Un’ondata di proteste contro il Dalai Lama

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Il Tibetan National Congress ha iniziato una raccolta firme da presentare al sindaco di Roma Ignazio Marino per evitare che le possibili proteste degli shugdenpa al Summit dei Premi Nobel per la Pace siano tenute a debita distanza dal Dalai Lama per “motivi di sicurezza”, nonostante le contestazioni siano state sempre pacifiche.

 Il 2014 è stato un anno di grandi proteste contro il Dalai Lama. Ovunque è andato nei suoi tour occidentali ha ricevuto ampie contestazioni da laici e monaci buddhisti, che al grido di “False Dalai Lama” e “Dalai Lama, stop lying” hanno tentato di far sentire la propria voce al famoso leader tibetano.

Non sarà stato piacevole per molti occidentali andati a sentire le sue conferenze che – nella loro ingenuità – pensavano che il Dalai Lama fosse un maestro stimato e benvoluto da tutti i praticanti buddhisti, e probabilmente si aspettavano un’atmosfera fatta esclusivamente di sacralità, incensi e ruote di preghiera. Per alcuni è stata davvero una scoperta, quando non un vero shock, assistere a questo spettacolo fuori dal comune. Otto i teatri di queste proteste: dagli Usa all’Olanda; dall’Italia alla Norvegia. Mentre a Livorno i media italiani hanno sostanzialmente trascurato il fenomeno, diverso è il caso delle ultime manifestazioni, in Germania e in Canada. Il fenomeno è giunto nei media internazionali, suscitando ampie polemiche i cui echi sono arrivati al cuore del Governo Tibetano in Esilio.

A organizzare le manifestazioni è l’International Shugden Society, un’organizzazione legata alla New Kadampa Tradition. Il loro obiettivo è ottenere dal Dalai Lama – Premio Nobel per la Pace – quella libertà religiosa che nelle comunità tibetane in esilio gli è stata negata. La storia è molto complessa e richiederebbe altri approfondimenti, ma per riassumere possiamo dire che il Dalai Lama, diversi anni fa, ha vietato il culto di uno dei principali Protettori della scuola Gelug, chiamato Dorje Shugden. La sadhana di questo Protettore è una delle principali pratiche del suo lignaggio fin dai tempi del quinto Dalai Lama, ma Tenzin Gyatso di punto in bianco, dopo averlo praticato per anni, lo proclamò come un’entità demoniaca il cui scopo è quello di distruggere la vita del Dalai Lama e la causa del Tibet. Questo ha provocato, oltre che confusione e disorientamento, una dolorosa scissione nel lignaggio Gelug, dato che un circolo non ristretto di maestri gelugpa ha preferito la pratica di Dorje Shugden al proprio legame col Dalai Lama.

Il fatto che la decisione del Dalai Lama sia o meno legittima è fonte di controversia, però molti critici ritengono strano – se Shugden fosse davvero un demone – che il Dalai Lama se ne sia accorto solo decenni dopo averlo praticato e non prima. E’ stato negli anni ’70, quando il Dalai Lama era sulla quarantina, che Tenzin Gytso cominciò a sconsigliare questa pratica. Ciononostante, la maggior parte dei Lama gelugpa continuava a praticarla in segreto, fino al divieto definitivo del 1996. Dopo di ché l’aut-aut: chi ha continuato a praticare Shugden è stato espulso dai monasteri. In un certo senso, queste persone sono state “esiliate” dalla comunità tibetana in esilio. Il dolore creato da questa controversia in alcuni monaci è stato tale che, come mostra il documentario mandato in onda sul canale televisivo svizzero SF1 il 5 Gennaio del ’98, alcuni di essi hanno confessato in lacrime di aver desiderato morire prima del divieto. In questo documentario, chiamato “Dalai Lama and Dorje Shugden” e liberamente consultabile su YouTube, vengono mostrate in maniera chiara le discriminazioni portate avanti dalla comunità tibetana in esilio contro i seguaci di Shugden. Ciò basta a dimostrare che queste discriminazioni non sono invenzioni del Governo Cinese in combutta con le organizzazioni shugdenpa, come affermano i rappresentanti del Governo Tibetano in Esilio.

