LA CRESCENTE PRESENZA DEL DRAGONE NEL CONTINENTE AFRICANO

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di Veronica Vuotto

“Solo con radici profonde un albero può dare frutti ricchi; solo piena d’olio, può una lampada ardere luminosa”1. Con questa metafora, Xi Jinping ha voluto rappresentare l’evoluzione della cooperazione sino-africana che, da anni ormai, è un punto focale nella strategia cinese. Se inizialmente, la cooperazione era pensata in funzione anti-Taiwan e anti-Occidente, col tempo, la Cina ha scoperto i numerosi benefici che poteva trarre da una terra così ricca. Tuttavia, si tratta davvero di una cooperazione win-win o vi è il rischio di una nuova forma di colonialismo?

Cina e Africa nella nuova era: un partenariato di eguali” (新时代的中非合作): è questo il titolo del libro bianco, pubblicato il 26 novembre 2021 dal Consiglio di Stato cinese, relativo alla cooperazione tra i due continenti; un partenariato che ha legami storici ben radicati in profondità e la cui importanza è stata ribadita, per iscritto, in questo white paper di circa 21 mila caratteri, primo documento emesso dal governo cinese che descrive in maniera complessiva i rapporti tra i due partner dopo la convocazione del XVIII Congresso del PCC2.

Il documento è diviso in preambolo, testo e conclusioni e si compone di quattro parti3, nelle quali viene sottolineato il forte interesse nel rafforzare l’unità e la cooperazione tra il Paese in via di sviluppo più grande, ovvero la Cina, e il continente che raggruppa il maggior numero di Paesi in via di sviluppo.

Con questa pubblicazione, dunque, la Cina ha voluto rendere noti i risultati di tanti anni di cooperazione con i partner del continente nero e, guardando al futuro, offrire prospettive, di lungo termine, per il continuo sviluppo di questo partenariato bilaterale nella nuova era.

Come dicevamo in apertura di questo breve saggio, per rintracciare le prime forme di cooperazione bisogna guardare molto indietro nel tempo. Le prime tracce di connessioni storiche, culturali, economiche, sociali e militari tra la Cina e il continente africano, infatti, risalgono ai tempi della prima Via della Seta, durante la dinastia Han, tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C, quando lo scambio di beni pregiati faceva registrare prime forme di commercio tra i due continenti. L’antica Via della Seta, antenata dell’attuale One Belt One Road Initiative, consisteva in un tipo di commercio interstatale pacifico e di scambio culturale che si estendeva per oltre 10.000 chilometri dalla Cina, specificatamente a Chang’an (oggi Xi’an), fino a Roma.

Nell’era contemporanea, invece, le relazioni sino-africane hanno registrato un “nuovo inizio” dopo il 1949, anno della nascita della Repubblica Popolare Cinese guidata dal Partito Comunista Cinese di Mao Zedong. Da questo momento, nel corso poi delle successive leadership, la Cina ha cambiato spesso volto, in particolar modo per quanto riguarda la sua posizione sullo scenario internazionale.

Interessante è notare come la crescita del potere della Cina – così come il rapporto con l’Africa – siano in qualche modo legati anche alla partecipazione di Pechino alle organizzazioni internazionali, iniziata a seguito del riconoscimento, da parte dell’ONU, della Repubblica Popolare Cinese (RPC) come la sola rappresentante legittima della Cina nel 1971.

In realtà, una partecipazione attiva non si è registrata almeno fino alla morte di Mao nel 1976 per poi prendere vigore, soprattutto, a partire dalla seconda metà degli anni ‘90 quando ormai la Cina stava già emergendo come una grande potenza politica, economica e militare. Pur rimanendo ancora ai principi del marxismo e alla sua cultura politica tradizionale, a cambiare sono state anche le ambizioni, percezioni e prospettive della Cina rispetto a una posizione disinteressata tenuta fino ad allora, sottolineando nel tempo come l’interdipendenza e la globalizzazione non dovrebbero concorrere a danneggiare la sovranità statale di un Paese.

