Di Giacomo Gabellini

Da uno studio condotto dal prestigioso istituto francese di analisi Xerfi emerge un dirompente rovesciamento delle condizioni economiche interne all’Eurozona, del tutto sufficiente ad imprimere una brusca accelerata al processo di disintegrazione dell’euro. Il dato cruciale messo in risalto all’interno del documento è infatti rappresentato dall’impressionante cambio di paradigma varato dalla Germania, che nell’arco di appena 12 mesi è riuscita a rivoltare in maniera radicale il proprio export. Nel primo semestre del 2013, il 65% circa delle esportazioni tedesche veniva assorbito dai Paesi membri dell’Unione Europea, di cui il 36% dalle nazioni che aderiscono all’Eurozona, mentre ad appena un anno di distanza il 74% circa dell’export tedesco veniva realizzato al di fuori dei confini europei. L’incremento delle esportazioni tedesche all’esterno del “vecchio continente” è stato pari a 70 miliardi di euro (su 131 miliardi dal 2007), a fronte di una contrazione di 77 miliardi all’interno dell’Unione Europea. Il che è naturalmente dovuto alla caduta della domanda interna in tutti i Paesi dell’Eurozona, imputabile alle sostanziali terapie d’urto imposte dalla cosiddetta “troijka” dietro il pungolo di Berlino.

 

(Figura 1. Saldo commerciale tedesco)

 

Va tuttavia sottolineato il fatto che la “fetta” di esportazioni tedesche all’interno dell’Unione Europea sia rimasta inalterata al 22% per oltre dieci anni, mentre le quote francese, britannica e italiana sono costantemente diminuite a fronte dell’avanzata dei Paesi dell’Europa orientale e delle nazioni gravitanti attorno all’orbita tedesca (come l’Olanda).

 

(Figura 2. Ripartizione delle esportazioni)

 

In compenso, la Germania ha aumentato il volume delle importazioni dai Paesi membri dell’Unione Europea (79 miliardi di euro), per effetto della netta divaricazione tra la sua crescita e la recessione che attanaglia tutti gli altri Stati concorrenti.

(Figura 3. Import-export tedesco)

 

Il che significa che la Germania ha orientato l’intera costruzione politico-economica europea al completo servizio delle proprie necessità, mentre gli altri Paesi hanno subito una progressiva marginalizzazione che li ha di fatto trasformati in fornitori a basso prezzo (per via della compressione salariale legata alle misure d’austerità) della componentistica e di merci dallo scarso o nullo valore aggiunto per conto della potenza industriale dominante. L’arretramento costante di Francia, Gran Bretagna e Italia – chiaramente testimoniato dal crollo del mercato intra-UE (rispettivamente dal 13 al 9%, dal 10 al 6% e dal 9 al 7%) –, strettamente connesso alle rigidità e alla “forza” della moneta unica, ha generato un forte malcontento in seno alle popolazioni, favorendo l’avanzamento di movimenti euro-scettici e dichiaratamente ostili al consolidamento della costruzione (come il “Movimento 5 Stelle” o l’“United Kingdom Indipendence Party”).

Ma anche all’interno della stessa Germania sono sorti malumori – dimostrati, tra le altre cose, dal discreto successo ottenuto dai “Piraten” –, causati dal massiccio trasferimento di ricchezza nazionale verso i Paesi europei più in difficoltà, che in caso di consolidamento dell’Unione Europea (incomprensibilmente – o forse no – ambito da quasi tutti i governi europei) vincolerebbe Berlino a versare annualmente una cifra quantificabile in circa 80 miliardi di euro (pari al 3% circa del Prodotto Interno Lordo tedesco). La stessa Cancelliera Merkel, che sarà imminentemente chiamata ad affrontare le elezioni politiche, deve aver seriamente valutato – a differenza dei “politicanti” francesi, britannici, italiani e spagnoli – i pro e i contro che comporterebbe la concretizzazione di questa prospettiva. Non a caso, ha lanciato segnali piuttosto ambigui in proposito, ostentando una certa freddezza (assolutamente senza precedenti per un per tale personaggio) per quanto concerne la tenuta dell’Eurozona. Con l’uscita dall’euro, si sbloccherebbero immediatamente i meccanismi di rivalutazione che conferirebbero al marco un valore assai notevole, che penalizzerebbe pesantemente l’export tedesco. Lo stesso Ministero delle Finanze tedesco ha condotto uno studio, prontamente pubblicato dal noto settimanale “Der Spiegel”, all’interno del quale si sostiene che l’implosione della moneta unica europea comporterebbe una caduta del Prodotto Interno Lordo tedesco pari al 9,2% e un aumento della disoccupazione prossimo al 10%, portando la massa dei senza lavoro oltre la soglia dei 5 milioni di persone.

