I Diritti Umani e lo Xinjiang: il cavallo di Troia occidentale per destabilizzare la Repubblica Popolare Cinese

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di Andrea Turi

Il concetto di diritti umani riguarda l’ordine del mondo, è una proposta per strutturarlo ed esprime una particolare concezione relazionale sia tra lo Stato e l’individuo che, in una prospettiva più allargata, tra gli Stati: “come le grandi potenze precedenti, noi, gli Stati Uniti, possiamo identificare il presunto dovere dei ricchi e dei potenti di aiutare gli altri con le nostre convinzioni su come un mondo migliore dovrebbe essere. L’Inghilterra ha affermato di portare il fardello dell’uomo bianco, la Francia parlava della sua missione moralizzatrice. Con spirito simile, noi diciamo che agiamo per fare e mantenere l’ordine mondiale. Per i Paesi al vertice, questo è un comportamento prevedibile”1.

Nel 1986, gli studiosi Edward, Henkin e Nathan pubblicarono un lavoro dal titolo Human Rights in Contemporary China nel quale sentenziarono che “i diritti umani sono l’idea del nostro tempo, l’idea politica più magnetica della contemporaneità”per dirla, invece, con Brzezinski.

Da quei giorni, si è registrato un rafforzamento delle forze egemoniche della globalizzazione e la teoria e la pratica dei diritti umani hanno cominciato ad acquisire sempre maggiore rilevanza nei risvolti più o meno palesi della politica internazionale, soprattutto quando si fa riferimento ai concetti di intervento e interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano; atti, questi, perpetrati quasi esclusivamente da un Occidente sempre più alle dipendenze degli interessi di Washington, che nel corso degli anni non si è fatta scrupoli nell’utilizzare la politica e la retorica – ma anche la pratica – dei diritti umani per alimentare la propria ambizione al dominio globale e consolidare le basi del proprio imperialismo. Non è in discussione il fatto che gli Stati Uniti utilizzino i diritti umani come mezzo di politica estera, pressione internazionale e leva di promozione di interessi, propri e di quelli delle forze del Capitalismo che rappresenta.

Le politiche sui diritti umani furono adottare per la prima volta nel 1977 dal Presidente democratico Jimmy Carter; egli vi vedeva un tema che avrebbe permesso al Paese di restaurare il senso nazionale della missione che gli Stati Uniti si sentivano assegnati da un Destino manifesto e che gli spettri della guerra in Vietnam e gli scandali interni legati al Watergate rischiavano di interrompere. Lo scrittore cinese Gu Yan vide nell’utilizzo presidenziale dei diritti umani un mezzo atto a compensare la carenza nella forza militare – dovuta alla debacle vietnamita – con la forza morale.

I diritti umani divennero, così, un cardine dell’azione estera statunitense.

Nel 1982, in un discorso tenuto davanti al Parlamento inglese, Ronald Reagan vestì la sua retorica anticomunista con abiti umanitari (o viceversa) e lanciò “una campagna per la libertà”che avrebbe lasciatoil marxismo-leninismo su un mucchio di cenere della Storia così come ha lasciato altre tirannie che soffocano la libertà e mettono la museruola all’auto-espressione del popolo”2.

Joe Biden, ultimo degli eletti alla Casa Bianca, ha rilanciato tramite il Segretario di Stato Antony Blinken l’idea che i diritti umani saranno una delle pietre angolari della politica estera statunitense del prossimo quadriennio: “dobbiamo partire con una diplomazia che ha le proprie radici nei valori più amati della democrazia americana: difesa della libertà, difendere le opportunità, difendere i diritti universali, rispettare lo stato di diritto, e trattare ogni persona con dignità”. Per Chang Jian, direttore del Centro Studi sui Diritti Umani all’Università di Nankai, queste non sono altro che parole di dubbio valore, soprattutto morale, pronunciate da rappresentanti di una potenza (gli USA) che “calunniando gli altri Paesi per i documenti sui diritti umani e minimizzando i propri problemi inerenti la tematica, hanno mostrato la loro ipocrisia e un doppio standard sulla questione”3. Nel suo scritto, lo studioso cinese aveva poco prima fatto riferimento alle numerose violenze perpetrate brutalmente contro i cittadini di colore su suolo statunitense e accusato Washington di essersi rifiutata di allentare le sanzioni su Paesi come la Siria, Iran, Cuba e Venezuela anche in momenti di drammatica difficoltà come quelli pandemici. Netto il giudizio che ne scaturisce: “la diplomazia dei diritti umani” ha disturbato la pace globale e aggravato la crisi umanitaria in altri Paesi. Gli Stati Uniti devono smetterla di usare i diritti umani come strumento per esercitare pressioni e soggiogare altri Paesi e invece indagare sulle proprie tragedie sui diritti umani”.

Se ci sarà – molti analisti la vedono già stagliarsi nell’orizzonte della Storia – la nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Repubblica Popolare sarà con ogni probabilità costruita sulla base sulle bugie e calunnie interventiste umanitarie; un esempio lo vediamo già quotidianamente con lo Xinjiang. Gli Stati Uniti, infatti, si sono mascherati da difensore dei diritti umani e criticano le politiche e le pratiche in materia di diritti umani di altri Paesi, in questo caso particolare della Cina, “ma dal momento che la discriminazione razziale è evidente in tutti gli aspetti della società statunitense, non [sono] qualificati per dare lezioni ad altri Paesi sulla questione. I diritti degli Indiani d’America sono stati violati anno dopo anno, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo. I coloni caucasici hanno effettuato una pulizia etnica sistematica e massacri di nativi americani. Si stima che almeno 15 milioni di indigeni vivessero in Nord America prima che i coloni bianchi arrivassero lì nel 1492. Ma nel 1900 il loro numero era sceso a 250.000. Dal momento che gli Stati Uniti non possono salvaguardare i diritti umani del proprio popolo, come dimostrato dai fatti sopra, non hanno il diritto di dare lezioni ad altri Paesi sui diritti umani”4.