Nel corso degli anni, la Cina ha cercato di utilizzare il lavoro all’interno delle organizzazioni internazionali per apportare delle riforme globali: già dagli anni ‘50, aveva offerto il suo aiuto ai paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa, appoggiando i diversi movimenti di liberazione; condividendo un passato simile, fatto di umiliazioni e occupazioni straniere, nonché uniti dalla necessità di una crescita economica, diversamente dai paesi occidentali e, in particolar modo, l’Unione Sovietica, la quale era accusata di essere “socialista a parole, imperialista nei fatti” (non a caso, il Terzo Mondo era divenuto terra di confronto e di conquista tra il “vero socialismo”, la Cina, e il “revisionismo e socialimperialismo”, l’Urss), la Cina si mostrava, così, agli occhi della popolazione africana come la vera potenza rivoluzionaria.

Importante nel contesto delle relazioni sino-africane è il 1955, anno in cui si tenne in Indonesia la Conferenza di Bandung, la quale vide la partecipazione di 29 Stati, molti dei quali di recente indipendenza, africani o asiatici, il cui scopo era quello di rafforzare i legami economici e politici fra l’Asia e l’Africa, seguendo una propria strada verso il progresso sociale che andasse oltre la logica delle due superpotenze. I principi alla base dell’organizzazione di questa conferenza erano la lotta contro il colonialismo economico, il rifiuto di partecipare a sistemi di sicurezza collettiva creati al solo scopo di difendere gli interessi di una delle due superpotenze, la neutralità, l’impegno per il disarmo e la collaborazione reciproca. Questa conferenza portò alla luce la presenza di interessi comuni tra i due continenti, così come la sostanziale assenza di conflitti di interesse; fu chiaro come la relazione tra la Cina e il continente africano fosse di tipo win-win – a differenza di quelle zero sum che informano le relazioni stabilite dagli occidentali a guida anglostatunitense – dove, in cambio di una reciproca non interferenza, sia in termini politici che diplomatici, entrambi avrebbero potuto ottenere benefici economici.

Un secondo evento storico fondamentale che ha dato maggior slancio alle relazioni sino-africane coincise con la visita del carismatico Primo Ministro cinese, Zhou Enlai (già Ministro degli Esteri nel 1949) nel continente, passato alla storia come il Zhou’s “Safari”4: il Premier visitò dieci Paesi africani indipendenti5, tra il dicembre 1963 e il febbraio 1964.

La strategia messa in atto da Zhou Enlai consisteva nel visitare i Paesi africani che avevano già delle relazioni diplomatiche con Pechino, in un momento particolare in cui il continente africano si liberava dalle forze coloniali e, soprattutto, in un contesto di sempre più forti tensioni tra la Cina di Mao e l’Urss di Chruščёv, in cui la Cina voleva ergersi a unica vera potenza marxista. Sebbene non tutti i Paesi africani avessero Governi di stampo comunista, l’obiettivo di Zhou Enlai era di aumentare l’influenza cinese sulle nazioni recentemente indipendenti e di stringere relazioni con i leader moderati al fine di garantire il riconoscimento diplomatico da un numero crescente di Stati attraverso un approccio più assertivo al continente; nell’idea di Zhou Enlai, questo viaggio avrebbe dovuto preparare le basi per una seconda Conferenza, prevista per il 1965 in Algeria, a 10 anni dal primo noto incontro tenutosi in Indonesia, durante il quale emerse un interesse, da parte della Cina, di ergersi come leader del mondo in via di sviluppo. Questa seconda conferenza, tuttavia, fu poi cancellato a seguito del rovesciamento del presidente algerino Ahmed Ben Bella.

Nel corso degli anni ‘70, i principi di sovranità e autonomia, tanto cari alla Cina, rientrano anche nella cooperazione internazionale verso i paesi del Terzo Mondo. A Pechino si riteneva che non ci fosse bisogno di accettare aiuti che comportassero delle condizionalità: non si trattava infatti di opere di carità bensì di relazioni diplomatiche fra pari. Inoltre, riteneva che chi riceveva aiuti finanziari, doveva far affidamento innanzitutto sulle proprie risorse così da uscire prima dalla crisi e soprattutto non dipendere da questi aiuti. Anche per questo la Cina, almeno fino al 1978, non aveva accettato alcun aiuto dalla comunità internazionale, preferendo aiutare i Paesi tramite relazioni bilaterali, ed è quello che ha fatto con alcuni dei Paesi in via di sviluppo.

