito l’accesso alla regione da parte di giornalisti e osservatori neutrali[9].


Finora non si registrano passi in avanti sostanziali


Nel giugno 2020, il Governo indiano ha annunciato una nuova politica sui media in Jammu e Kashmir che conferisce al Dipartimento dell’informazione e delle pubbliche relazioni (DIPR) del governo locale il potere di monitorare i media e i giornalisti per “disinformazione, notizie false, plagio e attività anti-nazionali”. Il DIPR determinerà inoltre chi sarà “incaricato” o accreditato, e controllerà gli stanziamenti per la pubblicità governativa. I giornali locali fanno affidamento sulle entrate derivanti dalla pubblicità governativa per restare in attività, e si teme che questo potere porti i giornali a censurare la loro produzione.

Il Governo indiano ha affermato che le misure erano necessarie per “sventare” i tentativi provenienti da oltre confine di interrompere la pace e la sicurezza in Kashmir. L’India ha spesso accusato il Pakistan di aiutare e favorire il terrorismo in Jammu e Kashmir, affermazione che il Pakistan nega.

Le restrizioni sui siti di social media introdotte da Delhi sono state rimosse nel marzo 2020 ma già nel giugno dello stesso anno un gruppo di esperti in diritti umani delle Nazioni Unite ha condannato l’India, chiedendo che venissero immediatamente liberati gli attivisti arrestati in relazione alle proteste deflagrate a dicembre contro l’emendamento alla legge sulla Cittadinanza approvato nell’agosto 2019[10].

La legge – sostenuta dalla destra induista – ha creato una sorta di corsia preferenziale per la naturalizzazione di rifugiati e immigrati irregolari appartenenti a sei minoranze religiose e provenienti da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan e arrivati in India prima del 2015, escludendo apertamente quella musulmana. L’emendamento ha scatenato un’ondata di proteste che, partite dalle università, si sono via via allargate a tutto il Paese. Rendere l’appartenenza religiosa un prerequisito per la cittadinanza si scontra con i principi secolari sanciti nella Costituzione indiana.

Le proteste si sono scontrate con la repressione governativa e nella loro dichiarazione gli esperti delle Nazioni Unite hanno fatto i nomi di undici arrestati, affermando che i loro casi includevano “gravi accuse di violazioni dei diritti umani, tortura e maltrattamenti in custodia”. Il gruppo di esperti Onu ha detto che il caso più preoccupante riguardava quello di Safoora Zargar, 27 anni, studentessa della Jamia Millia Islamia University e attivista, arrestata in relazione alle proteste di Delhi nonostante fosse in avanzato stato di gravidanza e tenuta in isolamento mentre imperversa la pandemia (che in India non ha ancora raggiunto il picco, secondo gli esperti). A Zargar, poi scarcerata su cauzione per motivi umanitari, era stato negato qualsiasi contatto con la famiglia, cure mediche e una dieta adeguata a una donna incinta[11].

Nel febbraio 2021, circa 18 mesi dopo la sospensione, i servizi Internet 4G sono stati reintrodotti in tutto Jammu e Kashmir.

Cinque relatori speciali delle Nazioni Unite in una lettera indirizzata al Governo indiano il 31 marzo 2021 e resa pubblica poco dopo, hanno però manifestato tutte le loro preoccupazioni relativamente alla situazione nella regione.

I relatori hanno esaminato le questioni relative alla tortura e ad altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti; detenzione arbitraria; sparizioni forzate o involontarie; esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie e la mancata protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali contrastando il “terrorismo”. Gli esperti hanno comunicato le loro preoccupazioni al Governo indiano evidenziando i casi di tre uomini del Kashmir: Waheed Para, Irfan Ahmad Dar e Naseer Ahmad Wani. Para, membro del Partito democratico popolare di Jammu e Kashmir, che ha amministrato Jammu e Kashmir in un’alleanza con l’Hindu Bharatiya Janata Party (BJP) fino al 2018, è detenuto dal 25 novembre 2020. I relatori delle Nazioni Unite hanno affermato che Para sarebbe stato sottoposto a maltrattamenti presso la sede della National Investigation Agency (NIA) a Nuova Delhi. Presumibilmente è stato preso di mira per aver parlato apertamente del Governo e sottoposto a interrogatori abusivi che sono durati dalle 10 alle 12 ore consecutive: “È stato tenuto in una cella sotterranea buia a temperature sotto lo zero, è stato privato del sonno, preso a calci, schiaffeggiato, picchiato con le verghe, denudato e appeso a testa in giù. I suoi maltrattamenti sono stati registrati. Para è stato visitato tre volte da un medico governativo dal suo arresto lo scorso novembre e tre volte da uno psichiatra. Ha richiesto farmaci per l’insonnia e l’ansia”, si legge nella lettera dei relatori.

