di Stefano Vernole

L’Italia è l’unico Paese europeo ad avere con la Cina una relazione culturale e storica, che risale a Marco Polo (Venezia, 1254-1324) e Matteo Ricci (Macerata, 1552 – Pechino, 1610) ed è proseguita anche a seguito dell’istituzione della Repubblica Popolare Cinese (1949), grazie a figure politiche di spicco come Pietro Nenni, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira ed Enrico Mattei. Nel 1952 Ferruccio Parri fondò il Centro studi per lo sviluppo delle relazioni economiche e culturali con la Cina.


Il seguente articolo fa parte del progetto di ricerca del Centro Studi Eurasia e Mediterraneo “Cina: una potenza responsabile nella crisi geopolitica mondiale”

Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi hanno preso il via il 6 novembre 1970 con il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese e la rottura delle relazioni diplomatiche con la provincia autonoma di Taiwan da parte dell’Italia, poi seguita da altri Paesi europei. Da allora, le relazioni bilaterali Italia – Cina hanno registrato importanti sviluppi. Se ne ricordano alcuni passaggi: 1978. Accordi Italia – Cina di cooperazione culturale, nonché di cooperazione scientifica e tecnologica; 1984. Protocollo sino-italiano per la cooperazione scientifica e tecnologica in campo spaziale; 1991. Accordo sino-italiano di assistenza legale e agli affari civili, Accordo sino-italiano di cooperazione economica, Accordo sino-italiano di cooperazione per l’utilizzo pacifico e la ricerca spaziale; 2004. Istituzione del Comitato intergovernativo Italia-Cina; 2009. Partecipazione della Cina al G8, stipula di nove accordi bilaterali di cooperazione e sviluppo con l’Italia; 2019. La cooperazione Italia – Cina si consolida con tre MOU sulla Belt and Road Initiative, il commercio elettronico e le startup[1].

Stando però a quanto riportato da diversi organi di stampa italiani: “Cina, l’Italia cambia rotta: abbandona la Via della Seta e chiede aiuto agli Usa”[2]. Nell’incontro che si è tenuto alla Casa Bianca lo scorso 27 luglio, la premier Giorgia Meloni avrebbe confermato la scelta al presidente Joe Biden. In cambio, la premier italiana vorrebbe ottenere la protezione nordamericana contro le possibili ritorsioni commerciali cinesi.

In effetti, l’abbandono formale del MOU (Memorandum of Understanding) firmato con la Cina (altrimenti si rinnoverebbe in automatico) – che pure non comportava alcun obbligo sostanziale per l’Italia trattandosi di un documento di intenti – non farà affatto piacere a Pechino, la cui idiosincrasia per i gesti politicamente plateali è nota[3]

È un documento che, come precisato nello stesso testo (paragrafo 6), non rappresenta un accordo internazionale e che, per la sua genericità e per la sua natura, non ha effetto vincolante tra le parti (nel testo si dice infatti che “nessuna delle disposizioni del presente Memorandum deve essere interpretato ed applicato come un obbligo giuridico o finanziario o impegno per le Parti”). In questo senso, se si analizza il testo, il MOU Italia – Cina contiene una serie di intenti di collaborazione dei due Paesi coinvolti nell’ambito del progetto della nuova Via della Seta, così come chiarito nel suo preambolo e nel primo paragrafo dello stesso. È un documento che, richiamando anche accordi ufficiali presi precedentemente tra le parti, ha una funzione di organizzare le varie tematiche di collaborazione (la maggioranza già in essere), riordinandole sotto il cappello della nuova Via della Seta, costituendo, in tal senso, un documento con una visione sistematica delle relazioni e delle cooperazioni tra i due Paesi.

Si tratta di una buona idea non rinnovarlo? Se leggiamo ad esempio i dati ISTAT sul commercio extraeuropeo dell’Italia, notiamo che a maggio 2023 si registravano aumenti su base annua delle esportazioni verso quasi tutti i principali Paesi partner extra Ue27: i più ampi riguardavano i Paesi OPEC (+28,8%), Cina (+14,8%) e Giappone (+14,7%). Flettevano, invece, le vendite verso gli Stati Uniti (-5,8%). Se guardiamo anche i nostri principali partner europei, non andava molto meglio: Germania (-4,2%) e Belgio (-12,1%). Già a settembre 2023, dopo i propositi di non rinnovo del MOU, si rilevavano riduzioni su base annua delle esportazioni verso quasi tutti i principali Paesi partner extra Ue27; le più ampie riguardano Cina (-14,0%), Regno Unito (-13,2%), Paesi OPEC (-12,1%) e Stati Uniti (-11,9%). Perciò, le tensioni commerciali tra Cina e Occidente non solo non hanno giovato all’export italiano ma non sono state assolutamente compensate dai partner transatlantici.

Tra il 2003 e il 2022 il valore degli scambi commerciali tra Italia e Cina è aumentato di quasi sei volte (+590%) da US$ 11,73 a 78 miliardi (3,4). Tra il 2019 e il 2022 – a seguito del MOU sulla Belt and Road Initiative (BRI) e in controtendenza rispetto alla crisi Covid – gli scambi commerciali tra Italia e Cina sono cresciuti in misura di +42%. Le esportazioni dall’Italia alla Cina hanno superato € 3 miliardi (US$ 3,3 miliardi) a febbraio 2023, +131% rispetto all’anno precedente, dopo un +137% nel mese precedente. La Via della Seta è forse l’unica speranza per rianimare un Paese allo stremo che ha registrato, nel secondo trimestre 2023, un calo congiunturale del GDP (Gross Domestic Product, o PIL) pari a -0,3%.