Nominare e svergognare un Paese straniero è divenuta oggigiorno una scorciatoia atta ad esercitare pressioni sugli Stati affinché rispettino i diritti umani e, conseguenza diretta, si sottomettano alla visione unilaterale occidentale; il potere delle denunce internazionali, allora, risiede in un processo di stigmatizzazione dipendente dalla relazione asimmetrica in cui attori dominanti – che presentano sé stessi come non portatori dei tratti che si vuol stigmatizzare – discriminano socialmente, economicamente e politicamente gli attori subordinati che, invece, quei tratti meritevoli di discredito a loro vedere li presentano tutti. Si comprende, quindi, come i diritti umani siano una componente potente e complessa, tutt’altro che accessoria, della scienza politica attuale; questo perché le norme internazionali sui diritti umani mettono in discussione il Governo statale sulla società e la sovranità nazionale, offrendo una opportunità particolarmente potente alla logica di contrasto aperta al sistema degli Stati sovrani. Anticipando un argomento che verrà ripreso nel corso di articoli successivi, si è andato realizzando lo scenario teorizzato da Hedley Bull nel suo storico La società anarchica e che lo studioso australiano etichettava come neo-medievalismo, un modello in cui gli attori non-statali – come le moderne Organizzazioni Non Governative – agiscono per minare alle fondamenta la sovranità degli Stati, un sistema che ha visto emergere autorità sovrapposte e fedeltà multiple. Scriveva Bull: “portata alla sua estrema logica, la dottrina dei diritti umani e dei doveri in base al diritto internazionale è sovversivo dell’intero principio secondo cui l’umanità dovrebbe essere organizzata come una società di Stati sovrani. Infatti, se i diritti di ogni uomo possono essere fatti valere sulla scena politica mondiale al di sopra e contro le rivendicazioni del suo Stato, e i suoi doveri proclamati indipendentemente dalla sua posizione di servitore o cittadino di quello Stato, allora la posizione dello Stato come un corpo sovrano sui suoi cittadini, e autorizzato a comandare la loro obbedienza, è stato oggetto di sfida e la struttura della società degli Stati sovrani è stata messa a repentaglio. La via è lasciata aperta alla sovversione della società degli Stati sovrani a nome del principio organizzativo alternativo di una comunità cosmopolita”5, il cui compito è sempre più demandato a tutta una serie di organizzazioni non governative (ONG) eterodirette ed etero-finanziate.Basterà, per adesso, comprendere il meccanismo di funzionamento di queste reti di ONG le quali, alla fine, hanno bisogno di assicurarsi il sostegno di potenti attori statali che avallano le norme e fanno della socializzazione normativa una parte della loro agenda. Il processo attraverso il quale questi primi imprenditori normativi portano le preoccupazioni normative all’attenzione dei responsabili politici negli Stati potenti è di pura persuasione. “Questi gruppi e individui generalmente non sono forti nel senso classico del termine, né sono in grado di “costringere” l’accordo su una norma. Devono persuadere affidandosi solo alla forza del loro argomento normativo e al potere dei fatti per sostenere e drammatizzare il loro argomento. Le reti e gli imprenditori morali lavorano per ridefinire un’attività come sbagliata, spesso attraverso il potere del loro linguaggio, delle informazioni e dell’attività simbolica. Ma l’emergere della politica sui diritti umani non è una semplice vittoria delle idee sugli interessi. Invece, dimostra il potere delle idee di rimodellare le concezioni di interesse nazionale. La recente adozione di politiche sui diritti umani non ha rappresentato la trascuratezza degli interessi nazionali, ma piuttosto un cambiamento fondamentale nella percezione degli interessi nazionali a lungo termine. Le politiche sui diritti umani sono emerse perché i responsabili politici hanno iniziato a mettere in dubbio l’idea di principio che le pratiche interne sui diritti umani di un Paese non siano un argomento legittimo di politica estera e l’assunto causale che gli interessi nazionali siano promossi sostenendo regimi repressivi che violano i diritti umani dei loro cittadini”6.

Le norme relative ai diritti umani che conferiscono loro forza e influenza ed hanno una sorta di status speciale poiché prescrivono regole per un comportamento appropriato, aiutano a definire le identità degli Stati liberali: possiamo, quindi, affermare che quando l’occidente si riferisce ai diritti umani lo fa in modo autoreferenziale in una sorta di diritti umani®, una sorta di marchio registrato, un marchio commerciale, un segno distintivo che identifica un bene indicandone la fonte di origine nel titolare vale a dire l’Occidente; i diritti umani entrano, così, a far parte del metro di giudizio utilizzato per definire chi sta dentro e chi sta fuori dal club degli Stati liberali. Oggi, negli studi accademici e nel dibattito pubblico, l’idea di nazione civilizzata è tramontata, il diritto e le organizzazioni internazionali sono, in una sorta di ribaltamento, i principali enti capaci di veicolare e conferire legittimazione all’azione degli Stati. Si discute, allora, “di una comunità di “Stati liberali”, vista come una sfera di pace, democrazia e diritti umani, e si distinguono le relazioni tra gli Stati liberali e quelle tra gli Stati liberali e non liberali. Le norme sui diritti umani hanno effetti costitutivi perché una buona prestazione dei diritti umani è un segnale cruciale per gli altri per identificare un membro della comunità degli Stati liberali. I politologi devono essere particolarmente attenti alla politica dei diritti umani non solo per il loro potenziale di promozione della dignità umana, ma anche perché le questioni relative ai diritti umani sono casi particolarmente utili per generare ed esplorare modelli alternativi di politica internazionale”7.

In un esemplare studio dal titolo Savages, Victims, and Saviors: The Metaphor of Human Rights, il professor Makau Mutuasostiene che qualsiasi cultura che interiorizzi le correnti dottrine sui diritti umani è vista come uno Stato buono mentre quegli Stati che non lo fanno vengono considerati alla stregua di Stati canaglia, incarnazione del Male, Paesi illiberali, antidemocratici o autoritari. La Repubblica Popolare Cinese viene inquadrata dalla narrazione occidentale in questo frame manicheo che non tiene conto delle sfumature culturali e di pensiero che soggiaciono all’impianto teorico dei diritti umani elaborato da Pechino e di cui abbiamo abbondantemente parlato nel primo articolo. La Cina, d’altronde, considera il colonialismo, l’imperialismo, l’egemonismo e il razzismo come violazioni dei diritti umani dal momento che questi concetti, divenuti obiettivi per lo Stato che guida l’Occidente, hanno deliberatamente negato, anche oppresso, il legittimo perseguimento della statualità e dell’autonomia economica da parte di una nazione8. Scrive Mutua: “lo Stato “buono” controlla le sue inclinazioni demoniache ripulendo se stesso e interiorizzando i diritti umani. Lo Stato “malvagio”, d’altra parte, si esprime attraverso una cultura illiberale, antidemocratica o di altra natura autoritaria. La redenzione o la salvezza dello Stato dipende unicamente dalla sua sottomissione alle norme sui diritti umani. Lo Stato è il garante dei diritti umani; è anche l’obiettivo e la ragion d’essere del diritto dei diritti umani”9.