Nella missiva è stato evidenziato anche il caso di Irfan Ahmad Dar, un negoziante di 23 anni arrestato il 15 settembre 2020 vicino alla sua residenza nella zona di Sopore, nel Kashmir settentrionale, dal Gruppo per le operazioni speciali della polizia di Jammu e Kashmir (SOG)). La mattina dopo, la famiglia di Dar ha ricevuto la notizia della sua morte. Avevano scoperto che le sue ossa facciali erano fratturate, i suoi denti anteriori rotti e la sua testa sembrava avere lividi dovuti a un trauma da corpo contundente. Alla sua famiglia è stato permesso di vedere il corpo per circa dieci minuti prima della sepoltura, si legge nella lettera.

In risposta alle proteste contro l’omicidio, l’Amministrazione distrettuale ha ordinato un’indagine, durante la quale due agenti di polizia sono stati sospesi per “negligenza del dovere” per avergli permesso di scappare, ma nessuno è stato ritenuto responsabile del suo omicidio, aggiunge la lettera.

Per evidenziare le sparizioni forzate, gli esperti hanno citato il caso di Naseer Ahmad Wani, residente nel distretto meridionale di Shopian. Il 29 novembre 2019, “i soldati indiani hanno fatto irruzione nella sua casa e hanno rinchiuso tutti i membri della sua famiglia in una stanza mentre lo picchiavano per più di mezz’ora in un’altra stanza. I soldati lo hanno portato via. Quando la sua famiglia ha visitato l’accampamento militare a Shadimarg, è stata allontanata”. La sera stessa, alcuni ufficiali dell’esercito hanno fatto visita ai Wani e hanno detto loro che lo avevano rilasciato, si legge nella lettera. Ad oggi non è stato rintracciato.

“Anche se non vogliamo pregiudicare l’accuratezza di queste accuse, esprimiamo la nostra grave preoccupazione che, se dovessero essere confermate, costituirebbero arresti e detenzioni arbitrarie, tortura e maltrattamenti, sparizioni forzate e, nel caso di Dar, uccisioni extragiudiziali e costituirebbero violazioni dell’articolo 6 [del Patto internazionale sui diritti civili e politici]”, si legge nella lettera, riferendosi al diritto a non essere arbitrariamente privati della vita.

Gli esperti hanno ricordato al Governo indiano che le preoccupazioni per il “deterioramento della situazione dei diritti umani in Jammu e Kashmir, comprese le presunte violazioni in corso delle minoranze indiane, in particolare dei musulmani del Kashmir”, sono state sollevate in cinque precedenti comunicazioni da diversi relatori speciali dall’agosto 2019.

Secondo l’ONU, finora il Governo indiano non ha risposto a nessuna di queste comunicazioni[12].

Recentemente, l’India ha invece attaccato il Pakistan all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite definendolo “Paese con uno dei peggiori record al mondo in materia di diritti umani”, ribadendo che “Jammu, Kashmir e Ladakh sono parte integrante dell’India”, in risposta al tentativo del Governo di Islamabad di sollevare la questione del Kashmir all’ONU. L’India ha anche elencato tre passi che il Pakistan deve intraprendere per garantire la pace nell’Asia meridionale: “In primo luogo, fermare il terrorismo transfrontaliero e chiudere immediatamente le sue infrastrutture terroristiche. In secondo luogo, liberare i territori indiani sotto la sua occupazione illegale e forzata. E in terzo luogo, fermare le gravi e persistenti violazioni dei diritti umani contro le minoranze in Pakistan”[13].

Insomma, per risolvere la difficile situazione tra India e Pakistan rimangono ancora molti ostacoli da superare.