La bilancia dei pagamenti italiana, a maggio 2023, è crollata a – €14,7 miliardi di euro (-32,5 mld rispetto ai + €17,8 miliardi dell’anno precedente). In linea con l’eurozona che – nel precipitare da + €285 miliardi a – €137 miliardi, tra il 2021 e il 2022 – ha bruciato il 3,3% del GDP[4].

Siccome obbedire tout court non fornisce una bella immagine, per giustificare l’abbandono del MOU con la Cina firmato dal Governo Conte 1, la stampa italiana foraggiata dal fondo nazionale per l’editoria (130 milioni di euro all’anno tra finanziamenti diretti ed indiretti dal 2014 al 2027) ha chiamato a raccolta i presunti “esperti” sui mancati vantaggi dell’accordo siglato da Roma e Pechino nel marzo 2019[5].

Il problema, invece, è che non si può essere più realisti del re.

Uno studio condotto dall’Università di Modena (Professori Paba-Parolin) aveva dimostrato che alla fine del 2020 gli investimenti cinesi in Italia avevano portato conseguenze positive sul fronte occupazionale e non avevano minimamente intaccato la sicurezza nazionale, per cui in un Paese come l’Italia – bisognoso di costruire nuove infrastrutture e di progredire nel settore dell’innovazione tecnologica – sarebbe stato utile incrementarli e non ostacolarli come al contrario è stato fatto.

Secondo tale studio: “Escludendo le partecipazioni di minoranza e concentrandosi solo sulle società controllate da imprese o investitori cinesi, a fine 2020 in Italia erano 608 le imprese riconducibili agli IDE cinesi. Di queste, 325 imprese sono frutto di acquisizioni e 283 sono investimenti greenfield. Il gruppo più interessante riguarda le 265 imprese di dimensioni non trascurabili, ovvero con un fatturato superiore ai 2 milioni di euro. Nel 2019 le 608 imprese cinesi in Italia hanno generato complessivamente più di 15 miliardi di fatturato e dato lavoro a più di 28.000 persone (Tabella 1). La maggior parte degli IDE sono realizzati da società cinesi private, seguite da vicino dalle imprese statali (SOE), in particolare quando gli investimenti sono di tipo brownfield. Nel complesso i risultati appaiono abbastanza positivi. Nell’ultimo anno rendicontato, tutti gli indicatori mostrano un livello superiore rispetto all’anno precedente l’acquisizione. A soli due anni dall’acquisizione, l’occupazione aggregata per tutte le 126 imprese è cresciuta del 6%. Con l’aumentare degli anni dall’acquisizione, l’impatto sull’occupazione è ancora maggiore. Le 105 aziende con una storia di cinque o più anni dall’acquisizione mostrano, complessivamente, una crescita di oltre il 18% del numero di dipendenti rispetto al livello pre-acquisizione (fig. 2a). Si noti che queste imprese hanno vissuto un periodo di stagnazione dell’occupazione probabilmente a causa degli effetti prolungati della crisi finanziaria del 2008. Tuttavia, anche con entrate in calo, sembra che la direzione abbia preferito evitare il licenziamento.[6]” 

Con l’arrivo di Mario Draghi al Governo (seguito a ruota dal Governo Meloni che non ha fatto nulla per invertire tale tendenza) l’Italia – per compiacere gli USA – ha sbarrato la strada a tutti possibili e significativi investimenti cinesi in Italia, segnando il record di utilizzo del golden power nei confronti delle aziende cinesi (ma non verso i fondi finanziari statunitensi che nel frattempo hanno fatto shopping di aziende italiane rubando la tecnologia e lasciando a casa i lavoratori)[7].

Ricordiamo, tra gli altri, i mancati investimenti (seppur già programmati) di Huawei e ZTE che avrebbero generato migliaia di posti di lavoro in Italia e non compensati dagli analoghi statunitensi (dopo aver promesso di aprire uno stabilimento in Italia, la statunitense INTEL farà un investimento di 4,6 miliardi in Polonia). Saltata pure la joint venture sino-americana per lo stabilimento di auto elettriche in provincia di Reggio Emilia (altro progetto che avrebbe generato parecchia occupazione) in quanto improvvisamente alla parte statunitense è mancata la volontà di finanziare il progetto.

L’attuale Governo italiano ha giustificato così tale atteggiamento: “L’80% dell’export italiano si dirige verso i Paesi occidentali, per cui le sanzioni alla Russia e il mancato rinnovo del MOU con la Cina vanno nella direzione dell’interesse nazionale”.

In realtà, dopo aver appoggiato per oltre 30 anni tutti gli interventi militari e le guerre economiche degli USA/NATO contro i Paesi “sgraditi” alla geopolitica nordamericana – eppure tutti partner commerciali importanti dell’Italia – come Iraq, Somalia, Serbia, Libia, Siria, Iran, Russia e Cina – bisognerebbe meravigliarsi di aver conservato ancora quel 20% di esportazioni[8].