D’altro canto, va tuttavia evidenziato il fatto che Berlino non sarebbe più costretta ad attingere ai propri surplus commerciali per coprire i deficit degli altri Stati (come ha regolarmente fatto finora) e che, collocandosi in questa posizione, la Germania risparmierebbe quegli 80 miliardi di euro annuali di versamenti in favore dei Paesi deboli previsti dal sistema di “solidarietà europea” (!). È per questo che la politica deflazionistica (tutta incentrata sulla compressione salariale) imposta ai Paesi meno solidi (di cui la Germania si è servita per rifornirsi) è stata sinora il compromesso che comportava meno svantaggi per Berlino, e che ha contribuito in maniera cruciale ad aggravare la recessione in tutta l’Europa mediterranea, distruggendo imprese ed eliminando migliaia di posti di lavoro.

La classe politica tedesca sarà dunque chiamata a decidere se mantenere lo stutus quo aderendo al progetto di consolidamento della struttura poltico-economica vigente o abbandonare l’Eurozona, dedicandosi all’intensificazione dei propri rapporti (già solidissimi) con i Paesi dell’Est, come Russia e Cina.

La Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe ha, dal canto suo, lanciato seri segnali a questo riguardo. Il giurista Udo Di Fabio, ex membro di tale Corte, ha affermato pubblicamente che: «Nella misura in cui la Banca Centrale Europea continua ad agire “ultra vires” [oltre il suo mandato], e queste violazioni sono prolungate e gravi, la Corte deve decidere se la Germania può, in base alla sua costituzione, restare un membro della unione monetaria» (1).

La Corte avrebbe quindi potuto dichiarare illegale il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), costituito allo scopo di acquistare titoli di debito spagnoli ed italiani attingendo alla sua riserva di 500 miliardi di euro, e l’Outright Monetary Transactions (OMT), il quale ha placato le fiammate di spread che stavano portano a picco Spagna ed Italia, cosa che avrebbe prodotto una profonda frattura in seno all’Eurozona.

Nel 2009 la Corte di Karlsruhe ha già riaffermato la sovranità nazionale sull’Unione Europea, ratificando il Trattato di Lisbona ma stabilendo (a differenza dagli altri Paesi), sulla base del fatto che sono i parlamenti democraticamente eletti i depositari della legittimità suprema, il primato degli Stati membri sui trattati stessi, di cui le nazioni non possono essere succubi. Il che significa, che la Germania si è riservata il diritto di ritirare la propria partecipazione al processo di consolidamento dell’Unione Europea qualora il sistema che sorregge l’Eurozona dovesse minare o mettere in discussione i poteri del Bundestag.  La sentenza “euroscettica” avrebbe peraltro goduto di un certo gradimento tra la popolazione tedesca. All’interno di un documento presentato alla Corte e sottoscritto da 37.000 cittadini tedeschi, tra cui spiccano noti economisti e prestigiosi docenti universitari, si leggono denunce contro la Banca Centrale Europea (BCE), accusata di aver abusato delle proprie funzione finanziando i deficit degli Stati in difficoltà.

Nel caso in cui fosse stata battuta questa strada, la Corte Costituzionale tedesca avrebbe vietato alla Bundesbank di contribuire, unitamente alle Banche Centrali degli altri Paesi membri dell’Eurozona, ai piani di salvataggio targati “troijka”. Il che avrebbe comportato automaticamente l’immediata fuoriuscita della Germania dall’euro, l’impennata degli spread, l’uscita scoordinata di tutti i Paesi membri dell’Eurozona e il conseguente crollo catastrofico della moneta unica. Il presidente della Bundesbank, dal canto suo, ha caldeggiato questa soluzione, inviando alla Corte un rapporto all’interno del quale il presidente della Banca Centrale Europea viene accusato di aver violato il principio di indipendenza della BCE annunciando pubblicamente che Francoforte avrebbe fornito il proprio sostegno “incondizionato” (su cui ci sarebbe molto da dire) alla tenuta dell’euro. Il tutto, per il momento, si è risolto con un sostanziale nulla di fatto, ma le posizioni assunte da Di Fabio e l’evidente scetticismo che serpeggia sia in seno alla potente Corte Costituzionale che tra la dirigenza di Berlino potrebbe giocare un ruolo cruciale nei mesi a venire. Dalle decisioni che la classe politica tedesca e la Corte di Karlsruhe saranno chiamate a prendere nel futuro prossimo dipende il futuro del “vecchio continente”.

 *Giacomo Gabellini è responsabile della sezione Europa per il CESEM e autore di diversi libri fra cui “Shock” e “La Parabola”.

NOTE

1. Ambrose Evans-Pritchard, German court case could force euro exit, warns key judge, “The Daily Telegraph”, 8 giugno 2013.

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