LA RUSSIA COME DESTINO

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di Paolo Mathlouthi

Mark Rothko, Hannan Arendt, Roman Gary, Gidon Kremer. C’è un legame sotterraneo tra alcuni grandi nomi della cultura mondiale: i Paesi baltici dove sono nati o hanno vissuto e il cui ricordo li ha accompagnati nella fuga oltre confine.

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Tra i palazzi jugendstil di Riga e le mura di Tallinn, tra i vicoli della vecchia Vilnius, i castelli della Curlandia e la Konigsberg di Kant, conquistata dai sovietici nel 1944 e ribattezzata Kaliningrad, éxclave russa in territorio lituano e occhio del Cremlino proteso a scrutare la Mitteleuropa, sede oggi della più importante base sommergibilistica russa che toglie il sonno ai tecnocrati di Bruxelles, rivivono i film di Sergej Ejzenstejn, che si unisce ai bolscevichi in odio al padre zarista per ritrovarsi poi, come lui, vittima di un’ossessione di grandezza, tanto da diventare, con la sua celebre pellicola dedicata ad Ivan il Terribile, cantore ufficiale dello stalinismo; le mille vite di Romain Gary, che nella letteratura trova rifugio dai campi di concentramento nazisti, senza mai riuscire a perdonarsi di essere un sopravvissuto; ma anche la burrascosa storia d’amore di Hannah Arendt con Martin Heidegger, suo carnefice, o la segreta diaspora dei Baroni baltici come Alexandra Wolff – Stomersee, moglie di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e prima donna psicanalista ad operare in Italia. Sulle sponde del Baltico passato e presente s’intrecciano come le note di una sinfonia in cui ogni dettaglio racconta una passione, un’illusione infranta o una profonda nostalgia.

E’ in questo cruciale ma dimenticato lembo d’Eurasia, isola ugrofinnica incastonata e contesa tra mondo germanico e mondo slavo, che nel 1933 giunge anche il filosofo tedesco Walter Schubart (1898 – 1942), costretto a fuggire dalla Germania hitleriana per aver sposato in seconde nozze Rosa Rebecca Bergman. Fascinosa, poliglotta, coltissima ed anticonformista, ex consorte di un alto graduato della Luftwaffe dal quale divorzia dopo aver avuto due figli e protagonista indiscussa della bohème degli anni di Weimar, la ragazza si firma Dolgorukja, accampando quarti di nobiltà russa assai improbabili, dato che appartiene ad una facoltosa famiglia di commercianti ebrei che, forte di solidissime disponibilità economiche, accoglie la coppia di giovani fuggiaschi tra le rassicuranti mura del palazzo avito di Ventspils, in Lettonia. Qui Walter Schubart, sotto l’inflessibile guida dell’amata consorte, si dedica con abnegazione allo studio della lingua di Dostoevskij e Tolstoj, condizione da lui ritenuta necessaria per poter comprendere nel profondo la mentalità di quel popolo enigmatico che, con la Rivoluzione d’Ottobre, pare essersi destato da un sonno millenario, deciso a condurre la propria sfida all’Occidente nel cuore stesso della Modernità.

Capire il russkij mir significa per Schubart innanzitutto ricostruire la complessa dinamica dei secolari rapporti di amore e odio intercorsi tra la Russia ed il Vecchio Continente, indicandone le linee di faglia come pure i punti di convergenza. Un progetto ambizioso che il filosofo tedesco affida alle pagine di un libro profetico, “L’Europa e l’anima dell’Oriente”, dato alle stampe nel 1938 a Lucerna, in Svizzera, presso la Vita Nova Verlag, onde aggirare il divieto di pubblicazione imposto dalle autorità tedesche, e tornato oggi in libreria per i tipi della casa editrice Oaks nella traduzione ormai classica di Guido Gentili.

Il sociologo russo Pitrim Aleksandrovic Sorokin (1899 – 1968), che nel saggio “Social Philosophies of an Age of Crisis”, apparso negli Stati Uniti nel 1950 e da noi ancora inedito, cita ampiamente Walter Schubart tentando un primo bilancio del suo pensiero all’indomani della prematura scomparsa di quest’ultimo, inserisce lo studioso tedesco nell’orizzonte simbolico della cosiddetta Kulturkrisis, assimilando le sue argomentazioni a quelle di Oswald Spengler.

Un accostamento per molti versi fuorviante, non solo perché l’autore de “ Il Tramonto dell’Occidente” è fatto oggetto di una serrata critica da parte di Walter Schubart, il quale lo accusa di essere, insieme a Nietzsche, il principale teorico di quell’esclusivismo germanocentrico che ha indotto la cultura europea a considerare la Russia come un corpo estraneo, qualcosa di radicalmente altro rispetto a se stessa, creando di fatto una frattura tra Est ed Ovest a tutt’oggi come sappiamo insanabile, ma anche e soprattutto perché le coordinate secondo le quali Schubart articola la propria originalissima riflessione sulla morfologia della Civiltà sono, ad una più attenta analisi, tutte interne alla cultura russa.

Se dovessimo individuare un nume tutelare del suo pensiero, questi sarebbe certamente Dmitrj Sergeevic Merzkovskij (1865 – 1941), scrittore che non a caso lo studioso tedesco chiama a più riprese nel corso del libro a sostegno delle sue tesi. Seguendo la lezione aurea del padre del Simbolismo russo, Walter Schubart concepisce la realtà come il luogo privilegiato in cui, attraverso epifanie esteriori riconducibili alla triade hegeliana, si dispiega la “ritmica del divenire del mondo”.

E’ un universo organico quello descritto dal filosofo tedesco, un mosaico vivente alimentato da una legge deterministica che, come un respiro, tende alla circolarità. Un anelito alla perfezione, riletto in chiave millenaristica, destinato tuttavia a rimanere inappagato poiché la vita, nella sua componente biologica calata nel divenire, è schiava di un rigido dualismo manicheo non passibile di risoluzione. L’esistenza, per Walter Schibart così come per Merezkovskij prima di lui, è dominata dalla polarità, dal conflitto inestinguibile tra due verità sempre equivalenti e tuttavia contrarie: quella celeste e quella terrena, ovvero la verità dello spirito e quella della carne.

La prima, incarnata dalla Russia, si manifesta come eterno slancio a trascendere se stessi in nome di qualcosa di più grande, poco importa che si tratti dello Zar o della Rivoluzione; la seconda, al contrario, è un impulso irrefrenabile in senso inverso, tipico della mentalità faustiana connaturata all’Occidente, teso all’affermazione parossistica della propria volontà individuale che ha trovato la compiuta realizzazione in fenomeni di portata epocale quali il Rinascimento, la Riforma protestante o l’Illuminismo.

Queste due forze cosmiche, dalla cui costante interazione scaturisce il corretto ordine delle cose, sono in lotta tra loro senza che mai l’una possa prevalere sull’altra. “Ottocento anni abbiamo dormito” – scrive Walter Schubart citando appunto Merezkovskij -; “nel secolo tra Pietro e Puskin ci siamo destati, nei decenni tra Puskin e Tolstoj abbiamo vissuto tre millenni di storia europea”. In una prospettiva siffatta anche il patriottismo muscolare esibito da Vladimir Putin va inteso quindi come un ulteriore episodio di una dialettica destinata in tutta evidenza a non trovare compensazione.

Lo scontro è in atto e a noi non resta che scegliere da quale parte schierarci.

Walter Schubart, L’Europa e l’anima dell’Oriente, Oaks Editrice, Milano 2023; pag. 398 € 28,00

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