I cosiddetti “esperti” di Cina lamentano invece che il MOU non ha portato a quell’incremento di vendite che ci aspettavamo, senza peraltro calcolare nel surplus commerciale tedesco verso la Cina anche la quota dell’export italiano verso la Germania (tra l’altro attualmente in recessione a causa degli alti costi dell’energia che prima Berlino acquistava dalla Russia a basso costo), visto che l’Italia del Nord – locomotiva economica del Paese – è in pratica subfornitrice dell’industria tedesca.

Non a caso, quando nel marzo 2019 iniziarono le prime rimostranze statunitensi nei confronti della firma del MOU tra Italia e Cina, l’ex Viceministro per le Infrastrutture e i Trasporti Edoardo Rixi replicò a Washington: “Non siamo figli di un dio minore, non possiamo morire di fame”[9]. Senza dimenticare che la BRI è già partecipata da 150 Paesi, una dozzina in meno dei 164 Stati aderenti al WTO. La logistica marittima può oltretutto riportare centralità ai porti di Genova e di Trieste, quali hub europei di riferimento.

Come spiegato dall’ex Sottosegretario all’Economia Michele Geraci: “La creazione della Task Force China ha cercato di creare un dibattito nazionale sulla Cina, risolvere problematiche specifiche e formare un gruppo di saggi che possa suggerire al Governo azioni e strategie. La Task Force Italia Cina è il primo esempio organizzato di un’entità dedicata alla soluzione delle criticità e alla valorizzazione delle opportunità nei rapporti bilaterali con un Paese partner. Istituita al MiSE, in coordinamento con gli altri ministeri, è stata fondamentale per aver veicolato e raggiunto dei primi obbiettivi. La Task Force, come la maggior parte dei tavoli, resta un veicolo che il Governo ha messo a disposizione del sistema economico italiano. La Task Force China è stata strutturata secondo le seguenti attività: 1) Eventi divulgativi, con vasta partecipazione di tutte le componenti sociali ed economiche italiane, invitando esperti con l’obbiettivo di informare su sfide ed opportunità che la Cina presenta e sfatare i tanti miti. 2) Consiglio dei Saggi: gruppo ristretto di esperti di Cina, che diano al Governo idee/consigli su come gestire la relazione economica con la Cina. 3) Tavoli di Crisi: per le problematiche relative a singole aziende o settori che abbiano specifiche necessità da segnalare a noi membri del Governo affinché vengano sottoposte alle controparti governative cinesi; in altre parole, elevare il rapporto B2B a G2G, Government to Government. 4) Rafforzare il Soft Power dell’Italia in Cina, cosa già avvenuta grazie al feedback positivo già riscosso presso le istituzioni cinesi che hanno molto apprezzato questa iniziativa, la prima di un Paese europeo. Prossimo passo in cantiere è quello di coinvolgere altri partner europei per creare un tavolo di scambio di idee a livello internazionale, con l’Italia come leader di questa iniziativa. Contatti già avviati con alcuni Paesi europei che hanno dimostrato grande interesse per l’iniziativa. Come tutte le idee, bisogna lavorare per il lungo periodo, senza la fretta di dover ottenere risultati immediati, considerazioni particolarmente importanti per un Paese, come l’Italia, che ha perso il “treno Cina” grazie a politiche poco attente degli ultimi due decenni. La firma del MoU Belt&Road (BRI) con la Cina rappresenta una delle più importanti azioni di marketing e promozione del nostro Made in Italy non solo in Cina ma in tutta l’Asia, e dovremmo riuscire a cogliere le occasioni prima degli “altri” anche in Africa. MoU BRI rappresenta forse una delle attività più importanti del Governo gialloverde, su cui abbiamo lavorato tanto con l’impagabile aiuto dell’Ambasciatore Sequi a Pechino ed uno dei miei obbiettivi principali. È un accordo quadro che serve da trampolino di lancio per le nostre aziende che volessero incrementare il loro export nei Paesi della Via della Seta, ottenere commesse per lo sviluppo di progetti in vari settori ed attrarre investimenti, preferibilmente di tipo green-field nel nostro Paese, nel rispetto completo della nostra sovranità e della sicurezza nazionale. Sono state fatte molte critiche, spesso infondate, da altri Paesi dell’Unione Europea, dall’ex-Presidente della Commissione Europea Juncker (il cui Paese, Lussemburgo, ha anch’esso aderito alla Via della Seta, come ho ben previsto), e tante preoccupazioni, infondate, sul tema del 5G, quando, invece abbiamo seguito i criteri europei ed anzi siamo andati oltre, come si evince paragonando il testo del nostro MoU con quello pubblicato dalla stessa UE al termine del Summit di quest’anno (aprile 2019) con il premier cinese. Sono particolarmente orgoglioso di aver raggiunto un obbiettivo primario, quello di aver portato la Cina al centro del dibattito politico ed economico del nostro Paese, in modo da dissipare falsi miti, comprenderne le opportunità di business e le sfide. Dal caos di opinioni che si è creato intorno alla firma dell’MoU emergerà un ordine. La mia più grande preoccupazione è che il nuovo Governo, nella componente PD, non sia in grado di portare avanti le iniziative da me sviluppate, sia per una non completa comprensione del mercato cinese, sia per la posizione ufficiale presa contro questo accordo, dichiarazioni che a Pechino non dimenticano e che renderanno poco credibili le attività di sostegno alle nostre imprese, forse anche controproduttive. La firma del MoU, anche per diretta testimonianza delle imprese italiane, è stato uno spartiacque importante nell’atteggiamento degli interlocutori cinesi che manifestano un’apertura e una disponibilità sin qui sconosciute sia nei rapporti con il nostro Governo, sia soprattutto nei rapporti con le nostre imprese e in particolare le PMI. Concreti risultati della firma del MoU sono: apertura di voli diretti da Roma con Chengdu, Shenzhen e Hangzhou; firma dei protocolli per l’esportazione di agrumi via aerea e per la carne bovina; moltiplicazione del numero di turisti cinesi in Italia; firma di accordi di CTRIP, top agenzia di viaggi cinese, con diverse regioni italiane; miglioramento dell’immagine dell’Italia in Cina. Per dare concreta attuazione al MoU è inoltre stata avviata un’attività di ricognizione con le Regioni italiane al fine di individuare i migliori progetti da proporre come investimenti ai partner cinesi, in particolare green-field, per il tramite di NDRC, National Development and Reform Commission Chi chiede risultati immediati e critica questo accordo non comprende bene le dinamiche della Cina, dove la pazienza e le relazioni personali sono necessarie per recuperare i decenni perduti. E quindi, per non dissipare tutto il capitale fin qua costruito, timore fondato, il mio impegno a promuovere il nostro export in Cina, non si ferma qua, anzi moltiplicherò il mio sforzo al servizio del sistema Italia[10].”