A dimostranza di ciò, basti pensare ai diversi progetti infrastrutturali portati avanti da numerosi ingegneri e professionisti cinesi mandati nel continente africano: tra i principali, ricordiamo l’ambizioso progetto relativo alla famosa ferrovia Tazara6, lunga 1.860 chilometri, che collega Tanzania e Zambia, completata nel 1976 con l’aiuto di 50.000 lavoratori cinesi. L’obiettivo di questo lavoro era di fornire allo Zambia, un paese senza sbocco sul mare, l’accesso vitale al mare necessario per ridurre la sua dipendenza dai porti e dalle ferrovie dell’ex Rhodesia del Sud (ora Zimbabwe), dell’Angola e del Sud Africa7.

Più che da ragioni economiche, la Cina era principalmente spinta da motivi politici: tale gesto di solidarietà, punto centrale della strategia ideologica del Dragone, avrebbe rappresentato il simbolo della rivoluzione contro ogni forma di colonialismo e imperialismo8.

Questo periodo è passato alla storia come “l’età d’oro” delle relazioni sino-africane, durante il quale molti paesi africani avevano negato il loro riconoscimento nei confronti della Repubblica Nazionalista Cinese (Taiwan) per appoggiare invece la Repubblica Popolare.

Tuttavia, gli anni ‘70 sono stati importanti per la Cina, soprattutto per i cambi, a dir poco epocali, avvenuti dalla seconda metà del decennio. Il 1976, infatti, è l’anno in cui hanno perso la vita le due figure più rappresentative della Cina post-rivoluzionaria: Zhou Enlai nel gennaio e il Grande Timoniere, Mao Zedong, nel settembre.

A partire dal 1978, la nuova leadership della Cina comunista, incarnata da Deng Xiaoping (1978-1992), abbandonava l’orientamento politico di tipo ideologico, in favore di un pragmatismo che, sul piano interno, si traduceva con una serie di riforme (le “quattro modernizzazioni”), mentre sul piano internazionale, si basava sull’apertura verso l’esterno e sulla salvaguardia della pace. Cambiava l’identità stessa della Cina, la quale, dagli anni ‘80, iniziava ad instaurare relazioni con organizzazioni come l’UNICEF, partecipava alle Commissione sul disarmo, chiedeva aiuto al World Food Program (WFP) per i milioni di rifugiati Indocinesi; diventava membro della Commissione speciale dell’ONU per il mantenimento della pace. Nel 1978, inoltre, chiedeva anche aiuto, per la prima volta, al Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo.

A fine anni Ottanta, dunque, Deng poteva ritenersi soddisfatto dei risultati ottenuti dalla sua politica di apertura: la RPC era infatti vista, sia in Occidente che in Oriente, come una potenza pacifica e aperta alla cooperazione con le potenze industrializzate.

Tutto ciò però rischiò di essere vanificato con i fatti seguiti alle manifestazioni di piazza Tian’anmen, nel giugno 1989, e la conseguente delegittimazione internazionale del Partito Comunista Cinese, le sanzioni economiche e l’isolamento diplomatico internazionale. L’Occidente, in primis, reagì con condanne di principio, a cui seguirono, la sospensione delle visite e dei contatti ufficiali, lo stop alle vendite di armi, le sanzioni economiche e il congelamento di crediti e investimenti.

Sebbene Deng temesse l’isolamento internazionale e le sanzioni economiche, sapeva che una volta gestiti i problemi interni, gli occidentali sarebbero tornati prima o poi. E così infatti fu: l’occupazione del Kuwait da parte dell’esercito iraqueno, nell’estate del 1990, e il conseguente scoppio della guerra del Golfo, nel gennaio del 1991, riportarono la Cina sulla scena internazionale (la Cina infatti dal 1988 era membro della Commissione speciale per le operazioni di peace-keeping all’interno del Consiglio di Sicurezza).