La metafora proposta da Mutua savage-victim-savior significa essenzialmente che qualsiasi Stato si muova contro l’ideologia politica dominante occidentale viene visto come uno Stato barbaro e crudele e i diritti umani considerati uno strumento per trasformarli in Stati buoni agli occhi occidentali; gli Stati che, invece, seguono il cammino politico “appropriato” sono considerati come dei salvatori in seno alla comunità internazionale che riserva loro una posizione privilegiata e superiore. Le vittime in questa analogia non sono altro che i cittadini di questi Stati selvaggi che non soddisfano l’ideologia liberale occidentale: “nella narrativa sui diritti umani, i selvaggi e le vittime sono generalmente non bianchi e non occidentali, mentre i salvatori sono bianchi. Questo vecchio truismo ha trovato nuova vita nella metafora dei diritti umani”10. Ci troviamo, quindi, davanti al paradigma coloniale declinato in altri termini. Il potere su altre società, legittimato e codificato sotto i segni del destino manifesto e delle missioni civilizzatrici con intenti umanitari, è stata una caratteristica piuttosto saliente dei precedenti progetti occidentali di costruzione di nuovi ordini mondiali. Questi progetti o domini della verità, come emanavano dall’Europa o dagli Stati Uniti, tentavano di imporre la loro egemonia definendo la normalità con riferimento a una visione particolare delle loro culture, designando ciò che era diverso come diverso dalla verità e bisognoso di tutela. Gli Stati Uniti, la cui storia è semplicemente una continuazione dell’Età dell’Europa, soffrono di questa visione del mondo proprio come i loro predecessori europei. “L’idea che i diritti umani siano un’ideologia con profonde radici nel liberalismo e nelle forme di governo democratiche è ora sostenuta da accademici di alto livello in Occidente. I pregiudizi culturali del corpus dei diritti umani possono essere adeguatamente compresi solo se contestualizzati all’interno della teoria e della filosofia liberali. Intesi da questa posizione, i diritti umani diventano un’ideologia con una specifica impronta culturale ed etnografica. Il corpus dei diritti umani esprime un pregiudizio culturale, e il suo castigo di uno Stato è quindi un progetto culturale. Se la cultura non è definita come una pratica discreta, esotica e peculiare che è congelata nel tempo, ma piuttosto come la dinamica della realtà di idee, forme, pratiche e strutture di una data società, allora i diritti umani, così come sono attualmente concepiti, è espressione di una particolare cultura europeo-americana. La difesa dei diritti umani attraverso i confini culturali è quindi un tentativo di spostare la cultura locale con l’universale cultura dei diritti umani. I diritti umani, quindi, diventano la cultura universale. È in questo senso che la cultura “altra”, quella non europea, è selvaggia nel corpus dei diritti umani e nel suo discorso. Nei principali strumenti internazionali sui diritti umani, la cultura “altra” è spesso descritta come il male che deve essere superato dai diritti umani stessi”11.

La promozione dei diritti umani muove al passo con quella dei principi democratici occidentali; il legame tra democrazia e diritti umani è talmente forte che Washington è arrivata a promuovere la democrazia nello stesso respiro dei diritti umani, tant’è che il cavallo di Troia dei diritti umani è stato utilizzato come veicolo di guerra ideologica contro le culture differenti alimentata da mezzi di comunicazione che contribuiscono a veicolare un’immagine negativa della Cina: l’imperialismo statunitense ha, così, trascorso gran parte dell’ultimo decennio intensificando gradualmente una nuova guerra fredda con Pechino e i media hanno prodotto il consenso per tutte le politiche aggressive messe in atto12. L’opinione pubblica è bombardata da continui titoli anti-Cina provenienti da tutto lo spettro politico. Le menzogne “umanitarie” rappresentano la forma più pericolosa di disinformazione che attualmente alimenta la Nuova Guerra Fredda degli Stati Uniti. La più importante e recente è la favola che un “genocidio” viene commesso contro i musulmani nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang cinese.

Illuminante, a tal riguardo, è quanto scrive Maria Morigi: “spesso riemergono nella nostra stampa i rigurgiti di antichi pregiudizi nei confronti della Cina, con l’aggravante che tali pregiudizi, veicolati da ONG occidentali e fatti propri con estrema preoccupazione da nostri rapporti governativi, vengono banalizzati ed ingigantiti sui social network per il pubblico inesperto, provocando critiche, diffidenza e sospetto nei confronti del sistema politico cinese, riuscendo a minare persino la fiducia nella reale prospettiva di distensione con la Chiesa cattolica. La propaganda e la manipolazione di informazioni tese a screditare gli orientamenti politici cinesi interessano in particolar modo Tibet e Xinjiang (per non parlare anche delle vicende di Hong Kong13), le due regioni autonome al centro di politiche di normalizzazione e attenta sorveglianza da parte del Governo cinese, ma anche di vie di transito dei nuovi progetti infrastrutturali. Infatti è in Tibet e in Xinjiang che interventi di esercito e polizia contro i terroristi, ma anche ordinari controlli di ordine pubblico, sono denunciati dai sostenitori occidentali dei diritti umani (che spesso sembrano ignorare qualsiasi prospettiva storica di causa – effetto) pronti a cogliere l’occasione per mettere in cattiva luce l’operato di Pechino”14.

Bene mettere in chiaro un concetto: lo Xinjiang appartiene alla Cina. La situazione della popolazione nello Xinjiang, come quella di altre parti della Cina, è sempre stata una priorità del Governo cinese e attualmente, lo Xinjiang sta raccogliendo i frutti delle politiche elaborate da Pechino perché la regione sta attraversando un periodo di prosperità, con uno sviluppo economico sostenuto armonioso. Tuttavia, al fine di realizzare il suo ulteriore scopo politico, gli Stati Uniti hanno ripetutamente inventato menzogne secondo cui la Cina viola i diritti umani delle minoranze etniche e, con il pretesto dei diritti umani, perseguire i loro reali interessi nella regione.

E l’interesse statunitense, in quanto potenza imperialista, in ogni parte del mondo è sempre lo stesso: evitare che un altro Paese emerga a potenza regionale o globale.

Non è difficile capire i motivi che stanno dietro l’interesse statunitense per questa regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese nel cuore dell’Asia, la porta d’Eurasia: più che alla tutela e difesa diritti umani del popolo uiguro (anche se maggioritaria, una delle tante popolazioni che abitano queste zone) gli Stati Uniti sono interessati a destabilizzare una delle regioni più importanti per la Cina in quanto lo Xinjiang rappresenta il crocevia della Belt and Road Initiative (Nuova via della Seta, ndr) proposta ed elaborata da Xi Jinping, una sorta di attuazione pratica del detto “coloro che hanno lo stesso sogno, non saranno mai divisi nonostante tutte le montagne e gli oceani tra di loro”.

Scrive in modo esaustivo Gianbattista Cadoppi sulle pagine online della rivista “Marx21” che “lo Xinjiang è un importante centro della nuova Via della Seta che Washington intende sabotare. Usciti vincitori dalla guerra fredda nel 1991, gli Usa si sono autonominati il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali”, proponendosi di “impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione – l’Europa Occidentale, l’Asia Orientale, il territorio dell’ex Unione Sovietica e l’Asia Sud-Occidentale (il Medio Oriente) – le cui risorse sarebbero sufficienti a generare una potenza globale. Le accuse sui pretesi “campi di concentramento” nei media occidentali servono a demonizzare la Cina come “regime nemico”, insieme alla Russia. Da allora gli Usa e la Nato sotto loro comando hanno frammentato o demolito con la guerra, uno dopo l’altro, gli Stati ritenuti di ostacolo al piano di dominio globale – Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria e altri – mentre altri ancora (tra cui l’Iran e il Venezuela) sono nel mirino. Il recente coro di attacchi a Pechino per il trattamento della minoranza musulmana nello Xinjiang ignora convenientemente il motivo per cui Pechino è molto allarmata. Uno dei motivi principali è che ci sono circa più di 5mila uiguri che combattono come jihadisti islamici in Siria, e stando e a quanto riferito vengono addestrati per tornare in Cina e condurre la Jihad contro il governo nella regione che è il cuore delle reti petrolifere e dei gasdotti cinesi e un hub per la nuova Via della seta […] Per la Cina, il controllo del Xinjiang, in quanto naturale passaggio, aperto a chiunque volesse invaderla, è sempre stato importantissimo, e ogni dinastia ha sempre fatto di tutto per tenere le mani su questa lontana, ma vitale provincia. I cinesi hanno ripetuto per secoli: Se lo Xinjiang è perso, la Mongolia è indifendibile e, con questo, Pechino è vulnerabile. L’Eurasia sarà ilcampo di battaglia e la distruzione del progetto Belt and Road sembra essere la ragione d’essere degli sforzi dell’Impero. Gli occidentali devono chiedersi se vorrebbero che terroristi armati vivessero a casa loro15 la distruzione del progetto Belt and Road sembra essere la ragione d’essere degli sforzi dell’Impero poiché BRI rappresenta “un modello alternativo alla dittatura del dollaro, dove la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale trasformano i Paesi in neo-colonie per le imprese statunitensi – un sistema sostenuto attraverso la costante minaccia di una invasione militare. Gli Stati Uniti non possono affrontare una concorrenza legittima, quindi usano trucchi sporchi nel tentativo di isolare diplomaticamente la Cina e rallentare la sua crescita economica16”.