Geraci ha poi aggiunto: “Oltre all’Italia, sono nella Via della Seta ben altri 14 Paesi UE e NATO (tema di cui dovrebbero essere esperti), oltre alla Svizzera e Lussemburgo, Paese fondatore dell’UE stessa. Insieme Lux e Svizzera sono i due Paesi europei col più alto reddito pro capite … Gli autori dell’analisi costi-benefici, entrano in terreno non a loro noto quando, tra gli “svantaggi” si avventurano a citare l’accordo tra Cosco e il porto del Pireo che, dimenticano di dirvi, grazie agli investimenti cinesi è passato da 1mn a 6mn di container all’anno, dando lavoro ai greci, che ne avevano bisogno, e Pil. Non comprendo quale sarebbe lo “svantaggio” per la Grecia. Io volevo fare lo stesso per Trieste: aumentare la capienza da 700mila a 3milioni TEU, divergere gran parte del traffico proveniente dall’Asia sul nostro porto, invece che a Rotterdam o Coper, far lavorare i nostri portuali, essere noi e non gli olandesi a controllare il contenuto delle merci dalla Cina, e sviluppare una rete logistica ferroviaria da Trieste verso Ungheria/Ucraina ed Europa orientale da un lato, e verso la Germania, Kiel e la Scandinavia dall’altro”[11].

Le modalità di cooperazione del MOU comprendono incontri e discussioni di alto livello, nell’ambito dei meccanismi esistenti a livello governativo e non governativo. Oltre allo sviluppo di programmi pilota in settori chiave, scambi e cooperazione economica, ricerca congiunta, sviluppo di infrastrutture, scambi di personale e formazione. Avendo sempre riguardo alle opportunità di cooperazione Italia – Cina anche nei Paesi terzi. La sostenibilità sociale, ambientale ed economica è il requisito di base degli investimenti nei programmi BRI, i quali comunque seguono i principi di mercato e sono aperti al capitale pubblico e privato (paragrafo III del MOU). 

Oltre a favorire commercio, cooperazione e investimenti “a parità di condizioni e nel rispetto della proprietà intellettuale”, una parte importante del MOU riguarda anche il settore culturale: ampliare le relazioni tra i popoli di Italia e Cina; sviluppare le reti di città gemellate e promuovere i rispettivi siti UNESCO, anche grazie alla piattaforma del Meccanismo di Cooperazione Culturale Italia-Cina; istruzione, cultura, scienza, innovazione, salute, turismo e benessere pubblico; media, think-tank, università e giovani.

Evoluzione e prospettive dei rapporti italo-cinesi

L’approccio alla Cina di Giorgia Meloni sembrava essere cambiato nel dicembre 2022, dopo il suo incontro con il presidente cinese Xi Jinping a margine del vertice del G20 a Bali.

In circa un’ora di colloqui, Meloni e Xi erano giunti a una convergenza su diversi punti di discussione, a partire dal riequilibrio del commercio bilaterale: l’Italia ha bisogno di esportare più beni e servizi in Cina per consolidare la ripresa post-Covid e soddisfare la domanda del mercato interno cinese, prodotti di consumo sempre più di alta qualità, per soddisfare le esigenze della sua nascente classe media.

Tuttavia, nonostante gli evidenti vantaggi derivanti dal rafforzamento delle relazioni economiche Cina-Italia (la BRI si è dimostrata un’iniziativa inclusiva, pragmatica e di successo), Roma sembra essere vittima della sua limitazione endemica di sovranità, a causa della sua dipendenza non scritta dagli Stati Uniti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. In quanto unica vera potenza mediterranea in Europa, grazie alla sua posizione privilegiata, l’Italia è tradizionalmente sotto sorveglianza speciale. Pertanto, indipendentemente dai “colori” del governo, sacrificare gli interessi nazionali italiani sull’altare dei vincoli geopolitici, agendo sotto forma di ingerenze esterne, potrebbe essere un’opzione. Di conseguenza, non sorprende che, secondo Bloomberg, la Meloni avrebbe esposto la sua disponibilità a rompere l’accordo con la Cina durante un incontro con il presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, Kevin McCarthy.