NOTE AL TESTO

[1] Lo Stato di Jammu e Kashmir (nome formale del territorio) era uno dei 584 Stati principeschi del subcontinente indiano. Al momento dell’indipendenza nel 1947, l’allora viceré consigliò ai governanti di questi Stati di unirsi all’India o al Pakistan, tenendo conto dei desideri dei loro popoli e della posizione geografica. I musulmani del Kashmir avevano due forti ragioni per aderire al Pakistan: la loro preponderanza numerica (80% della popolazione) e la contiguità geografica. Tuttavia, i leader indiani costrinsero il sovrano non musulmano dello Stato ad aderire all’India. I musulmani del Kashmir si ribellarono, liberando un ampio tratto dello Stato e istituendo il governo Azad (libero) di Jammu e Kashmir. L’India si rivolse alle Nazioni Unite, che respinsero le pretese indiane sullo Stato e approvarono varie risoluzioni, sostenendo il diritto all’autodeterminazione dei kashmiri. La risoluzione del 5 gennaio 1949 recita:

“La questione dell’adesione dello Stato di Jammu e Kashmir all’India o al Pakistan sarà decisa attraverso il metodo democratico di un plebiscito libero e imparziale”.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha ribadito il diritto all’autodeterminazione degli abitanti del Kashmir in varie risoluzioni, comprese quelle del 1951 e del 1957, su questa base:

“Constatando che i governi dell’India e del Pakistan hanno accettato le disposizioni delle risoluzioni della Commissione delle Nazioni Unite per l’India e il Pakistan del 13 agosto 1948 e del 5 gennaio 1949, e hanno riaffermato il loro desiderio che il futuro dello Stato di Jammu e Kashmir sarà deciso attraverso il metodo democratico di un plebiscito libero e imparziale condotto sotto gli auspici delle Nazioni Unite.”

[2] Agnieszka Kuszewska, The India-Pakistan Conflict in Kashmir and Human Rights in the Context of Post-2019 Political Dynamics, “”Asian Affairs”, Volume 53, 18 marzo 2022. A sostegno delle garanzie contenute nell’articolo 370 e della sottosezione 35 A in difesa della composizione etnica dello stato, vennero previste pratiche di discriminazione positiva a favore della popolazione locale, tra le quali norme stringenti atte all’ottenimento dello status di residente e il divieto posto ai non-kashmiri di acquistare terreni e proprietà nello Stato. Lo status di residente venne riconosciuto agli individui stabilmente residenti nel Paese alla data del maggio 1944, rendendo poi tale status ereditario anche per i loro discendenti che pure non risiedevano effettivamente nel nuovo Stato di Jammu e Kashmir.

[3] Nel 2022 Narendra Modi era Primo Ministro dello Stato federato del Gujarat quando si verificarono violenti pogrom contro la popolazione musulmana della regione (morirono 800 persone in seguito alle varie violenze), con la complicità dei mezzi d’informazione che contribuirono alla diffusione di notizie false e incitarono alla contrapposizione tra le due comunità. I rapporti tra India e Israele sono al loro massimo storico. Tenuta scientemente lontana dai riflettori da Delhi per decenni, la relazione con Gerusalemme è ormai direttrice della proiezione indiana verso Medio Oriente e Mediterraneo; la collaborazione militare e tecnologica tra i due Paesi è del massimo livello. Steve Bannon, ideologo di Donald Trump, ha individuato nell’India nazionalista il pivot geopolitico per combattere i nemici dell’Occidente a guida USA: l’Islam ed il confucianesimo, nonché per ostacolare il progetto d’integrazione eurasiatica.

[4] I tre pilastri portanti di tale ideologia sono: nazione comune; razza comune; cultura comune, con l’esclusione dell’Islam. I musulmani in India sono circa 200 milioni di persone, ovvero il 14% della popolazione totale del Paese, in Kashmir vivono più di 13 milioni di persone. In un articolo del maggio 2016 comparso sul sito informatico di “Eurasia” Domenico Caldaralo sottolineò come il governo nazionalista di Nuova Delhi stesse rapidamente abbandonando la tradizionale posizione di “non allineamento”, mantenuta nei decenni precedenti (con alterne fortune) dal Partito del Congresso, per rivestire il più che ambiguo ruolo di “fiancheggiatore degli interessi statunitensi nell’Oceano Indiano”. Dopo aver giocato un ruolo di primo piano nella costruzione di un possibile ordine globale multipolare, l’India, soprattutto dopo l’elezione di Donald J. Trump a 45° Presidente degli Stati Uniti, ha ulteriormente ridefinito la propria posizione geopolitica, anche sulla base di presunte affinità ideologiche con il “nuovo” paradigma politico rappresentato dall’amministrazione nordamericana e dal suo naturale alleato sionista. Nel generale panorama di ridefinizione del sistema di alleanze a cui si sta attualmente assistendo, Nuova Delhi sembrerebbe aver già compiuto una precisa scelta di campo. La recente decisione sulla revoca dello status speciale al Jammu e Kashmir non può che essere interpretata alla luce di questo fatto. (“Eurasia” 4/2019).