Al centro di questa narrativa propagandistica dell’attacco alla Cina ci sono le affermazioni ripetute all’infinito secondo cui Pechino sta commettendo massicce violazioni dei diritti umani nello Xinjiang; la Cina sarebbe colpevole dell’uso massiccio del lavoro forzato, della sterilizzazione forzata delle donne e dell’imprigionamento di massa di adulti uiguri. Tali affermazioni propagandate dai media occidentali si sono seriamente rafforzate con l’accusa di atti di genocidio commessi contro la popolazione uigura residente nella regione, un fatto che rappresenta una seria escalation nell’offensiva propagandistica degli Stati Uniti contro la Cina. Scrive Ajit Singh sul sito di informazione indipendente TheGrayZone chementre Washington avanza la sua nuova strategia della Guerra Fredda, ha amplificato le accuse di genocidio e altre atrocità contro il Governo cinese, tutte incentrate sulla politica di Pechino nello Xinjiang. Per ampliare il supporto per la dubbia narrativa, il Governo degli Stati Uniti si è rivolto a una serie di istituzioni pseudo-accademiche ed esperti fasulli per generare studi apparentemente seri e indipendenti. Qualsiasi indagine critica sulle risme di rapporti sullo Xinjiang e sulle istituzioni aggressive che li pubblicano rivelerà rapidamente una squallida campagna di propaganda travestita da inchiesta accademica. Il rifiuto dei media occidentali di guardare sotto la superficie della guerra dell’informazione di Washington contro la Cina mette in evidenza solo il suo ruolo centrale nell’operazione17”. A questa tendenza si accompagna l’intensificazione delle sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati contro Pechino e dall’espansione delle basi militari statunitensi intorno alla Repubblica Popolare. La potenza statunitense continua a rapportarsi al mondo con una visione unipolare ed arrogante ritenendo che il loro relativamente breve periodo di dominio fin qui esercitato sia destinato a durare per sempre; vero che gli Stati Uniti sono ancora il Paese più potente militarmente e possono fare grandi danni se lo desiderano ed è pur vero che in modo unilaterale possono decidere di sanzionare le nazioni più deboli, ma ciò ovviamente avvicina queste alle altre accelerando la creazione di poli alternativi; gli Stati Uniti stanno, ad oggi, affrontando i risultati di decenni in cui si sono comportati come se il loro breve momento unipolare sarebbe durato per sempre mentre la realtà parla di una Cina in rampa di lancio che con la sua Belt and Road Initiative sarà in grado di coinvolgere Paesi di ogni continente, offrendo opportunità a fronte del debito e della sottomissione che, invece, sono le uniche due offerte che il sistema occidentale può mettere sul piatto.

Da quando sotto l’amministrazione Obama gli Stati Uniti hanno intensificato i loro sforzi per portare avanti quel ribilanciamento verso l’Asia-Pacifico noto come Pivot to Asia, la priorità della potenza occidentale è passata dalla lotta al terrorismo dell’era George W. Bush alla prevenzione delle sfide poste dall’emergere di nuove e vecchie potenze, Russia e Cina su tutte. Per Washington soprattutto la Belt and Road Initiative rappresenta una minaccia concreta alla leadership globale: la BRI, infatti, rappresenta una esplorazione di un nuovo e positivo modello di sviluppo e governance globale dal momento che il più grande progetto di sviluppo della Storia umana si conforma e asseconda le tendenze che spingono verso un più marcato multipolarismo basato su una cooperazione win – win del tutto estraneo al campo occidentale dominato dalla logica del somma zero dove il rapporto tra Stati è regolato secondo la visione medievale del vassallaggio. A Washington stanno diventando più consapevoli che la supremazia economica statunitense è minacciata dalla crescita cinese. È stato il Presidente Donald J. Trump a declassare la Cina da “Paese amico a Paese nemico, perché questo venga accettato, dall’opinione pubblica e dagli alleati, c’è un ovvio bisogno di una giustificazione che possa portare a condividere il loro nuovo odio per i cinesi: la ragione deve fare appello ai buoni sentimenti, alle credenze, per essere universale e nel caso della Cina abbiamo scelto naturalmente i diritti umani, un grande classico sul quale è facile coltivare l’indignazione e per il quale, con le Organizzazioni Non Governative, si è sviluppato tutto un “mestiere” ed una rete organizzata nel minimo dettaglio”.

Chi ancora nutrisse dei dubbi, può consultare il comunicato congiunto con il quale i rappresentanti dei Paesi facenti parte del G7 hanno chiuso i lavori di Carby’s Bay, Cornovaglia: “riconosciamo la particolare responsabilità dei Paesi e delle economie più grandi nel sostenere il sistema internazionale basato su regole e il diritto internazionale. Ci impegniamo a svolgere il nostro ruolo in questo, lavorando con tutti i partner e come membri del G20, delle Nazioni Unite e della più ampia comunità internazionale, e incoraggiamo gli altri a fare lo stesso. Lo faremo sulla base della nostra agenda condivisa e dei valori democratici. Per quanto riguarda la Cina e la concorrenza nell’economia globale, continueremo a consultarci sugli approcci collettivi alle politiche e alle pratiche non di mercato sfidanti che minano il funzionamento equo e trasparente dell’economia globale. Nel contesto delle nostre rispettive responsabilità nel sistema multilaterale, coopereremo laddove è nel nostro reciproco interesse su sfide globali condivise, in particolare affrontando il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità nel contesto della COP26 e di altre discussioni multilaterali. Allo stesso tempo, e così facendo, promuoveremo i nostri valori, anche invitando la Cina a rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali, in particolare in relazione allo Xinjiang e a quei diritti, libertà e alto grado di autonomia per Hong Kong sanciti dal Sino -Dichiarazione congiunta britannica e Legge fondamentale18.