La diplomazia cinese ha continuato comunque anche nel 2023 a tessere la sua paziente tela.

Cina e Italia dovrebbero “continuare a esplorare il potenziale di cooperazione” nel quadro della Belt and Road Initiative (BRI), proposta dalla Cina dieci anni fa, e “rafforzare la cooperazione reciprocamente vantaggiosa alla ricerca di risultati più fruttuosi”. Queste sono state le parole del portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin, durante il consueto punto stampa, in risposta a un giornalista che gli chiedeva un commento sull’intenzione dell’Italia di uscire dalla BRI. Dopo l’adesione alla Via Della Seta, firmata con un memorandum d’intesa a Roma nel 2019, “Cina e Italia – ha detto Wang – hanno ottenuto risultati fruttuosi in vari campi, tra cui il commercio, la crescita economica, la produzione industriale, l’energia pulita, i mercati terzi”. Stando alle dogane cinesi, il commercio Cina-Italia, nei primi quattro mesi del 2023, ha raggiunto 162,36 miliardi di yuan (23,45 miliardi di dollari), in calo dell’1,3% su base annua, mentre le importazioni da gennaio ad aprile hanno registrato un aumento del 7,4% a 60,16 miliardi di yuan.

Durante la sua visita a Roma nel febbraio 2023 Wang Yi ha dichiarato che la Cina è pronta ad approfondire una cooperazione strategica globale con l’Italia per portare le relazioni bilaterali a un livello superiore. Durante il suo incontro con il Vice-Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri italiano, Antonio Tajani, Wang Yi ha aggiunto. “La Cina attribuisce grande importanza alle relazioni sino-italiane: l’antica Via della Seta collegava i due popoli”.

Wang ha affermato che la Cina ha tenuto sotto controllo la pandemia da Covid-19, ha registrato una forte ripresa economica e una ripresa ordinata degli scambi culturali e interpersonali con altri Paesi. Il Ministro cinese ha esortato i due Paesi a riprendere gli scambi e la cooperazione in vari campi, e ad agire il prima possibile per recuperare il tempo perduta a causa della pandemia. La firma del MOU, ha detto Wang, ha elevato il livello strategico delle relazioni bilaterali. Le due parti possono sfruttare il potenziale della cooperazione nei settori green e digitali, nei mercati terzi, e spingere per risultati più positivi nelle relazioni Cina-Italia.

La Cina è pronta a importare più prodotti di qualità dall’Italia, a sostenere la presenza delle aziende italiane nel mercato cinese e spera che l’Italia fornisca un ambiente commerciale equo, trasparente e non discriminatorio per le aziende cinesi.

Stando ai dati del ministero degli Esteri cinese, a partire dall’ottobre 2022, la Cina è stata il principale partner commerciale dell’Italia in Asia, mentre l’Italia è stata il quarto partner commerciale della Cina nell’Unione Europea.

La Cina, ha affermato Wang, apprezza lo status e l’influenza dell’Italia nell’arena internazionale ed è pronta a collaborare con l’Italia per salvaguardare la posizione centrale delle Nazioni Unite (ONU), sostenere le norme che regolano le relazioni internazionali basate sugli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite, difendere e praticare il multilateralismo e promuovere la democrazia nelle relazioni internazionali e la globalizzazione economica. La diplomazia di Pechino attende con impazienza il contributo positivo dell’Italia anche allo sviluppo delle relazioni Cina-Europa.

Tajani ha replicato che l’Italia e la Cina godono di un’amicizia di lungo corso. Nell’era post-pandemia, l’Italia è impaziente di riprendere il prima possibile il meccanismo di cooperazione bilaterale con la Cina e rafforzare la cooperazione reciprocamente vantaggiosa in vari settori. L’obiettivo è di organizzare in tempi brevi la Sessione Plenaria della undicesima riunione del Comitato governativo Italia-Cina e la riunione della Commissione mista dei due Paesi per la cooperazione economica e commerciale.

L’Europa e la Cina, ha scandito Tajani, sono mercati di riferimento gli uni per gli altri. Le due parti dovrebbero rafforzare la cooperazione, promuovere investimenti reciproci ed espandere il commercio. La parte italiana attribuisce importanza agli affari internazionali, come la riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ed è disposta a rafforzare il coordinamento con la Cina.

Le due parti hanno anche scambiato opinioni approfondite sulla questione ucraina. Wang ha sottolineato che la Cina è sempre stata impegnata a promuovere colloqui di pace. Più complicata è la situazione, più diventa necessario mantenere gli sforzi politici e diplomatici per trovare una soluzione accettabile per tutte le parti. Tajani ha espresso il suo apprezzamento per il fatto che la Cina è sempre stata dalla parte della pace, e ha espresso la volontà di rafforzare la cooperazione con la Cina e compiere sforzi congiunti per promuovere i colloqui di pace.

La comunità imprenditoriale italiana è anch’essa molto preoccupata. Dopo aver subito ingenti danni dall’aumento dei prezzi dell’energia e dall’impatto devastante del conflitto Ucraina-Russia sull’economia europea, le aziende italiane temono un possibile deterioramento dei rapporti Italia-Cina proprio ora che si stanno registrando numeri record per quanto riguarda l’export verso Cina (92,5% nel primo trimestre del 2023 rispetto all’anno precedente): “Un eventuale ritiro porterebbe a un raffreddamento dei rapporti bilaterali in un momento storico in cui aziende e professionisti stanno vivendo una frenesia e una voglia di tornare sul mercato cinese”, ha detto Mario Boselli, presidente della Italy China Council Foundation, come riportato dal Financial Times[12].

