Gli iraniani non vogliono il caos

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di Ali Reza Jajali

In Iran è tornata la calma dopo alcuni mesi di disordini e sommosse dovute formalmente alla vicenda della morte di Mahsa Amini che nel settembre scorso era deceduta dopo essere stata fermata dalla “Polizia per la sicurezza morale”, una sezione speciale delle forze dell’ordine che si occupa del rispetto delle norme islamiche legate all’etica pubblica e al buon costume, soprattutto riguardo all’abbigliamento (sia maschile, che femminile).

Anche se le inchieste effettuate sia dagli enti governativi che da organizzazioni autonome non hanno dimostrato la presenza di lesioni sul corpo della Amini – l’inchiesta governativa ha affermato che la morte è avvenuta per problemi celebrali dovuti a precedenti operazioni chirurgiche, come dimostrato anche dalle telecamere a circuito chiuso del commissariato di polizia, grazie alle quali si vede l’improvviso collasso della giovane donna – i media internazionali hanno subito puntato il dito contro le autorità della Repubblica Islamica, accusando il Governo di Teheran di ledere i diritti civili e le libertà individuali delle donne iraniane, le quali non vorrebbero più vivere in base ai dettami della legge religiosa.

Secondo tali mezzi di informazione i metodi utilizzati dalle forze di sicurezza non sarebbero degni di un Paese democratico, visto che le donne che non rispettano in toto l’obbligo di portare il velo islamico vengono trattate alla stregua di criminali comuni e condotti presso le sedi della polizia per ulteriori controlli, anche se normalmente le persone fermate vengono rilasciate.

Inoltre, una volta iniziati i disordini, il Governo iraniano è stato accusato di aver contrastato con eccessiva durezza le proteste disarmate della popolazione, portando il Paese al caos per circa due mesi con un numero elevato di vittime (secondo alcune fonti non governative sarebbero morte centinaia di persone nelle proteste).

D’altro canto le fonti governative hanno rigettato tale versione dei fatti, in primo luogo promettendo la riforma della “Polizia per la sicurezza morale”, che di fatto non è più stata attiva da settembre a oggi, affermando inoltre che le proteste non hanno avuto una matrice pacifica e anzi spesso i manifestanti hanno utilizzato metodi violenti come il lancio di bottiglie incendiarie e l’uso di armi da fuoco e oggetti contundenti di vario tipo.

Per quanto riguarda poi il numero delle vittime, il Governo di Teheran ha affermato che una parte consistente delle vittime sarebbero membri della polizia e forze di pubblica sicurezza legate allo Stato. Senza dimenticare il fatto che gruppi separatisti nell’ovest e nell’est dell’Iran hanno approfittato del caos per portare attacchi armati alle sedi delle istituzioni aumentando così il numero dei morti. Inoltre, anche l’ISIS ha colto l’occasione per attaccare il Paese grazie ad un attentato rivendicato ufficialmente dall’organizzazione terrorista fondamentalista presso un luogo di culto sciita a Shiraz nell’Iran meridionale, attacco che ha provocato la morte di alcuni pellegrini iraniani.

A parte le versioni opposte fornite dal Governo e dagli oppositori, quello che è stato il dato rilevante dei disordini degli ultimi mesi in Iran è stata la partecipazione marginale della popolazione comune alle rivolte. Anche nei video pubblicati dagli oppositori su internet e sui canali satellitari legati ai governi avversi alla Repubblica Islamica (USA, Regno Unito e Arabia Saudita) non abbiamo mai assistito a manifestazioni oceaniche, ma a piccoli gruppi di persone che manifestavano, anche con armi; insomma, più che una rivolta popolare abbiamo avuto a che fare con sommosse che chiaramente non avevano la forza di poter intaccare la stabilità istituzionale del Paese, ma che avevano come scopo principale la diffusione di un sentimento di insicurezza e paura tra la popolazione comune finalizzata alla promozione della confusione e del caos, con la speranza che queste piccole azioni di guerriglia urbana possano in qualche modo fomentare ribellioni su scala più ampia, puntando soprattutto in alcune zone del Paese su divisioni settarie e etniche e sentimenti di rivalsa da parte delle minoranze.

Di certo questo tipo di strategia non è una novità per i servizi segreti delle potenze avversarie dell’Iran; anche in passato – soprattutto nei primi anni Ottanta – gli USA hanno utilizzato questi metodi per indebolire la Repubblica Islamica, senza alcun esito concreto. Inoltre, in altre realtà del Medio Oriente dal 2010 in poi (Siria e Libia in primis) abbiamo potuto vedere questo tipo di trama messa in atto da gruppi sostenuti dai nordamericani; prima piccoli gruppi di ribelli che in diverse zone del Paese con svariate scuse (negazione dei diritti umani da parte dei governi al potere, secessionismo su base etnica e tribale, fondamentalismo religioso ecc…) ledono la sicurezza pubblica, poi progressivamente l’aumento del sostegno ai rivoltosi e alla fine l’intervento internazionale manu militari per rimuovere i governi e riportare l’ordine, anche se normalmente quest’ultima parte del piano non va a buon fine e il caos perenne sostituisce l’ordine istaurato dai governi locali, che avranno molti difetti, ma almeno garantiscono la pace e la stabilità nazionale e regionale, presupposti imprescindibili per lo sviluppo, la crescita economica e il benessere sociale.

Anche in Iran la trama era la stessa e non pochi oppositori del Governo di Teheran, soprattutto quelli residenti all’estero, hanno chiesto l’intervento della comunità internazionale per fermare la cosiddetta repressione governativa. D’altronde, per via della scarsa presa sulla popolazione comune esercitata dai rivoltosi, le sommosse non sono riuscite a coinvolgere l’iraniano medio, il quale se è vero che è critico nei confronti di alcune scelte dei governanti, di certo non vuole che il proprio Paese faccia la fine della Libia post-Gheddafi o dell’Iraq post-Saddam, nazioni che esistono solo sulla carta e che probabilmente non vedranno la stabilità, la pace e la prosperità ancora per tanti anni.

Ali Reza Jajali è responsabile del dipartimento IRAN per il CeSEM, è Assistant professor of Public law presso la Damghan University

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