Recentemente persino il prof. Robert Barnett – direttore del programma di studi sul Tibet moderno alla Columbia University – ha riconosciuto l’esistenza di discriminazioni e persecuzioni nella comunità tibetana fatte contro i praticanti di Dorje Shugden, e questa cosa è particolarmente curiosa se si prende in considerazione che fino a venti anni fa Shugden era praticato da tutti i maestri Gelugpa più famosi, da Trijiang Rinpoche (il tutore del Dalai Lama) a Lama Yeshe.

I tibetani in esilio sono ben consapevoli che queste proteste danneggiano l’immagine dei tibetani e del Dalai Lama, considerato che quest’ultimo punta gran parte della propria attività mediatica sul dialogo interreligioso e sulla pace nel mondo. Com’è possibile che il Dalai Lama possa parlare di dialogo tra le religioni se non ha mai accettato di dialogare con i membri della sua stessa scuola? Questo è il tipo di quesiti che l’ISC tenta di portare innanzi all’opinione pubblica. Le organizzazioni fedeli al Dalai Lama, d’altra parte, stanno prendendo delle contromisure per attenuare la brutta figura causata da queste proteste: il 17 Marzo il Parlamento Tibetano in esilio ha emesso una risoluzione che definisce i seguaci di Shugden “criminali nella storia” (ricordiamo che anche i maestri del Dalai Lama praticavano Shugden); hanno pubblicato nel loro sito diverse dichiarazioni di fuoriusciti della New Kadampa Tradition per screditare la loro attività; diverse organizzazioni gelugpa occidentali hanno espresso pubblicamente la propria solidarietà al Dalai Lama e alle sue scelte; per di più, il GTE ha pubblicato una lista di nomi e foto dei tibetani che hanno partecipato alla protesta (in alcuni casi specificando anche la loro residenza), mettendo gravemente a rischio la sicurezza di queste persone.

Tra queste azioni volte a proteggere il Dalai Lama, particolarmente interessanti sono quelle intraprese da Robert Thurman, il famoso professore americano di studi indo-buddhisti e presidente della Tibet House. L’11 Marzo ha fatto pubblicare sull’Huffington Post un articolo di dura critica contro i manifestanti (che lui definisce non-buddhisti), sostenendo la falsità delle loro tesi e affermando che è davvero «tragico» che a questi gli sia «impedito di imparare su se stessi e sulla vita dal più grande maestro mondiale in questa era, Sua Santità il Dalai Lama». A ogni modo, già nel 2006 Thurman venne severamente criticato per la sua settaria faziosità a favore del Dalai Lama, e questa volta dal secondo maestro più importante nella gerarchia del lignaggio Karma Kagyu, Shamar Rinpoche, che in una lettera aperta consigliò a Thurman di non mischiare il fatto di essere un professore di Buddhismo Tibetano, un buddhista e un attivista politico. «Per esempio, le tue campagne per il Tibet non dovrebbero essere mischiate al tuo lavoro come professore di Buddhismo Tibetano. La mia personale richiesta è di non essere settario nella tua professione, e per favore di essere uno studioso onesto. Non vedo alcun beneficio per gli Stati Uniti nel partecipare e diffondere il settarismo. Essere buddhista è abbastanza».

Al momento, secondo il sito arebuddhistracist.com, l’attività di Robert Thurman è attualmente sotto indagine federale con l’ipotesi di induzione in cyber crimine. E’ stato causa di scandalo, infatti, che in connessione alle proteste contro il Dalai Lama nel mese di Ottobre, Robert Thurman abbia pubblicamente e senza mezzi termini incitato il famoso gruppo di hacker “Anonymus” ad agire contro alcuni account twitter coinvolti nelle proteste per acquisire informazioni sulla loro identità. Al gruppo Anonymus sono stati persino offerti da un utente più di 16mila dollari, ma il gruppo ha risposto di non avere alcuna posizione su questa faccenda.

Le azioni del Dalai Lama, giuste o sbagliate che siano, hanno causato e continuano a causare controversie e disarmonie nella comunità buddhista, e questo è sicuramente un problema di non poco conto. Intanto le tensioni continuano: il Tibetan National Congress ha cominciato una raccolta firme da presentare al sindaco di Roma Ignazio Marino per evitare che le possibili proteste degli shugdenpa al Summit dei Premi Nobel per la Pace siano tenute a debita distanza dal Dalai Lama per “motivi di sicurezza”, nonostante siano state sempre pacifiche.

 

 di Marco Scarinci

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