Nonostante il 2023 si fosse aperto con prospettive ottimistiche, la successiva visita di Tajani a Pechino ha raffreddato gli entusiasmi perché preceduta dall’affermazione del Ministro italiano secondo cui “gli scambi commerciali tra i due Paesi non hanno soddisfatto le aspettative”[13].

Alcuni esperti cinesi ritengono che l’Italia si sia messa in una posizione difficile. Da un lato, sta affrontando la crescente pressione degli alleati occidentali guidati dagli Stati Uniti, e la sua lotta politica interna ha reso il patto BRI proposto dalla Cina un obiettivo importante, mentre dall’altro spera di mantenere i benefici della cooperazione con la Cina, mantenendo canali di dialogo aperti.

Il viaggio di Tajani in Cina è stato interpretato come l’apertura della strada a una futura visita di Meloni e “ha offerto ancora l’opportunità alle due parti di considerare attentamente quanto peso avrà la cooperazione BRI nei legami Cina-Italia e quali sarebbero i maggiori impatti se Roma decidesse di non rinnovare il patto di cooperazione”, hanno detto alcuni esperti, sottolineando che l’impatto, tuttavia, non dovrebbe essere fondamentalmente dannoso per le relazioni Cina-Italia.

Tajani ha detto al Forum che l’Italia vuole continuare a lavorare a stretto contatto con la Cina, ma “dobbiamo anche analizzare gli esperti, la BRI non ha prodotto i risultati che speravamo”, ha detto il Ministro italiano. A sostegno di questa affermazione ha presentato una serie di dati commerciali, affermando che le esportazioni italiane verso la Cina nel 2022 valevano 16,5 miliardi di euro (17,8 miliardi di dollari), mentre le cifre per Francia e Germania erano molto più alte rispettivamente con 23 miliardi e 107 miliardi di euro.

“In una certa misura, l’Amministrazione Meloni ora vuole usare il suo cosiddetto ritiro dal patto BRI come prova del suo ritorno alla politica occidentale tradizionale. Chiaramente, c’è una significativa influenza politica e pressione da parte degli Stati Uniti e di altri Paesi occidentali”, ha commentato al Global Times Cui Hongjian, direttore del Dipartimento di Studi Europei presso l’Istituto Cinese di Studi Internazionali.

“Per affrontare il deficit commerciale, dobbiamo rispettare le regole del mercato. Quanto vantaggio hanno i prodotti italiani sul mercato cinese? Questo non è un problema del Governo cinese né della cooperazione BRI, e loro lo capiscono”, ha detto Cui, sottolineando che il Ministro degli Esteri italiano ora sta semplicemente cercando una via d’uscita poiché il Governo italiano potrebbe apportare modifiche alla politica sulla BRI in futuro.

Recentemente, Guido Crosetto, ministro della Difesa italiano, ha dato maggior adito alle recenti voci secondo cui l’Italia in quanto membro del G7 e della NATO potrebbe uscire dalla BRI, descrivendo la decisione di aderire al quadro come “improvvisata e atroce”.

Meloni ha ribadito che lei e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden hanno discusso della partecipazione dell’Italia alla BRI durante la sua ultima visita negli Stati Uniti, ma che l’approccio di Washington non è stato quello di dettare la politica dell’Italia nei confronti della Cina, secondo quanto riportato dai media.

Mentre il patto BRI dovrebbe rinnovarsi automaticamente nel marzo 2024, l’Italia ha fatto trapelare qualche voce sulla sua possibile decisione, ma sottolinea che essa non turberà la Cina, “il che è un atto di equilibrio”, secondo Wang Yiwei, direttore dell’Istituto per gli Affari Internazionali dell’Università Renmin della Cina.

“Potrebbe esserci qualche impatto se il Governo italiano decidesse di non rinnovare il patto, ad esempio, non ci sarà la stessa garanzia sugli investimenti e la possibilità di stabilire regole di investimento per la BRI se ci si ritira”, ha detto Wang. “Ma questi impatti non rappresenteranno una battuta d’arresto fondamentale [per le relazioni Cina-Italia]”.

Lo stesso Ambasciatore cinese in Italia Jia Guide ha dichiarato al Global Times in una precedente intervista che, nell’ambito del patto BRI, la cooperazione pratica in vari campi ha portato benefici tangibili ed effetti positivi sia per le nazioni che per i loro popoli.

Anche se la visita segnala una certa “buona volontà” da parte del Governo italiano di cooperare ulteriormente con la Cina, se Roma decidesse di “ritirarsi dal patto BRI, alcuni progetti previsti dal patto ne risentirebbero sicuramente”, ha concluso Cui.

Negli ultimi anni, Cina e Italia hanno mantenuto strette interazioni ad alto livello, approfondito la cooperazione pratica e gli scambi interpersonali e hanno dimostrato uno slancio positivo di crescita, ha affermato invece Wang Wenbin, portavoce del Ministero degli Esteri cinese, in una conferenza stampa: “La Cina è pronta a collaborare con l’Italia per cogliere questa visita come un’opportunità per realizzare ulteriormente le importanti intese comuni tra i leader dei due Paesi, consolidare la fiducia politica reciproca, approfondire la cooperazione pratica, migliorare il coordinamento multilaterale, promuovere lo sviluppo sano e costante delle relazioni Cina-Italia e Cina-Europa e affrontare congiuntamente le sfide globali“, ha affermato il portavoce[14].