Ciò che rimase stabile fu l’identificazione e l’interesse della Cina verso i Paesi del Terzo Mondo. La Cina voleva cercare di far capire a tutti i paesi sviluppati che c’era un legame molto forte tra la ricchezza di questi ultimi e il benessere dei paesi in via di sviluppo e divenne una sorta di Paese mediatore fra di essi e i paesi industrializzati.

Il processo di sviluppo nel corso degli anni, ha trasformato la Repubblica Popolare Cinese del 1949 in una potenza economica, capace, oltretutto, di guadagnarsi l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (11 dicembre 2001), capace di influenzare in maniera concreta l’organizzazione stessa, così come il processo di globalizzazione ma, soprattutto, ha rappresentato per la Cina un balzo in avanti verso l’interdipendenza economica.

Le successive leadership hanno continuato il lavoro avviato dai loro predecessori: nel suo viaggio in Africa nel 1996, il Presidente Jiang Zemin (1989-2002) propose un piano che guardasse al 21esimo secolo, basato sullo sviluppo di una relazione stabile e a lungo termine con tutti i Paesi del continente. Tale relazione doveva ruotare intorno a principi quali l’amicizia sincera, il trattamento reciprocamente come uguali, solidarietà e cooperazione, sviluppo comune e sguardo al futuro.

Non molto diversa è stata la politica africana del successore, Hu Jintao (2002-2012). Ai cinque punti di Zemin, Jintao propose i sei pilastri della cooperazione sino-africana, relativi principalmente alla non interferenza, l’autonomia dell’Africa di gestire i propri problemi interni, la cooperazione e la fiducia reciproca, una maggior assistenza economica con il minor numero di condizioni politiche, una maggiore attenzione, da parte della comunità internazionale, nei confronti dell’Africa e, infine, la promozione di un contesto internazionale sempre più favorevole allo sviluppo del continente9.

L’importanza dei rapporti tra i due continenti è stata confermata e rafforzata dall’istituzione di un forum, ideato nel 2000 come “conferenza ministeriale” e ufficializzato nel 2006 come Forum on China Africa Cooperation (FOCAC)10, fulcro della cooperazione sino-africana.

I membri di questo Forum si incontrano (ancora oggi) ogni tre anni in una città cinese o africana. L’intenzione di queste conferenze era di rafforzare la cooperazione tra i due attori su svariati settori. Il primo incontro si tenne a Pechino nel 2000, sotto la leadership di Jiang Zemin, e ciò che va ricordato è la decisione di cancellare il cospicuo debito maturato da 31 Stati africani nei confronti della Cina, a riprova del forte legame di amicizia e cooperazione che legava i due attori.

I successivi incontri si sono tenuti ad Addis Abeba, Etiopia (2003) a Pechino (2006), a Sharm-el-Sheik, Egitto (2009), a Pechino (2012), a Johannesburg, Sudafrica (2015), Pechino (2018) e l’ultimo a Dakar, Senegal (2021). Da tutti questi forum, ciò che è emerso è stato un sempre maggior coinvolgimento della Cina negli affari africani, così come maggiori aiuti offerti a questi ultimi. I temi affrontati sono stati di vario tipo: dalla questione ambientale, alla cooperazione energetica e scientifica, alla sicurezza e così via. Come precedentemente detto, ciò che lega le due parti è anche un principio di reciprocità. Infatti, se l’Africa, nel corso di queste conferenze, ha ottenuto la cancellazione dei debiti, gli aiuti economici a livello infrastrutturale e l’apertura dei mercati, i guadagni auspicati dalla Cina riguardano, in particolar modo, le risorse energetiche.

Ben nota è la quantità di risorse naturali presenti nel secondo continente più largo al mondo; non sorprende dunque che l’Africa sia diventato il punto focale dell’import cinese. Di fatto, la sicurezza energetica è un punto cruciale nella strategia cinese sia per la sopravvivenza economica sia che per la crescita e lo sviluppo del Paese. La Cina, si sa, è tra i primi consumatori e importatori al mondo di petrolio grezzo (seconda dopo gli Stati Uniti); di conseguenza, la sua presenza in Africa serve a garantire la sicurezza nell’approvvigionamento di tali risorse. Al tempo stesso, l’economia di molti paesi africani dipende dall’export di questi minerali e risorse energetiche presenti nel continente in primis carbone e petrolio da Nigeria, Libia, Guinea Equatoriale e Algeria; il petrolio, per il quale Angola, Nigeria e Sudan sono le tre principali nazioni africane produttrici in cui la Cina ha investito, non è tuttavia la sola risorsa che interessa: altre risorse sono il rame dello Zambia, il cobalto della Repubblica Democratica del Congo (RDC) e il ferro dalla Liberia.

