E’ ironico che gli Stati Uniti accusino la Cina di manipolare le informazioni a livello globale

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di Timur Fomenko

Washington, il più grande manipolatore di media sulla Terra, mette in guardia il mondo dalle “bugie” di Pechino.

FONTE ARTICOLO: https://www.rt.com/news/584982-china-us-media-misinformation/

Recentemente il Dipartimento di Stato statunitense ha pubblicato un rapporto intitolato “Come la Repubblica popolare cinese cerca di rimodellare l’ambiente informativo globale”. 

In esso, Washington accusa la Cina di impiegare “una varietà di metodi ingannevoli e coercitivi nel tentativo di influenzare l’ambiente informativo internazionale”. Vi si afferma che “la manipolazione delle informazioni da parte di Pechino abbraccia l’uso della propaganda, della disinformazione e della censura” e che la Cina “spende miliardi di dollari ogni anno in sforzi di manipolazione delle informazioni straniere”.

All’inizio, il rapporto riconosce il diritto di ogni Paese di “raccontare la propria storia al mondo“, ma afferma che “la narrazione di una nazione dovrebbe essere basata sui fatti e crescere e cadere in base ai propri meriti“. A quanto pare, gli autori del documento non vedono alcuna ironia nel fatto che queste massime provengano dagli Stati Uniti, il più grande propagatore statale di disinformazione, manipolazione narrativa e inganno al mondo. Questo è il Paese le cui stesse bugie sono servite da pretesto per guerre devastanti – si veda l’incidente del Golfo del Tonchino che precedette la guerra del Vietnam, o le affermazioni sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che portarono all’invasione dell’Iraq.

A parte le intenzioni, la capacità stessa della Cina di influenzare l’ambiente informativo globale è debole rispetto a quella americana.

A Pechino mancano diversi vantaggi di cui gode Washington, tra cui quello di parlare la lingua dominante del mondo e che permea tutta la cultura, la letteratura, la musica, i media e i film. Gli Stati Uniti sono un egemone dell’informazione ed è per questo che la Cina non è stata in grado di arrestare quei cambiamenti nell’opinione pubblica dei Paesi occidentali che derivano dall’amministrazione presidenziale statunitense.

Gli Stati Uniti plasmano il discorso e le narrazioni globali a loro piacimento grazie alla loro potente capacità di coordinare l’apparato governativo con gli incentivi dell’agenda aziendale, creando così un ciclo di notizie organico che rispecchia l’agenda nazionale. Ad un livello più alto, tutte le principali organizzazioni giornalistiche statunitensi, come il Washington Post, il Wall Street Journal, il New York Times, la CNN, ecc. seguono e sostengono la politica estera dello Stato.

Come spiegato nel saggio di Noam ChomskyManufacturing Consent“, se gli Stati Uniti hanno a cuore una determinata questione di diritti umani in un Paese preso di mira, impiegheranno risorse per porre tale questione al centro dell’attenzione. Ciò significa che i think tank sponsorizzati dal governo seguiranno la questione e diffonderanno i relativi punti di vista, mentre gli “esperti” con determinati punti di vista riceveranno una piattaforma e una copertura mediatica.

In questo modo gli Stati Uniti creano un sistema di incentivazione che si auto-rinforza, in base al quale sia gli esperti che i professionisti dei media subordinano le proprie carriere e i propri interessi commerciali all’adesione alla narrazione stabilita, e, naturalmente, se i principali organi di informazione seguono una questione, quelli minori la seguiranno secondo la logica della mentalità di branco.

Perché dedicare il proprio tempo a denunciare le violazioni dei diritti umani, ad esempio, in Arabia Saudita, quando è molto più facile e redditizio rivolgere lo sguardo alla Cina? Se vi iscrivete all’agenda anti-Pechino, avrete a disposizione una rete di dissidenti sostenuti da Washington, think tank, documenti trapelati e altri elementi che faciliteranno la vostra attività di denuncia.

In questo modo si sarà portati a seguire la “moda del momento” e Washington è in grado di controllare l’agenda dei servizi – i quali vengono poi deliberatamente drammatizzati e sensazionalizzati – creando un altro ciclo auto-rinforzante che polarizza e preclude un dibattito obiettivo sulla questione.

Gli Stati Uniti sono anche in grado di staccare la spina su una questione quando lo ritengono opportuno.

Per la Cina, invece, fare lo stesso è molto meno praticabile.

Pechino non ha il vantaggio iniziale di avere dalla sua parte la lingua più diffusa sulla Terra. Online, il 58,8% di tutti i contenuti è in inglese e solo l’1,7% in cinese, il che significa che la maggioranza assoluta delle opinioni sulla Cina è prodotta e consumata da anglofoni.

Per la Cina si tratta di una seconda lingua, che limita fortemente la base culturale del soft power di Pechino. Inoltre, mentre gli Stati Uniti, come descritto in precedenza, hanno creato e perfezionato un sistema di incentivazione per cooptare e controllare i media internazionali per procura, la Cina non dispone, invece, di un sistema simile, almeno non su scala paragonabile.

Pechino, piuttosto, dispone di un sistema di media statali gerarchico e diretto che segue gli ordini, il che a sua volta riduce la credibilità e la portata del suo messaggio. I giornalisti cinesi non hanno quindi la tradizione “giornalistica” dei media aziendali americani e non sanno come utilizzare i media come un’impresa competitiva secondo la norma del capitalismo. Ciò significa che la Cina non può essere la macchina della disinformazione che il Dipartimento di Stato americano dipinge come tale.

Nel frattempo, gli Stati Uniti eccellono nell’inganno più di ogni altro Paese al mondo. A volte non è nemmeno nascosto, come nel caso delle proposte di investire centinaia di milioni di dollari in programmi per promuovere una copertura negativa dell’iniziativa Belt and Road.

Perché, dopo tutto, pensate che l’opinione pubblica sulla Cina sia peggiorata drasticamente nei Paesi occidentali? Naturalmente il vostro think-tanker medio sosterrà che è colpa di Xi Jinping, ma il fatto che ci sia un think-tanker che lo dica potrebbe essere indicativo di chi sia la vera forza maligna dell’opinione pubblica globale.

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