Poche settimane prima, ancora Michele Geraci è tornato a puntualizzare la situazione: “Il MOU serve a cogliere tre obiettivi principali: sviluppo economico, gestione dei flussi migratori e stabilizzazione dell’Africa, più un altro legato al tema delle infrastrutture, dei commerci e quindi della pace. La nostra economia dipende dall’export. Il nostro export dipende, oggi, dall’Asia, domani dipenderà dall’Africa. La soluzione al problema dei migranti non sta nel come suddividere i 100mila arrivi nell’Ue, questa è solo la punta dell’iceberg. Il problema vero è che l’Africa passerà da una popolazione di 1,4 miliardi di persone a 4 miliardi di abitanti. E quelli non si possono certo suddividere. Sono un po’ troppi anche per noi. Sia dal punto di vista economico e dei migranti, sia da quello etico per l’Africa, il MOU è un piccolo patto, non la panacea, che punta a risolvere questi tre problemi: rafforzare la nostra economia con l’export, aiutare l’Africa a stabilizzarsi, con un aiuto concreto per lo sviluppo. Ovviamente, non è che tutto si realizza alla firma degli accordi, ma di certo si tratta di un’intesa che va in quella direzione. C’è poi un quarto punto: lo sviluppo delle infrastrutture che riguardi Asia, Africa e anche il nostro continente. In un momento di guerre e di tensioni internazionali, fare delle ferrovie per i treni che spostano merci e non armi mi pare sia qualcosa di importante. Del resto, lo sappiamo: le guerre si fanno per soldi. Se cerchiamo un’alternativa per lo sviluppo, allora mettiamo in moto meccanismi di pace anche con un accordo commerciale come questo … Il danno, per un’eventuale uscita dal memorandum, sarebbe solo per noi. Non perché lo dico io. Basterebbe considerare che questi accordi si fanno per le aziende. Ebbene, nessuna impresa vuole uscirne, e neanche una si è lamentata per la firma all’epoca. L’intesa era stata fatta per loro che non se ne sono lamentati. Con tutto il rispetto per Biden o per Macron, io dico che gli “azionisti” di un esecutivo sono semmai, in questa vicenda, le aziende e non i Governi stranieri. Se il Governo Meloni esce dal MOU fa un atto contrario agli interessi del Paese[15].”

Al posto del MOU con la Cina, l’Italia si impegna adesso in un nuovo accordo-clone a baricentro alternativo: il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, insieme a Stati Uniti, Arabia Saudita, UE, India, Germania, Francia ed Emirati Arabi Uniti. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, a Nuova Delhi in India per il G20, ha firmato infatti l’accordo per il corridoio benedetto da Joe Biden che lo ha definito “un grande investimento”. Nessuno si è preso la responsabilità di giocare a carte scoperte e dichiarare che la nuova intesa transnazionale è una chiara alternativa alla Belt and RoadInitiative lanciata nel 2013 da Xi Jinping. Ma non ce n’è bisogno, data l’evidenza dei fatti. 

Nel bilaterale con il premier cinese Li Qiang, Meloni ha voluto confermare “la comune intenzione” di “consolidare e approfondire il dialogo tra Roma e Pechino sulle principali questioni bilaterali e internazionali”. “Forti entrambe di una storia millenaria – scrive Palazzo Chigi in una nota – Italia e Cina condividono un Partenariato Strategico Globale di cui il prossimo anno ricorrerà il ventesimo anniversario e che costituirà il faro per l’avanzamento dell’amicizia e della collaborazione tra le due Nazioni in ogni settore di comune interesse”.

Ma al di là delle parole, il baricentro politico-economico dell’Italia si è spostato verso posizioni più gradite agli Stati Uniti e all’Unione Europea; quest’ultima aveva firmato un Accordo Sugli Investimenti (CAI) con la Cina nel dicembre 2020, poi bloccato a causa delle controversie tra Bruxelles e Pechino sulla questione dei “diritti umani”.

Sin dal 2004, i rapporti diplomatici tra Italia e Cina sono appunto inquadrati in quello che viene definito “partenariato strategico globale”. In altre parole, l’estensione delle collaborazioni in atto non si limita al solo ambito strettamente bilaterale, sia esso politico, economico-commerciale o culturale, ma coinvolge anche la trattazione di tematiche globali, il rapporto UE-Cina, le questioni multilaterali. Nel 2020 si è inoltre celebrato il 50mo anniversario delle relazioni diplomatiche bilaterali fra Italia e Cina, mentre nel 2022 ha avuto luogo l’Anno della Cultura e del Turismo, con un ricco palinsesto di attività culturali, ivi inclusa la prestigiosa mostra “Tota Italia”, proveniente dalle Scuderie del Quirinale, tenutasi presso il Museo Nazionale di Pechino.

Nel corso degli ultimi anni, e nonostante le difficoltà causate dalla pandemia, le relazioni italo-cinesi si sono mantenute costanti, con incontri e colloqui annuali a livello governativo che hanno rafforzato l’interazione istituzionale e reso possibili numerose iniziative congiunte in molteplici settori. 

Sul futuro delle quali, ora, permane grande incertezza, visto l’atteggiamento poco chiaro del Governo italiano su come dare concretezza al partenariato strategico globale con la Cina[16].