Per quanto riguarda gli investimenti, i Paesi africani che ne hanno ricevuto il maggior numero sono la Repubblica Democratica del Congo, il Sud Africa, la Nigeria, l’Egitto e il Niger. Secondo alcune statistiche rilasciate dai media cinesi, gli investimenti esteri hanno raggiunto, nel 2019, i 47 miliardi di dollari, superando i 210 milioni di dollari registrati nel 2000, anno di creazione del FOCAC, così come superando gli investimenti da parte di Stati Uniti e Unione Europea. La pandemia da Covid-19, sebbene abbia fatto registrare il minimo storico di investimenti, non ha interrotto la crescita esponenziale cinese che già è in ripresa.

Tuttavia, secondo molti studiosi, anche in relazione alla Cina, non è sempre tutto ora ciò che luccica. Sebbene la politica di economia socialista di mercato, lanciata da Deng Xiaoping, abbia reso la Cina la “fabbrica del mondo”, i problemi sembrerebbero non mancare. Innanzitutto, si può immaginare che la prospettiva che vuole la Cina diventare la prima potenza mondiale porti con sé fisiologici conflitti a livello internazionale.

Fermo restando all’insegnamento del Generale prussiano Von Clausewitz secondo cui lo scopo ultimo della guerra è di costringere il nemico a sottomettersi alla nostra volontà, la concezione odierna di conflitto e di affermazione di potenza non necessariamente deve coincidere con lo sprigionarsi di forza cinetica. Ne è dimostrazione la strategia messa in atto dal Dragone la quale persegue tale obiettivo attraverso tecniche di soft power basate, in questo caso, sulla dipendenza economica.

Questa situazione che vede sempre più l’Africa importare prodotti finiti dalla Cina mentre esportano materie prime economiche, innesca un meccanismo teorizzato in Occidente noto come la “trappola del debito cinese”; Secondo questa teoria, qualora dovesse verificarsi una situazione di deficit economico per il quale il Paese ricevente non è più in grado di pagare i debiti, si troverebbe per l’appunto “in trappola”, dovendo così offrire, inevitabilmente, dei vantaggi strategici e asimmetrici al Paese creditore.

I settori maggiormente riceventi di finanziamenti sono quelli delle infrastrutture, energia, trasporti e comunicazione, per un ammontare di oltre 150 miliardi di dollari.

Un esempio esplicativo dell’applicazione di tale tattica è quello dell’Angola, uno dei Paesi più indebitati con la Cina (ben 42,6 miliardi di dollari dal 2000). Il Paese, a partire dal 2000, aveva visto un’esponenziale crescita del proprio PIL, per poi iniziare a decrescere a partire dal 2014. Non vi è dubbio dell’importanza strategica che un Paese come l’Angola gioca per la Cina: la presenza di oleodotti e gasdotti, provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo, che passano per le sue terre sono cruciali per la sicurezza energetica cinese. In questo modo, la messa “in trappola” del Paese, garantirebbe alla Cina la possibilità di far valere il suo diritto ad avere la priorità sull’estrazione di idrocarburi.

Sebbene nel contesto della nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative), la Cina abbia parlato di “sviluppo pacifico”11 (heping fazhan, 和平发展) come linea guida da seguire, non bisognerebbe sottovalutare il rischio che possibili azioni cinesi volte alla salvaguardia dei propri interessi, possano avere nei confronti degli altri attori coinvolti.