Le conseguenze sembrano essere semplici da prevedere: se la politica estera occidentale non riuscisse a invogliare la Cina a partecipare al “sistema internazionale” come portatrice di interessi responsabili, è necessario assumere una posizione sempre più conflittuale per contenere la nazione emergente. La natura contraddittoria della posizione di Washington nei confronti di Pechino è diventata sempre più evidente poiché le tensioni sono intenzionalmente aumentate nel Mar Cinese Meridionale, tra i delegati statunitensi e la Cina continentale, così come a Hong Kong e Xinjiang. Questo è semplicemente l’ultimo atto di una guerra per procura molto più lunga intrapresa contro Pechino fin dalla guerra del Vietnam, con i cosiddetti Pentagon Papers resi pubblici nel 1969 che rivelano il conflitto come semplicemente una parte di una più ampia strategia volta a contenere e controllare la Cina. Mentre gli Stati Uniti alla fine perderanno la guerra del Vietnam e ogni possibilità di usare i vietnamiti come forza per procura contro Pechino, la lunga guerra contro Pechino continua altrove. Questa strategia di contenimento sarà aggiornata e dettagliata nel rapporto dello Strategic Studies Institute del 2006 String of Pearls: Meeting the Challenge of China’s Rising Power through the Asian Littoral19, dove si delineano gli sforzi della Cina per garantire la sua ancora di salvezza petrolifera dal Medio Oriente alle sue coste nel Mar Cinese Meridionale, nonché i mezzi con cui gli Stati Uniti possono mantenere l’egemonia americana in tutto l’Oceano Indiano e Pacifico.

I tempi in cui attuare tale strategia sono di corto respiro dal momento che una piena attuazione del progetto di Belt and Road Initiative, infatti, aiuterebbe il coordinamento di politiche economiche comuni promuovendo al contempo un più profondo, ampio e bilanciato sviluppo regionale con il fine ultimo di creare una cornice aperta e inclusiva in cui tutti gli Stati aderenti possano godere di benefici condivisi. In un momento in cui l’economia globale è in lenta crescita, la cooperazione prospettata dall’adesione al progetto di Nuova Via della Seta potrebbe perseguire l’obiettivo del “1+1>2” e dare slancio all’economia mondiale. In questo, la Cina ha intrapreso un percorso unico nel suo genere ma, a differenza degli Stati Uniti, non ha nessuna intenzione di esportare il proprio sistema o modello di sviluppo in altri Paesi. La Cina – scrive Wang Fen in The Future of China – US Relations: toward a New Cold War or a Restart of Strategic Cooperation? – “non vuole essere coinvolta in una nuova Guerra Fredda con gli Stati Uniti, né cercare di promuovere il suo modo di governare nel mondo. La Cina rispetta le differenti scelte di cammini di sviluppo coerenti con le condizioni nazionali. Con un atteggiamento tollerante verso le tematiche ideologiche, [Pechino] evita confronti ideologici ed afferma che le dispute di tale natura dovrebbero essere disinnescate. La Cina non ha intenzione di cadere in una competizione ideologica tit-for-tat con gli Stati Uniti. Nonostante le provocazioni ripetute da parte degli Stati Uniti, la Cina mantiene la calma ed esercita la moderazione, nella speranza che la competizione o il conflitto siano di portata limitata e che i due fronti continuino ad evitare il conflitto armato”20.

Invece, gli Stati Uniti hanno dispiegato una lunga politica di accerchiamento, contenimento e, quando possibile, destabilizzazione nei confronti di Pechino che si inserisce in una più ampia strategia di mantenimento di quella che nei report e nei paper statunitensi viene chiamata “Primato sull’Asia”; l’imperialismo statunitense ha trascorso gran parte dell’ultimo decennio intensificando gradualmente una nuova guerra fredda con la Cina, alzando sempre di più il livello dello scontro tanto che, adesso, il trattamento mediatico e politico-retorico occidentale verso Pechino è equiparabile a quello riservato all’Iran e alla Corea del Nord, due delle nazioni più malvagie per la macchina propagandistica statunitense e viste con più disprezzo dagli americani.

A ben guardare, fino a questo momento, però, tali scelte politiche si sono rivelate essere un fallimento che si inserisce nel più ampio contesto di un generale declino dell’egemonia a stelle e strisce sia in Asia, sia nell’area del Pacifico che nel mondo intero: la politica degli Stati Uniti ha portato a reti profondamente radicate che operano all’interno dei confini della Cina e lungo le periferie geopolitiche della Cina per dividere e destabilizzare l’immenso e sempre più potente Stato asiatico. Queste reti sono finanziate e supportate indipendentemente da chi occupa la Casa Bianca. Mentre la retorica si sposta da presidente a presidente riguardo al “perché” gli Stati Uniti stanno fornendo aiuti ai cosiddetti “attivisti” e “opposizione”; gli aiuti e l’agenda che servono continuano ad andare avanti nell’attuazione.

Taiwan, Tibet, Hong Kong ed adesso Xinjiang: queste sono le regioni della Repubblica Popolare Cinese interessate dall’azione di agenti destabilizzatori al soldo di una qualche entità straniera. Taiwan, Tibet, Hong Kong e Xinjiang non a caso sono le quattro regioni che, sostiene a ragione il giornalista francese Maxime Vivas, un cittadino mediamente informato sa elencare riguardo la divisione amministrativa del territorio cinese21; questo perché le regioni in questione sono quelle che i media occidentali ci invitano a guardare con attenzione e che, per tramite dell’effetto ripetizione, rimangono scolpite in testa senza sapere dove esse si situino nella geografia mondiale. L’importante è che in queste regioni succeda qualcosa che permetta ai padroni del discorso mediatico e politico di concentrare le forze per attaccare il Governo di Pechino. Se si guardano da vicino, però, questi eventi è difficile non poter affermare che la Cina viene sistematicamente minata all’interno dei suoi confini dalla politica estera statunitense. Le regioni periferiche del territorio cinese sono quelle maggiormente deputate al dispiegamento della strategia elaborata negli ambienti di Washington A leggere le dichiarazioni di Lawrence Wilkerson, capo di Gabinetto dell’ex Segretario di Stato Colin Powell, rilasciate nell’agosto del 2018 alla platea dei convenuti di un forum organizzato dall’Istituto Ron Paul per la pace e la prosperità, le misure da mettere in atto nello Xinjiang sarebbero chiare: “ci sono 20 milioni di uiguri nello Xinjiang, in Cina. Se la CIA potesse farne un buon utilizzo…se volete minare la stabilità della Cina, il modo migliore è creare disordini e incitare gli uiguri a distruggere la Cina dall’interno22”. Non è dunque un caso che l’Occidente a guida statunitense abbia ripreso con vigore ad agitare la carta dello Xinjiang per rapportarsi a Pechino: d’altronde, “creare disordini nello Xinjiang e frenare lo sviluppo della Cina è stato a lungo un obiettivo pianificato dagli Stati Uniti. Tre anni fa, (lo stesso) Lawrence Wilkerson non ha nascosto che lo scopo degli Stati Uniti che hanno lanciato la guerra in Afghanistan nel 2001 non era combattere i talebani o aiutare la ricostruzione nazionale dell’Afghanistan, ma preparare un nuovo sviluppo dell’Asia centrale ed esercitare una pressione militare su Cina e Pakistan. Lawrence Wilkerson ha anche sottolineato che “la regione cinese dello Xinjiang è sempre stata un’area di grande interesse per gli Stati Uniti. Dopo essersi schierati in Afghanistan, gli Stati Uniti erano liberi di fomentare disordini nello Xinjiang, ma anche di esercitare pressioni sulla strategia cinese Belt and Road23, le cui infrastrutture che attraversano l’Asia centrale fino a giungere in Medio Oriente ed in Europa hanno la loro origine proprio nello Xinjiang. Siamo, quindi, di fronte a uno degli hubfondamentaliper lo sviluppo e la piena realizzazione dell’intera BRI il cui successo è strettamente collegato alla stabilità interna della regione autonoma.

