L’ennesima, irresponsabile, provocazione su Taiwan

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di Fabio Massimo Parenti

L’ambiguità strategica statunitense verso la provincia cinese di Taiwan conferma la natura aggressiva ed irresponsabile di Washington. Il viaggio negli Stati Uniti, tutt’ora in corso, della governatrice taiwanese Tsai Ing-wen ha inevitabilmente scatenato la reazione di Pechino, che ha deciso di lanciare una speciale operazione congiunta di pattugliamento e ispezione nella parte centrale e settentrionale dello Stretto di Taiwan della durata di sette giorni.

L’annuncio dell’incontro a Los Angeles con il portavoce della Camera dei Rappresentanti USA, il repubblicano Kevin McCarthy, è bastato per sollevare un nuovo vespaio di polemiche ad otto mesi di distanza dalla visita a Taipei della democratica Nancy Pelosi, che all’epoca ricopriva lo stesso ruolo.

Si tratta della seconda provocazione lanciata dalle forze indipendentiste dell’isola che, dopo aver subito una sonora sconfitta alle elezioni locali del 26 novembre scorso, ora cercano disperatamente di legittimarsi agli occhi della comunità internazionale. Gran parte del pianeta, tuttavia, va ormai in una direzione completamente diversa. Non è un caso se meno di due settimane fa l’Honduras, dopo decenni di esitazioni e pressioni esterne, ha finalmente deciso di recepire la Risoluzione ONU 2758 del 1971 e riconoscere la Repubblica Popolare Cinese come unico rappresentante della Cina a livello internazionale.

Sono ora 182 i Paesi nel mondo ad aver aderito alla cosiddetta politica di Una sola Cina, una linea di principio fatta propria, almeno a parole, anche dagli Stati Uniti già dal primo gennaio 1979 sulla base del secondo comunicato congiunto Cina-USA discusso nei mesi precedenti tra Deng Xiaoping e Jimmy Carter, che andò così ad affiancarsi al precedente, concluso nel 1972 tra Mao Zedong e Richard Nixon. Tre anni più tardi, durante l’Amministrazione Reagan, le parti siglarono un terzo comunicato congiunto che, tra i vari punti, affrontava in modo specifico la questione della vendita di armamenti al governo dell’isola.

Le promesse statunitensi di ridurre, sia in termini quantitativi che qualitativi, le forniture militari a Taiwan sino a raggiungere una “soluzione definitiva” non sono mai state mantenute. Nel corso degli ultimi quarant’anni, infatti, il Congresso e i presidenti statunitensi hanno autorizzato la vendita di tipologie sempre più sofisticate di armamenti, in volumi anche molto elevati. Nell’attuale situazione internazionale, a dir poco incandescente per le vicende europee, mediorientali e latino-americane, gli Usa lavorano ancora una volta a favore della destabilizzazione, cercando di ingenerare sempre nuovi focolai di scontro. Un atteggiamento che non può trovare alcuna giustificazione. Malgrado l’assistenza militare di un paese straniero ad un’entità territoriale separatista non riconosciuta rappresenti una palese violazione del diritto internazionale, la Casa Bianca continua a gettare benzina sul fuoco con il malcelato scopo di preparare la prossima grande crisi internazionale. Con il Taiwan Policy Act, il progetto di legge approvato l’anno scorso dalla Commissione Affari Esteri, in attesa del passaggio in Senato, è chiara l’intenzione dell’establishment statunitense di approntare un corposo piano di supporto politico-militare a Taiwan da qui al 2027.

Nel frattempo, tuttavia, Tsai Ing-wen, alla guida della Coalizione Pan-Verde (centrosinistra), attualmente al comando dell’isola, dovrà affrontare le forche caudine della prossima tornata elettorale governativa, prevista per il 13 gennaio 2024. Come anticipato, le ultime elezioni locali hanno decretato una prima sostanziale sconfitta per Tsai, tanto da spingerla a dimettersi dalla leadership del Partito Democratico Progressista (PDP), principale forza politica indipendentista dell’isola. Il voto dello scorso novembre ha eletto numerosi rappresentanti delle istituzioni territoriali: sindaci e consiglieri di città, sindaci e consiglieri di centri minori e capi di villaggio in 6 comuni e 16 città.

Con il 50,4% dei consensi, il Kuomintang (KMT), forza-guida della Coalizione Pan-Blu (centrodestra), ha potuto avere la meglio ottenendo circa 1 milione di voti in più rispetto al principale partito di governo. Un primo segnale che le cose potrebbero cambiare. Mentre Tsai è partita alla volta degli Stati Uniti, infatti, il conservatore Ma Ying-jeou, che aveva governato Taiwan dal 2008 al 2016, ha preso un volo per la Cina continentale, prima per recarsi a Nanchino e poi per raggiungere la provincia dello Hunan, dove ha potuto omaggiare la memoria dei suoi antenati, originari della Contea di Xiangtan, visitando la tomba del nonno.

Dopo lo storico incontro di Singapore con Xi Jinping nel 2015, l’ex leader del Kuomintang è stato così anche il primo ex governatore di Taiwan a recarsi nella Cina continentale. Sebbene si sia trattato di una visita a titolo personale, gli undici giorni di viaggio suggeriscono qualcosa di importante, soprattutto se si considera anche la trasferta a Pechino dello scorso febbraio di Andrew Hsia, vicepresidente dello stesso Kuomintang. Dal 1992, gli eredi taiwanesi dello storico partito nazionalista fondato da Sun Yat-sen nel 1919 hanno portato avanti, pur tra momenti di tensione e incomprensioni, come in occasione della crisi del 1995-1996, una linea di progressivo avvicinamento tra le due sponde dello Stretto per discutere la possibile riconciliazione nel quadro di una riunificazione che Pechino, sulla base della storia e del diritto internazionale, considera inevitabile.

Con il tempo, ed in particolare con le riforme e la modernizzazione messe in atto dal Partito Comunista Cinese in tutto il Paese, sono sempre di più i cittadini dell’isola a non comprendere le ragioni che hanno diviso per oltre settant’anni le due parti, separate dalla guerra civile, di uno stesso popolo. Il piano proposto da Pechino nel 1993 resta sostanzialmente lo stesso: riunificazione pacifica secondo il modello Un Paese, due sistemi, già adottato per Hong Kong e Macao.

Se il Kuomintang taiwanese, rappresentato dal leader Eric Chu, dovesse vincere le prossime elezioni governative, i venti di guerra su cui Washington continua pericolosamente a soffiare potrebbe finalmente attenuarsi.

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