Tuttavia, questo tema caro all’occidente resta una questione piuttosto controversa e dibattuta tra gli studiosi, in quanto non tutti concordano sull’effettiva minaccia derivante da questa tecnica cinese di soft power: c’è chi parla già di un “colonialismo cinese”, chi, invece, seppur consapevole dei rischi relativi a tali contratti e accordi, è ben più conscio della maggiore complessità che vi è dietro. Come in ogni situazione, bisognerebbe analizzare ciò che accade con una prospettiva più ampia che non si limiti al solo punto di vista prettamente occidentale.

Per quanto riguarda le relazioni diplomatiche e la cooperazione tra il Dragone e i Paesi africani, vi sono alcuni Paesi nello specifico che sono stati oggetto di studio per la propria peculiarità. Un caso particolare è quello relativo all’Etiopia, un Paese non particolarmente ricco di risorse naturali, motivo per cui la relazione tra i due attori ispira molto interesse e curiosità. Il punto focale della loro relazione ruota attorno all’obiettivo dell’Etiopia di divenire un Paese a medio reddito e di conseguenza innalzare il proprio stato socioeconomico12.

Sebbene i primi rapporti tra i due Paesi risalgono già all’epoca Han, è dagli anni Settanta che i due Stati hanno iniziato a instaurare delle relazioni diplomatiche, interrotte poi dal 1977 al 1991, quando al potere vi era Menghistu Hailè Mariàm, il cui regime era allineato con il blocco sovietico. Dal 1991 in poi, anche grazie al coinvolgimento della Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF), le relazioni diplomatiche hanno potuto ricominciare, incrementando sempre più.

Per capire in che misura il principio di reciprocità è applicabile nelle relazioni sino-etiope, bisognerebbe guardare tale rapporto bilaterale da un diverso punto di vista. Come precedentemente detto, l’Etiopia non è un Paese ricco di risorse naturali, motivo per cui la Cina ha un interesse maggiormente di tipo politico nei suoi confronti, piuttosto che economico. Già negli Settanta, Mao cercava una solidarietà nell’ottica del riconoscimento formale della RPC in sede ONU e di alleanze contro Taipei. Dal canto suo, l’Etiopia sa che per poter raggiungere il suo obiettivo di diventare un Paese a medio reddito, necessita di uno sviluppo economico che la Cina può garantire, attraverso investimenti sia in campo tecnologico che industriale. Effettivamente, questo è ciò che è accaduto: nel corso degli ultimi decenni, i numerosi investimenti cinesi in Etiopia hanno fruttato ottimi risultati; sono state costruite scuole, ospedali, così come strade e ponti e altri progetti a livello infrastrutturale.

Per comprendere invece gli interessi cinesi, la geografia gioca qui un ruolo fondamentale: l’Etiopia è infatti posizionata tra la Somalia e il Sudan. La stabilità del Corno d’Africa è di cruciale importanza tanto per l’Etiopia, la quale svolge un ruolo centrale grazie alla sua influenza sui Paesi limitrofi, quanto per la Cina, la quale è interessata al petrolio proveniente dal Sud Sudan (lo stesso vale per l’Etiopia), e di conseguenza necessita di un controllo e della garanzia di stabilità di tali regioni. A riprova di ciò, Pechino e Addis Abeba hanno anche siglato un’alleanza militare, secondo la quale sono previsti addestramenti, scambio di tecnologie e missioni di peacekeeping congiunte.

Sebbene alcuni studiosi abbiano avanzato delle critiche relative a questa cooperazione (ad esempio, la perdita di lavoro di molto etiopi a causa della manodopera cinese portata direttamente in loco per via dei prezzi più bassi, nonché il rischio di indebitamento), non vi è comunque dubbio che a beneficiare da tale cooperazione siano entrambe le parti coinvolte.