[5] Dopo l’accordo di Simla del 1972 la Cease–Fire Line (CFL) viene indicata come Line of Control (LOC). Va ricordato che la CFL/LOC non costituisce la frontiera ufficiale tra i due Stati e come tale non viene riconosciuta; il suo tracciato infatti segue esattamente le posizioni tenute dai due Eserciti al momento del cessate il fuoco ed ha quindi un significato puramente militare. Tra le alternative vi sarebbe poi anche quella di arrivare al riconoscimento della Linea di Controllo attraverso un aggiustamento territoriale concordato tra l’India ed il Pakistan che permetterebbe a quest’ultimo di entrare in possesso della valle del Kashmir, dove si concentra la stragrande maggioranza della popolazione musulmana, lasciando agli Indiani il controllo del Jammu (a maggioranza induista) e della zona del Ladakh (a maggioranza buddista); questa proposta viene considerata da alcuni analisti difficilmente praticabile sia per il fatto che le diverse aree della regione sono economicamente integrate sia perché quasi sicuramente non verrebbe accettata dagli abitanti del Kashmir, che aspirano a ricostituire l’unità dello Stato entro i confini esistenti nel 1947. L’unica soluzione immediata appare quindi quella di un’autonomia politica del Kashmir all’interno dell’India ripristinando l’articolo 370 della Costituzione indiana che garantisce al Governo regionale diverse prerogative in campo legislativo. Un Kashmir totalmente destabilizzato renderebbe complicato realizzare il CPEC e un Kashmir totalmente indiano priverebbe il Pakistan di una frontiera condivisa con la Cina.

[6] Il CPEC oltre a garantire un aumento dell’occupazione, consentirebbe al Pakistan di risolvere la cronica carenza di energia del Paese.

[7] Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights, Update of the Situation of Human Rights in Indian-Administered Kashmir and Pakistan-Administered Kashmir from May 2018 to April 2019, 8 luglio 2019.

[8] La FATF durante una conferenza a Parigi bell’ottobre 2022 ha rimosso il nome del Pakistan dalla Lista grigia nonostante l’obiezione dell’India. Cfr. comunicato del Ministero degli esteri di Islamabad, 21 ottobre 2022, mofa.gov.pk.

[9] No steps taken by India or Pakistan to improve human rights situation in Kashmir – UN, luglio 2019, www.ohchr.org.

[10] Il Citizenship Amendment Bill (Cab), emenda una legge di 64 anni fa secondo cui un immigrato irregolare non può diventare cittadino indiano. In particolare, il provvedimento stabilisce delle eccezioni per Indù, Sikh e Cristiani provenienti dai Paesi limitrofi a maggioranza musulmana (Bangladesh, Pakistan e Afghanistan) ma non per gli immigrati musulmani.

[11] Secondo i dati forniti dall‘All Parties Hurriyat Conference (noto con l’acronimo APHC, è un movimento politico formato 10 marzo 1993 quale alleanza di 26 organizzazioni politiche, sociali e religiose in Kashmir), ecco un riassunto di quanto successo dal 1989 al 2006:

HUMAN RIGHTS VIOLATIONS COMMITTED BY INDIAN TROOPS IN IOK (FROM JANUARY, 1989 TO FEBRUARY, 2006)

Total Killings                                  90,776

Custodial Killings                             6,817

Civilians Arrested                        111,269

Houses/Shops Destroyed           105,143

Women Widowed                         22,371

Children Orphaned                     106,616

Women Molested                           9,637

[12] Hilal Mir, UN experts concerned over rights abuses in Kashmir, 6 giugno 2021, aa.com.tr.

[13] Chandrajit Mitra, “World’s Worst Human Rights Records”: India’s Sharp Dig At Pakistan, 23 settembre 2023, ndtv.com.

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