Israele, Iran e la Cina: triangolo strategico in un mondo frammentato

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di Veronica Vuotto

Lo scontro tra Israele e Iran ha superato da mesi la soglia della guerra per procura, evolvendosi in un conflitto a bassa intensità ma sempre più diretto. Missili, droni, sabotaggi, attacchi a infrastrutture strategiche e operazioni di intelligence stanno ridefinendo la geopolitica del Medio Oriente. Ma dietro le quinte di questo confronto si muove un attore esterno sempre più centrale: la Cina.

Il paradosso iraniano: sviluppo scientifico e crisi interna

Il declino della forza iraniana non si misura solo nei suoi indicatori economici, già gravemente compromessi da anni di sanzioni. A rendere particolarmente fragile la Repubblica Islamica è il divario crescente tra un’élite religiosa al potere e una società civile giovane, colta e secolarizzata. Come hanno osservato commentatori cinesi in forum come Zhihu, l’Iran ha spinto fortemente sull’educazione superiore, soprattutto in ambito tecnico-scientifico (STEM), formando una classe critica e tecnicamente competente, ma sempre più distante dal potere teocratico.

Questo ha prodotto un paradosso strutturale: per resistere alla pressione esterna, il regime ha investito nella modernizzazione; ma questa modernizzazione ha finito per erodere le basi ideologiche e di legittimità dello stesso sistema. L’uso esteso dei social media, nonostante le censure, ha ulteriormente accelerato la disaffezione popolare verso il regime, soprattutto tra donne e giovani.

Israele: logorare, non solo contenere

Israele ha colto e sfruttato appieno questa fragilità. Negli ultimi due anni ha intensificato un’aggressiva campagna militare, diretta sia contro obiettivi esterni (Hezbollah, milizie in Siria e Iraq) sia interni (attacchi a basi e impianti in territorio iraniano, compresi quelli nucleari). Episodi come l’attacco al consolato iraniano a Damasco (aprile 2024) o i raid vicino a Isfahan sono segnali chiari: Tel Aviv mira a erodere le capacità strategiche dell’Iran, ma anche a testarne i limiti di risposta.

Questa strategia, come osservato anche da fonti cinesi, si inserisce in un piano più ampio, di tipo “libico/siriano”: indebolire economicamente e politicamente l’Iran per spingerlo al collasso interno, sfruttandone la crescente distanza tra società e regime.

Pechino: parole forti, mani legate

In questo contesto, la Cina ha preso una posizione sorprendentemente netta, almeno a livello retorico. Il presidente Xi Jinping ha dichiarato che “se il Medio Oriente è instabile, il mondo non avrà pace”, invitando Israele a cessare immediatamente il fuoco e condannando apertamente le violazioni della sovranità iraniana.

Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha definito gli attacchi israeliani “inaccettabili” e ha riaffermato il sostegno alla sicurezza dell’Iran. Tuttavia, oltre le dichiarazioni, Pechino ha mantenuto la linea tradizionale della “non interferenza”, evitando qualsiasi supporto militare concreto (come sistemi antiaerei o jet da combattimento) che Teheran invece richiederebbe con urgenza.

Come sottolineano analisti cinesi e occidentali, il sostegno cinese resta “verbale ma non materiale” (William Figueroa, Università di Groningen). Pechino non vuole essere trascinata in un conflitto regionale che rischia di compromettere i suoi interessi energetici e le relazioni con partner arabi, Israele incluso.

Nonostante l’assenza di forniture ufficiali, secondo il Wall Street Journal Pechino avrebbe facilitato indirettamente forniture di componenti per missili a Teheran, tramite aziende di Hong Kong. Questo tipo di cooperazione opaca evidenzia il confine sottile tra retorica non interventista e interessi strategici concreti.

Un equilibrio fragile tra retorica e realismo

Nonostante le affinità diplomatiche e il patto di cooperazione strategica firmato nel 2021, l’Iran non è un alleato strutturale della Cina, ma piuttosto un partner tattico. Teheran è membro della SCO (dal 2023) e dei BRICS (dal 2024), ma ha mantenuto nel tempo un’ambiguità strategica, coltivando anche aperture verso l’Occidente. Questo ha reso difficile per Pechino fidarsi pienamente della sua traiettoria geopolitica.

D’altro canto, Israele è il secondo partner commerciale della Cina in Medio Oriente e dal 2017 i due Paesi hanno un “partenariato innovativo globale” in ambito tecnologico. Tuttavia, le relazioni si sono raffreddate dopo la guerra con Hamas nell’ottobre 2023, complici anche i toni pro-palestinesi adottati da Pechino e le critiche pubbliche rivolte a Tel Aviv.