In ogni modo, la cooperazione sino-etiope è stata negli ultimi anni portata in auge anche nel contesto della crisi che sta devastando il Paese, in particolare la regione del Tigray, iniziata nel novembre 2020 e ancora in corso. Una guerra interna, che vede contrapposti il governo federale guidato dal Primo Ministro, Abiy Ahmed13, e il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (FLPT), partito indipendentista della regione. Tuttavia, sebbene interna, le conseguenze di tale crisi rischiano di intaccare anche gli interessi dei Paesi limitrofi e dei principali partner, la Cina in primis. Le tensioni hanno avuto inizio a seguito della decisione del Primo Ministro di sciogliere la coalizione che da decenni governava il Paese, ivi compreso il FLPT. Quest’ultimo, in disaccordo con tale mossa, ha dato via all’offensiva, attaccando le basi federali nel Tigray. Il Primo Ministro Ahmed, in collaborazione con il governo dell’Eritrea, ha risposto all’attacco, dando inizio a scontri che ancora oggi rischiano di mettere il Paese intero e tutta la sua popolazione in ginocchio.

Come detto poco prima, la Cina necessita la stabilità del Paese al fine di salvaguardare i propri interessi, dunque si ipotizzava un suo possibile intervento per placare il conflitto. Tuttavia, ben nota è la politica di non interferenza, salda ormai nella strategia cinese, in netto contrasto con la politica interventista tipica dell’Occidente.

La Cina si trova dinanzi a un bivio: chiudere un occhio sulla propria retorica della “non interferenza negli affari domestici” e intervenire economicamente, diplomaticamente o militarmente nella regione per porre fine agli scontri, oppure restare fedele alla propria strategia di politica estera, e restare uno spettatore esterno, sperando che i proprio interessi e investimenti non vadano persi.

Abbiamo dunque visto come il soft power cinese, meglio noto oggi come la locuzione giornalistica Beijing Consensus, si sia fatto largo, nel corso dei decenni, nel continente africano e come questo continuerà ad essere centrale nella nuova BRI. Indubbiamente, i Paesi in via di sviluppo, in primis quelli africani, hanno beneficiato degli investimenti e dell’amicizia con la Cina fino ad oggi e molti saranno ancora quelli che riusciranno ad innalzare il proprio status socio-economico grazie all’aiuto del Dragone. Come in ogni situazione, però, gli aiuti cinesi non sono opere di beneficenza e, di conseguenza, prevedono dei guadagni a loro volta proprio come previsto ad una strategia win-win nella quale tutti gli attori, alla fine, hanno guadagnato qualcosa.

NOTE AL TESTO

1 Discorso di Xi Jinping alla cerimonia di apertura del “Forum On China Africa Cooperation” (FOCAC) del 2018

2 Congresso tenutosi tra dall’8 al 15 novembre 2012, fondamentale per i cambi apportati ai vertici del partito: il numero dei membri del Comitato Permanente fu ridotto da 9 a 7 ma, più importante, il Congresso segnò lo scadere del mandato, per limite di età, di 7 degli allora 9 membri, tra cui Hu Jintao, succeduto dall’attuale Presidente Xi Jinping.

3 “Costruzione di una più stretta comunità Cina-Africa dal destino condiviso, continua espansione della cooperazione Cina-Africa in vari campi nella nuova era, incrollabile consolidamento del sostegno reciproco, e sforzi per dare un nuovo aspetto alle relazioni Cina-Africa”.

4 O. Abegunrin, C. Manyeruke, China’s Power in Africa. A New Global Order, Politics and Development of Contemporary China, Springer International Publishing (2020): 10

5 Egitto, Algeria, Marocco, Tunisia, Ghana, Mali, Guinea, Sudan, Etiopia, e Somalia.

6 Tan-Zam (o Tanzam) Railway, nota anche con il nome di Great Uhuru Railway (“grande ferrovia della libertà”)

7 O. Abegunrin, C. Manyeruke, China’s Power in Africa. A New Global Order, 37

8 ibidem

9 Alonzi Roberta, La Diplomazia Cinese in Africa Tra Ideologia e Anti-Ideologia: Economia, Soft Power e Nuovi Paradigmi Strategici, Rivista Di Studi Politici Internazionali, vol. 78, no. 2 (310), 2011, pp. 230. JSTOR, http://www.jstor.org/stable/42741027.

10 Abegunrin, Manyeruke, China’s Power in Africa. A New Global Order, 39

11 Abegunrin, Manyeruke, China’s Power in Africa. A New Global Order, 195

12 Abegunrin, Manyeruke, China’s Power in Africa. A New Global Order, 132

13 Premio Nobel per la Pace nel 2019

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