Qualche nozione per comprendere meglio il quadro di riferimento: il Governo cinese ha inaugurato un percorso ferroviario per unire Xian all’Europa facendo tappa a Urumqi e Horgos, non distante dal Kazakhstan; per di più, lo Xinjiang è tagliato da tre importanti corridoi economici il New Eurasian Land Bridge Economic Corridor, che connette le regioni costiere cinesi orientali ai mercati dell’Europa settentrionale; il China-Central West Asia Economic Corridor, che parte da Urumqi, tocca il Medio Oriente e fa tappa nel porto del Pireo in Grecia dove il gruppo China Ocean Shipping Company (COSCO) ha deciso di investire 200 milioni di euro in tre nuovi progetti infrastrutturali e nella costruzione di un quarto terminal container24; e il China-Pakistan Economic Corridor, collegamento tra la cinese Kashgar e il Mar Arabico. La regione autonoma dello Xinjiang, dunque, è la porta della Cina verso l’Asia meridionale, l’Asia centrale, il Medio Oriente, la Russia e l’Europa orientale e occidentale. Gli strateghi americani apprezzano la posizione strategica dello Xinjiang come punto cardine dell’Asia e sono consapevoli che il successo internazionale della Repubblica Popolare Cinese passa anche – se non soprattutto – dalla riuscita della Nuova Via della Seta.

Da non dimenticare il fatto che questa regione è ricca sia di petrolio (21 miliardi di tonnellate25) che di giacimenti di carbone (40% delle intere riserve cinesi) ed è una regione immensamente provvista, tanto da registrare un notevole sviluppo economico tra quando la Cina ha stabilito la regione negli anni ’50 e oggi. Da qui, l’incessante campagna di propaganda negativa sulla gestione cinese della regione dello Xinjiang che nasce dalla paura di Washington di trovarsi a fronteggiare una Cina in ascesa e si inserisce in un più ampio piano strategico volto a destabilizzare una regione che è la chiave per i progetti di Pechino: “Non c’è vera simpatia, non c’è vera preoccupazione. C’è solo odio che viene vomitato da questa narrativa” è arrivato a sostenere a chiare lettere Robert Vannrox nel corso di una video-intervista rilasciata a CGTN26 durante la quale viene affermato anche che “più investimenti cinesi si riversano nello Xinjiang, più forte diventa la propaganda anti-cinese. L’Occidente sta facendo tutto ciò che è in suo potere per erigere barriere tra i residenti dello Xinjiang e il Governo cinese. Sembra che i media occidentali vogliano che la Cina combatta i musulmani. Non vogliono che la Cina li aiuti ed integri la società cinese e la società musulmana. L’Occidente non vuole l’integrazione, vuole vedere stagnazione, conflitto, tumulto e collasso per i propri scopi”.La mappa della connettività terrestre della BRI suggerisce come essa riunisca essenzialmente Cina, Russia e Iran, tre Paesi che sono stati oggetto di campagne diffamatorie occidentali e americane mentre resistono all’ordine mondiale egemonico guidato dagli Stati Uniti: “la BRI unifica l’Asia. Ed è vero. Russia, Cina e Iran sono unificati come un unico blocco centrale. È un’Asia unificata e potente”. Un’idea che mette in serio pericolo l’egemonia imperialista statunitense che, per questo motivo, sta mettendo in campo un arco di contenimento contro la Cina: “per raggiungere questo obiettivo, gli Stati Uniti (insieme ai loro alleati) vogliono isolare altre potenziali potenze, essendo la Cina il principale avversario. Una volta isolati e soli, si possono attaccare a tutto spettro, che si utilizzino le ONG o le rivoluzioni colorate, o una guerra calda completa attraverso l’intervento militare. L’idea è tutta divide et impera. La Cina, però, non è più isolata. Non è più sola. Non è più in balia delle potenze navali occidentali. Ora è fisicamente unificata con i centri abitati di Russia e Iran e le rotte commerciali versola prospera Europa sono chiare e sgombre. È una situazione potente, forte e positiva [per la Cina]”.

Ed è qui che la posizione strategica dello Xinjiang come gateway della BRI diventa il punto focale della strategia americana:“guarda dov’è lo Xinjiang in Cina e dai un’occhiata alla mappa. E se tu fossi una persona che desidera isolare e dominare la Cina, non faresti tutto ciò che è in tuo potere per bloccare l’ingresso alla BRI? Questa regione, particolarmente importante per la Cina in quanto ospita significative riserve di idrocarburi e ospita infrastrutture nucleari vitali, è posizionata nel cuore dell’Asia centrale, un territorio particolarmente vulnerabile alle influenze straniere e alle minacce terroristiche provenienti dai Paesi vicini, che sono stati tutti oggetto di disordini causati da movimenti islamici radicali. L’attuale campagna contro la Cina per quanto riguarda la sua gestione della regione dello Xinjiang mette in piena evidenza la dimensione geopolitica di questo movimento a favore della popolazione uigura, guidato dagli Stati Uniti con il sostegno dei suoi alleati. Lo Xinjiang è quindi uno strumento conveniente per la strategia dell’amministrazione statunitense di indebolimento e contenimento della potenza cinese.