NOTE AL TESTO

[1] AAVV, Cina e Italia. Una storia di amicizia, Anteo, 2020.

[2] New York — “La decisione è presa, nella sostanza. L’Italia non rinnoverà il Memorandum of understanding (MOU) che la lega alla nuova Via della Seta cinese, quando scadrà alla fine dell’anno. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ne discuterà con il presidente John Biden durante la visita di giovedì alla Casa Bianca, e gli addetti ai lavori avvertono che «nulla è deciso fino a quando non è deciso”. Cfr. “La Repubblica”, 24 luglio 2023.

[3] MEMORANDUM D’INTESA TRA IL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA E IL GOVERNO DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE SULLA COLLABORAZIONE NELL’AMBITO DELLA “VIA DELLA SETA ECONOMICA” E DELL’ “INIZIATIVA PER UNA VIA DELLA SETA MARITTIMA DEL 21° SECOLO”, cfr. Governo.it.

[4] Dario Dongo, Italia – Cina, rapporti e prospettive nella Belt and Road Initiative, GIFT, 6 agosto 2023.

[5] Eusebio Filopatro, Come lavora la propaganda per l’uscita dell’Italia dalla Via della Seta, “L’Antidiplomatico”, 20 agosto 2023.

[6] Sergio Paba – Cinzia Parolini, Chineseacquisitions in Italy: performance of target companies,Political reactions and public perception, future prospects, Università di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Economia, dicembre 2021.

[7] Walter Ferri, Cos’è il Golden Power, l’arma usata da Draghi per frenare la Cina, “L’Indipendente”, 27 giugno 2022. Per rimanere in Emilia-Romagna, tra i tanti esempi è sufficiente citare i due recenti casi della Magneti Marelli e dell’azienda La Perla, con centinaia di lavoratori licenziati dai fondi finanziari statunitensi che ne avevano acquisito le proprietà unicamente per fini speculativi.

[8] Alcuni dati economici sono riportati nella mia introduzione al libro di Autori Vari “Fermare la guerra. L’Italia protagonista per la pace in Europa”, Il Cerchio, Rimini, 2022.

[9]  Il volume dell’interscambio commerciale con la Germania è nettamente maggiore nelle provincie di transito della pianura Padana, con picchi oltre i 15 miliardi di euro (2018-2020) registrati a Milano e Verona. La Lombardia sub-orobica (in particolare il Tetragono industriale Milano-Monza-Bergamo-Brescia), l’entroterra veneto e l’Emilia centrale costituiscono i poli irrinunciabili per la strategia industriale tedesca. La Camera di commercio Italo-Germanica (Ahk Italien), ha recentemente sintetizzato così a “Milano Finanza”: “Le imprese tedesche sono a caccia di fornitori in Italia per accorciare le catene produttive, indebolite da anni di guerra commerciale e spezzate dalla crisi pandemica.” Cfr. Edoardo Rixi, Via della Seta, Gli USA devono capire che per noi l’accordo va fatto, “Affari Italiani”, 12 marzo 2019.

[10] Michele Geraci, Un bilancio delle attività svolte al Governo, 27 novembre 2019, michelegeraci.com.

[11] Michele Geraci, Costi e benefici della Via Seta. Un mistero?, 27 maggio 2023.

[12] Giulio Chinappi, Pressione degli Stati Uniti verso l’Italia: verso l’abbandono della Nuova Via della Seta?www.cese-m.eu, 25 maggio 2023. Il 4 maggio 2023 Giorgia Meloni ha incontrato Kevin McCarthy, Presidente della Camera dei Rappresentanti degli USA, letteralmente la figura più anti-Cinese degli Stati Uniti insieme a John Bolton ed il tema dei colloqui è facilmente intuibile. McCarthy è talmente anti-cinese da aver creato il “Comitato Ristretto della Camera degli USA sulla concorrenza strategica tra gli Stati Uniti e il Partito Comunista Cinese”, un piccolo – ma potente – “comitato” a cui partecipano le figure più guerrafondaie dell’impianto imperialistico USA, come Mike Gallagher.

[13] Giulio Chinappi, La Cina accoglie con favore la visita di Tajani, www.cese-m.eu, 5 settembre 2023.

[14] Chen Qingqing, “Global Times”, Italian Foreign Ministervisits China, a signal of ‘seekingcooperation and dialogue, 3 settembre 2023.

[15] Giovanni Vasso, Geraci: Uscire da Via della Seta? Biden non ce lo ha chiesto, “L’Identità”, 1 agosto 2023.

[16] Già il 28 novembre novembre 2019 l’allora Ministro Lorenzo Fioramonti aveva annunciato l’abbandono della proficua collaborazione spaziale italo-cinese.: “Il ministro della ricerca nega delle ingerenze americane sulla scelta di abbandonare la collaborazione per la Tiangong 3. La cronologia è però comunque sospetta. Sicuramente il prossimo progetto Artemis che riporterà l’essere umano sulla Luna sarà strettamente legato alla stazione spaziale lunare, il Lunar Gateway. Progetto che sarebbe in contrapposizione alla Tiangong 3 per le aziende Italiane. Il Governo americano non permetterebbe di partecipare ad entrambi i progetti e probabilmente non ce ne sarebbe neanche la possibilità pratica”, cfr. Stefano Piccin, L’Italia abbandona il programma spaziale cinese, astrospace.it, 6 febbraio 2020.

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