I due Paesi hanno sperimentato anche meccanismi di pagamento alternativi al dollaro – tra cui lo yuan e scambi basati su oro – nel tentativo di sottrarsi all’egemonia finanziaria statunitense.

Cina e Palestina: retorica rivoluzionaria, diplomazia prudente

Accanto al rapporto complesso con Israele, la posizione cinese sulla questione israelo-palestinese affonda le sue radici in una lunga storia di solidarietà rivoluzionaria. La Repubblica Popolare Cinese fu tra i primi Stati a riconoscere ufficialmente la Palestina (1988), ma già dagli anni ’60 sosteneva attivamente l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), fornendo aiuti economici, militari e sostegno ideologico. Durante l’era maoista, la lotta palestinese veniva interpretata come parte integrante della battaglia globale contro l’imperialismo occidentale, in parallelo alla questione di Taiwan.

Con la fine della Rivoluzione Culturale e l’apertura economica avviata da Deng Xiaoping, l’approccio cinese si fece più pragmatico. Se da un lato la Cina mantenne formalmente il proprio appoggio alla causa palestinese, dall’altro sviluppò relazioni economiche sempre più strette con Israele, culminate nel partenariato tecnologico del 2017 e negli investimenti infrastrutturali, come la gestione del porto di Haifa.

Questa ambiguità ha prodotto una politica di equilibrio instabile: supporto diplomatico alla Palestina, ma senza misure concrete di pressione su Israele. Anche durante le guerre di Gaza, Pechino ha emesso dichiarazioni di principio evitando però qualsiasi condanna diretta.

Dopo il 7 ottobre 2023, la Cina ha rifiutato di definire Hamas un gruppo terroristico, ha chiesto il cessate il fuoco e ribadito la necessità della soluzione a due Stati. Al tempo stesso, ha ospitato nel luglio 2024 la firma della “Dichiarazione di Pechino per l’Unità Nazionale” tra 14 fazioni palestinesi, tra cui Hamas e Fatah, in un tentativo simbolico di mediazione. L’ambasciatore cinese Ma Xinmin, parlando all’ICJ, ha difeso il diritto alla resistenza armata del popolo palestinese, definendolo legittimo sul piano del diritto internazionale.

Tuttavia, Pechino ha evitato di aderire al movimento BDS, di impiegare il termine “genocidio” per Gaza o di assumere una linea sanzionatoria contro Israele. Anche il porto di Haifa è stato coinvolto nelle tensioni: la compagnia cinese SIPG ha sospeso le attività per motivi di sicurezza.

La diplomazia popolare cinese ha invece espresso un sostegno molto più netto alla Palestina, soprattutto tra i giovani, che vedono nei palestinesi una continuità con la memoria dell’occupazione giapponese della Cina. Sui social cinesi, i combattenti paracadutati sono stati soprannominati “guerrieri dente di leone”, simbolo di resistenza e resilienza.

In definitiva, la Cina si presenta come “amico di tutti, garante di nessuno”. La sua politica medio-orientale è guidata da un compromesso sempre più difficile tra la memoria anti-coloniale maoista e gli interessi economici globali.

Il rischio energetico come vera “linea rossa”

Il vero punto sensibile per la Cina resta la stabilità delle forniture energetiche. Circa il 40% del suo petrolio arriva dal Golfo Persico, e un eventuale blocco dello Stretto di Hormuz (ipotesi già ventilata da parlamentari iraniani) costituirebbe una minaccia sistemica. Un’escalation che coinvolgesse gli Stati Uniti rischierebbe di compromettere la sicurezza energetica cinese e aggravare la già delicata situazione economica interna.

Pechino ha cercato di diversificare le sue rotte attraverso corridoi terrestri come il China–Pakistan Economic Corridor e la ferrovia Xi’an–Aprin, ma la loro efficacia dipende dalla stabilità regionale. In caso di escalation militare, anche queste alternative risulterebbero vulnerabili.

Conclusione: osservatore interessato, ma distaccato

La Cina non ha interesse né volontà di trasformarsi in garante della sicurezza mediorientale. Il suo approccio resta quello di un osservatore attento, interessato a mantenere l’equilibrio regionale senza prendersi la responsabilità del conflitto.

In definitiva, la Cina guadagna dal caos solo fino a un certo punto. Un conflitto contenuto distrae gli Stati Uniti dalla competizione indo-pacifica e da Taiwan, ma un’escalation fuori controllo danneggerebbe gli interessi cinesi molto più rapidamente di quanto ne favorisca l’espansione globale.

Nel triangolo strategico Israele–Iran–Cina, Pechino resta l’unico attore senza una posta ideologica o territoriale diretta, ma proprio per questo anche il meno affidabile in caso di crisi. La sua priorità resta la continuità economica. La pace, quindi, non è una missione etica: è una condizione necessaria al commercio.

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