Gli Stati Uniti, ovviamente, sanno che il successo internazionale della Cina passa anche dalla Nuova Via della Seta e il successo della loro strategia dall’impedire che questa si dispieghi in modo pratico. E così assistiamo a una guerra dell’informazione all’interno della (nuova) guerra fredda”. Intanto, hic et nunc, la propaganda sta aprendo la strada a nuove frizioni, attriti e scontri più o meno manifesti. Nel momento in cui il Governo di Washington identifica in modo esplicito e aperto Pechino come principale competitor a livello internazionale e rivale strategico, gli Stati Uniti utilizzeranno tutti gli strumenti politici disponibili per attaccare la potenza asiatica su tutti i fronti possibili per minarne le forze politiche, economiche, militari e diplomatiche e di immagine. Per molti decenni, gli Stati Uniti hanno segretamente cercato di interrompere la stabilità economica e politica interna alla Cina puntando su questioni ben note anche al grande pubblico: Tibet, Hong Kong, Taiwan, isole del Mar Cinese Meridionale, mentre adesso sono le accuse sulla violazione dei diritti umani nello Xinjiang a tenere banco; questioni, quelle appena enunciate, che nulla hanno a che fare con la democrazia, i diritti umani, la sicurezza, la giustizia o la moralità, come l’Occidente ha spesso affermato, ma sono tutte armi politiche utilizzate per attaccare Pechino. Nel mese di febbraio, il Segretario di Stato statunitense Anthony Blinken in un colloquio telefonico intercorso con Yang Jiechi, uno dei maggiori diplomatici cinesi ed esperti di affari americani, ha affermato che gli Stati Uniti continueranno a battersi per i diritti umani e i valori democratici non solo nello Xinjiang, ma anche in Tibet ed Hong Kong, tre fronti ancora caldi che impegnano la Cina nella difesa della propria sovranità nazionale27; Yang Jiechi ha, inoltre, dichiarato di sperare che le relazioni tra i due Paesi possano tornare su una pista prevedibile e costruttiva, ma, al contempo, ha invitato gli Stati Uniti a smetterla di interferire su questioni afferenti la sfera della sovranità cinese; sovranità che viene sempre più minacciata da pesanti ingerenze straniere negli affari interni alla Cina, come la recente tentata “rivoluzione” ad Hong Kong che ha seguito un modello molto familiare di regime change e destabilizzazione progettati dagli Stati Uniti28 e come l’ultimo il disegno di legge (H.R. 694829) presentato il 19 maggio del 2020 alla Camera dei Rappresentanti – e deferito alla Commissione Affari Esteri – dal membro del Congresso degli Stati Uniti Scott Perry che promuove la separazione del Tibet dalla Cina con cui si intenderebbe “autorizzare il Presidente a riconoscere la Regione Autonoma del Tibet della Repubblica Popolare Cinese come Paese separato, indipendente e per altri scopi, poiché è politica degli Stati Uniti che tutte le rivendicazioni territoriali della Repubblica popolare cinese sulla regione autonoma del Tibet siano invalide e prive di merito”. Quali siano questi altri scopi è tutto da supporre ma ciò non toglie che questo disegno di legge rischia di gettare ulteriore benzina sul fuoco nei rapporti tra Washington e Pechino; e non toglie che ci troviamo davanti ad un atto formale che Kim Petersen ha definito “farsesco per gli americani spingere per la presunta liberazione delle terre per altri popoli. Perché? Perché se un gruppo di persone ha diritto allo status di Paese in un territorio delimitato, lo stesso principio deve valere per tutti i popoli in circostanze simili. Gli Stati Uniti dovrebbero riconoscere lo Stato palestinese nella Palestina storica. Lo stesso vale per i curdi, i kashmiri, i baschi in Francia e Spagna, i catalani in Spagna, eccetera. La liberazione nazionale non può essere seriamente considerata solo un principio di scelta tra i popoli che cercano la liberazione in una patria. Peggio ancora, non solo è farsesco, ma è ipocrita per gli americani. Se gli americani (e cerchiamo di essere specifici di certi americani perché qui stiamo discutendo principalmente di americani derivati da migranti europei) devono essere considerati seri e sinceri nel sostenere la liberazione dei popoli altrove, allora si dovrebbero prima guardare nel proprio cortile prima di chiedere una revisione del cortile di un vicino. Per esprimere fedeltà alla R.A. 6948, gli Stati Uniti avrebbero dovuto restituire Porto Rico ai portoricani, Guam ai Chamorros, l’arcipelago Chagos ai Chagossiani (sì, la Gran Bretagna rivendica, ma i Chagossiani furono espulsi su richiesta dell’esercito americano), e altri. Il fatto è che l’intera massa terrestre degli Stati Uniti è una massa di terra rubata ai popoli originali. L’occupazione continua ancora oggi. […] Supponiamo ora quale sarebbe la reazione americana se il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo promuovesse una legge in base alla quale il Governo cinese riconoscesse lo Stato colonizzato delle Hawai’i come un Paese separato e indipendente e per altri scopi”30.

Una strategia, quella dell’ingerenza negli affari interni di un Paese sovrano e del contenimento dello stesso attuata da Washington che potrebbe essere destinata ad un totale fallimento: “oggettivamente parlando” – così si legge in un editoriale del Global Times “la strategia degli Stati Uniti di contenere la Cina ha mostrato la sua tendenza verso un grave fallimento. È ovvio per il mondo che lo sviluppo della Cina è inarrestabile. È un pio desiderio che gli Stati Uniti cerchino di legare i loro alleati per opporsi alla Cina. I Paesi europei hanno chiarito che non desiderano seguire ciecamente Washington nella lotta contro Pechino perché ciò non è in linea con i loro interessi fondamentali. Lo stesso vale per la maggior parte dei Paesi dell’Asia-Pacifico. Se l’Amministrazione Biden vuole davvero gestire bene gli affari interni degli Stati Uniti, forse la sua unica opzione è ridurre l’attuale tensione tra Cina e Stati Uniti e alleviare i conflitti tra i due Paesi. In caso contrario, l’Amministrazione Biden potrebbe ritrovarsi a cadere nelle buche scavate da Donald Trump e Mike Pompeo durante la loro frenesia finale”31.

Questa sembra la via scelta dall’Amministrazione democratica: nel mese di marzo 2021, 27,4 miliardi di dollari sono stati richiesti dal Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti per la realizzazione di una rete missilistica anti-Cina che correrebbe lungo le isole chiave al confine con la Cina come Okinawa, Taiwan e le Filippine. Il 12 marzo il Presidente Biden ha partecipato al vertice del Quadrilateral Security Dialogue (Quad), un’alleanza in chiave anti-cinese cui partecipano Giappone, India e Australia; un’alleanza che ha avuto nuova vita sotto l’Amministrazione Trump dopo oltre un decennio di inattività ed il fatto che Biden abbia scelto il meeting del Quad come suo primo vertice è un messaggio di minaccia verso Pechino e di volontà di impegnarsi nel contenimento della potenza asiatica anche con il pretesto di rafforzare le alleanze e affrontare preoccupazioni “umanitarie”. La mescolanza dell’umanitarismo con l’atto di guerra stesso trasuda dell’eccezionalismo statunitense: si presume che l’impero degli Stati Uniti sia l’apice della civiltà in possesso di una profonda capacità di realizzare l’illuminazione anche attraverso i metodi più violenti, laddove non c’è nulla nei precedenti dell’impero, passato o presente, che possa suscitare il controllo delle sue ambizioni umanitarie. L’egemonia di Washington non è né desiderata né contrastata, è così, non accetta discussioni a riguardo; però, “dietro l’illusione della forza si trova un fondamento di decadimento sistemico. L’interventismo umanitario non solo ribattezza i crimini di guerra come operazioni per i diritti umani, ma cancella anche le vere motivazioni dietro di essi. Gli Stati Uniti si sono abituati a perseguire guerre umanitarie nei momenti in cui i suoi interessi sono minacciati. Obama ha intensificato il sostegno degli Stati Uniti alle figure dell’opposizione violenta di destra e alle sanzioni contro il Venezuela nel 2014, quando è diventato chiaro che la morte di Hugo Chavez non avrebbe segnato la fine della rivoluzione bolivariana. Per quel che riguarda la Cina, essa ha contenuto la pandemia di COVID-19 ed è l’unica grande economia che registra una crescita positiva in mezzo a una depressione globale. Inoltre, l’instabilità che un tempo devastava la Regione autonoma cinese dello Xinjiang ha cessato di esistere grazie agli sforzi del Governo per frenare il terrorismo e alleviare la povertà. La stabilità e la crescita hanno permesso alla Cina di portare avanti i suoi piani per sviluppare una massiccia rete commerciale globale finanziata pubblicamente attraverso la Belt and Road Initiative. Gli appelli all’interventismo umanitario sono diventati più forti mentre il declino degli Stati Uniti continua a correre parallelamente all’ascesa della Cina sulla scena mondiale. Se la Nuova Guerra Fredda si trasformerà in una guerra calda non sarà determinato dalla moderazione degli Stati Uniti nel regno della politica. La storia ha dimostrato che nel caso degli Stati Uniti l’impero è costruito per distruggere. Piuttosto, la questione della guerra e della pace sarà determinata da quanta opposizione di base può essere sviluppata contro le false narrazioni umanitarie che guidano la brama di interventismo statunitense nel 21° secolo”.

Il giornalista Shane Quinn – dopo aver identificato nella uscita della Cina nell’ottobre 1949 dalla sfera del controllo statunitense il colpo più pesante per l’egemonia globale americana del secondo dopoguerra – ricorda al lettore come nel settembre 1948, il lungimirante diplomatico americano George Kennan osservò che “ci sono considerevoli limitazioni su ciò che possiamo fare per influenzare il corso degli eventi in Cina”. Nel corso dei sette decenni trascorsi da allora, la scala dell’influenza americana negli affari interni della Cina è stata limitata nella migliore delle ipotesi, ma continua comunque a ritmo sostenuto. Washington ha attuato una serie di politiche nella speranza di destabilizzare e frammentare la Cina. Le strategie del Pentagono nei confronti della Cina hanno in qualche modo rispecchiato quelle che hanno diretto contro l’URSS: utilizzo di gruppi per procura, estremisti e minoranze etniche, insieme a Stati clienti32.

Questo ci spinge un passo avanti nel nostro focus.

NOTE AL TESTO

1Kenneth N. Waltz citato in John Gerard Ruggie, Human rigths and the Future International Community in Daedalus, vol. 112, num. 4, p. 96.

2Andrew J. Nathan, Human Rights in Chinese Foreign Policy in The China Quarterly, num. 139, p. 632.

3Chang Jian, Washington must first put its house in order contenuto in Hegemony drives Washington’s human rights campaign, Hegemony drives Washington’s human rights campaign – Opinion – Chinadaily.com.cn

4Li Yunlong, US has no right to lecture others on human rights contenuto in Hegemony drives Washington’s human rights campaign, Hegemony drives Washington’s human rights campaign – Opinion – Chinadaily.com.cn

5Hedley Bull, The anarchical society. A study of order in world politics, Columbia University Press, 1977, pp. 146 – 147.

6 Questa breve digressione del discorso tornerà utile nella lettura degli articoli successivi del focus.

7 Kathryn Sikkink, Transnational Politics, International Relations Theory, and Human Rights in PS: Political Science and Politics, Sep., 1998, Vol. 31, No. 3 (Sep., 1998), p. 520.

8 Rana Siu Inboden e Titus C. Chen, China’s Response to International normative pressure: the case of human rights in International Spectator, 2012,vol. 47, num. 2, p. 48.

9 Makau Mutua, Savages, Victims, and Saviors: The Metaphor of Human Rights, “Harvard International Law Journal”, num. 201 (2001), p. 203.

10Ibidem, p. 207.

11Ibidem, p. 221.

12 Un sondaggio Gallup ha rivelato che l’80% dell’opinione pubblica statunitense possiede un’opinione negativa della Cina; solo l’Iran e la Repubblica Democratica Popolare di Corea, due delle nazioni più malvagie della macchina propagandistica statunitense, sono visti con più disprezzo tra gli americani. US public turns against China in worst poll savaging since last year’s record, “South China Morning Post “(scmp.com).

13 Per le recenti vicende di Hong Kong rimandiamo al focus del Centro Studi Eurasia e Mediterraneo:

Hong Kong, il “porto profumato” della Repubblica Popolare Cinese, Centro Studi Eurasia e Mediterraneo (cese-m.eu)

e alla pubblicazione HONG KONG. Il “Porto Profumato” della RPC tra storia, economia e ingerenze straniere – Centro Studi Eurasia e Mediterraneo (cese-m.eu).

14 Maria Morigi, Xinjiang “nuova frontiera” tra antiche e nuove vie della seta, Anteo Edizioni, Manocalzati (AV), 2019, pp. 183 – 184. Nella loro azione, Washington e l’ONU si muovono su dati suffragati da agenzie apparentemente imparziali ed indipendenti. Sull’argomento e sul terrorismo nello Xinjiang torneremo nei prossimi articoli.

15 Xinjiang: X la strategia americana del kaos, (marx21.it).

16 Décortiquer la campagne de propagande du gouvernement des Etats-Unis sur le prétendu ‘génocide des Ouïgours’, Dan COHEN, (legrandsoir.info).

17 Independent’ report claiming Uyghur genocide brought to you by sham university, neocon ideologues lobbying to ‘punish’ China, “The Grayzone”.

18Carbis-bay-g7-summit-communique.pdf (europa.eu), p. 19.

19a451318.pdf (dtic.mil)

20 Wang Fan, The Future of China-US Relations: Toward a New Cold War or a Restart of Strategic Cooperation? in China International Studies, vol. 87, n.1, p. 108.

21 Maxime Vivas, Ouighours, pour en finir avec les fake news, La Route de la Soie Editions, 2020, p. 43.

22 Créer des troubles au Xinjiang, un projet déjà ancien des États-Unis, (reseauinternational.net).

23 Ibidem.

24 Informazioni Marittime: Cosco incrementa gli investimenti nel Pireo.

25 Nell’aprile del 2020 è stata data la notizia della scoperta di un campo petrolifero da 100 milioni di tonnellate di greggio: “La Cina ha scoperto un giacimento petrolifero nel bacino del Tarim, nella regione autonoma dello Xinjiang Uyghur (Cina nordoccidentale), che dovrebbe contenere oltre 100 milioni di tonnellate di greggio. Secondo i test, il pozzo Mantan 1, situato nel bacino del Tarim dello Xinjiang e sviluppato dalla controllata Tarim Oil Field della China National Petroleum Corp, contiene sacche di petrolio e gas di 54 metri che potrebbero produrre 624 metri cubi di greggio ciascuna giorno e 371.000 metri cubi di gas naturale”. La Chine découvre un champ pétrolier de 100 millions de tonnes dans le Xinjiang (peopledaily.com.cn).

26 Is the West’s Xinjiang campaign driven by U.S. plans to derail BRI?, CGTN.

27 Blinken presses China on Xinjiang, Hong Kong in call with Beijing’s top diplomat, “Reuters”.

28 Per i recenti fatti relativi alla HKSAR rimandiamo al focus “Hong Kong, il porto profumato della Repubblica Popolare Cinese” – Centro Studi Eurasia e Mediterraneo (cese-m.eu) e al libro HONG KONG di Anteo Edizioni.

29 Text – H.R.6948 – 116th Congress (2019-2020): Free Tibet Act of 2020, Congress.gov, Library of Congress.

30 What if China Promoted Hawaiian Independence?, “Dissident Voice”.

31 Biden administration should bring the US’ China policy back down to pragmatic ground,“Global Times.

32 New Cold War is Built on Humanitarian Interventionist Lies & Dismissal of Actual War Crimes, “Covert Geopolitics”.

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