L’Unione Europea rischia l’isolamento. L’importanza della sua partnership con la Cina.

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di Stefano Vernole

L’Europa e l’Italia di fronte al bullismo U.S.A.

L’avvento dell’Amministrazione Trump ha indubbiamente chiarito una questione: il mondo è sempre più multipolare e chi si pone in competizione con gli altri soggetti geopolitici senza possedere i requisiti della sovranità rischia di schiantarsi. Questa considerazione vale a maggior ragione per l’Unione Europea che si percepisce quale vettore di esportazione dei “valori liberali” ma che è ancora oggi priva di un esercito autonomo e degli strumenti necessari a far rispettare le proprie convinzioni.

Non si tratta solo dell’assenza di una Costituzione o di un Ministro degli Esteri europeo; l’UE non possiede quello che è il requisito fondamentale della sovranità e cioè il monopolio della forza all’interno dei propri confini, dovendo condividere lo spazio geografico con l’ingombrante “alleato” nordamericano e subirne la volontà politica attraverso la NATO, che rimane un’organizzazione militare indiscutibilmente guidata da Washington.

Lo steso piano di riarmo europeo è impostato su uno schema perdente: o procede velocemente e perciò necessita dell’acquisto di armi statunitensi oppure si snoda lentamente, ma essendo programmato sulla creazione di debito nazionale ogni singolo Paese andrà a comprare dalle proprie aziende le dotazioni belliche previste, senza generare alcuna integrazione continentale.

Per quanto concerne l’Italia, la sua vulnerabilità è evidente. Si tratta del Paese che deve investire di più nel settore Difesa ma che è politicamente più vicino alla stessa Amministrazione Trump nel momento in cui gli Stati Uniti ricattano con i dazi l’Europa, costringendo quest’ultima ad acquistare energia ed armi dalle aziende d’Oltreoceano quale contropartita per la riduzione dei balzelli.

Per l’Italia, gli U.S.A. rappresentano il 10,4% dell’export nazionale (macchinari, farmaceutici, mezzi di trasporto, alimentari, tessuti e abbigliamento sono i principali prodotti esportati), dietro solo alla Germania, mentre la Cina vale il 2,5% dell’export italiano, senza però contare quella quota di prodotti italiani che vanno verso le aziende tedesche per essere poi riesportati nel Paese del Dragone.

Nel 2024 l’Italia ha registrato un ampio avanzo commerciale verso il mercato nordamericano, principalmente determinato da quattro grandi comparti manifatturieri:

Meccanica (10,8 miliardi), Alimentare-bevande-tabacco (oltre 7 miliardi di euro), Tessile-abbigliamento-pelli (oltre 5 miliardi di euro) e Mezzi di trasporto (6,1 miliardi di cui 3,5 nel solo comparto degli autoveicoli).

Tuttavia, se consideriamo la grande libertà fiscale che l’Italia concede alle multinazionali statunitensi presenti nel nostro Paese e il risparmio privato che “vola” con la finanza negli U.S.A. per acquistare dollari e titoli a stelle e strisce, la nostra bilancia commerciale nei confronti di Washington è probabilmente in passivo di almeno 6-7 miliardi di dollari1.

Il “caso Google” si inserisce in un contesto più ampio che vede le autorità fiscali di diversi Paesi impegnate a contrastare le strategie elusive dei giganti della tecnologia. Multinazionali come Apple, Amazon, Facebook e Microsoft sono da tempo nel mirino delle autorità per pratiche simili che prevedono lo spostamento dei profitti verso Paesi con regimi fiscali più favorevoli, spesso attraverso complesse strutture societarie internazionali.

Negli ultimi anni, l’Unione Europea e l’OCSE hanno intensificato gli sforzi per limitare questo fenomeno, con l’introduzione della cosiddetta “minimum global tax” – una tassa minima globale del 15% sugli utili delle multinazionali – approvata nel 2021 per impedire il dumping fiscale e garantire che le grandi aziende contribuiscano equamente ai sistemi tributari nazionali.

L’Italia, in particolare, ha dimostrato di voler giocare un ruolo attivo nella lotta all’evasione: oltre a Google, in passato anche Apple (318 milioni nel 2015) e Amazon (100 milioni nel 2017) hanno dovuto chiudere contenziosi fiscali con il nostro Paese con pagamenti milionari. La questione dell’equità fiscale rimane comunque aperta: quanto contribuiscono davvero i giganti del digitale ai bilanci dei Paesi in cui operano?

Ogni anno la Commissione Europea osserva che circa 300 miliardi di euro di risparmi europei confluiscono negli Stati Uniti per essere investiti a causa della mancanza di un mercato dei capitali solido nel Vecchio Continente2. Gli ostacoli alla sua realizzazione riguardano la resistenza dei singoli Stati membri ad una integrazione nel mercato finanziario europeo, la mancanza di nuove leggi sull’insolvenza e sulla tassazione così come di un approccio più armonizzato alla vigilanza bancaria.

Nell’ottobre 2020 è ufficialmente entrato in vigore il Meccanismo di controllo europeo degli Investimenti Diretti per proteggere le infrastrutture critiche, le tecnologie, le informazioni sensibili ed il pluralismo dei mezzi di informazione, la cui attuale forza non è però paragonabile a quella dell’omologo statunitense.

Il caso dei dazi statunitensi

Vista l’entità dei dazi comminati dall’Amministrazione Trump al nostro Paese – 20-25% di media – qualcuno potrebbe suggerire all’Italia di diversificare le esportazioni verso altri Stati europei ma essendo anch’essi sottoposti ai dazi statunitensi ciò potrebbe crearle dei problemi.

Come ammesso dallo stesso Mario Draghi, storico uomo della finanza angloamericana: “Siamo a un punto di rottura e nulla sarà come prima …”.

Dopo aver deciso di rinviare di 90 giorni l’entrata in vigore delle contromisure commerciali, originariamente previste per il 15 aprile 2025, la Commissione europea ha pubblicato, con il comunicato dell’8 maggio 2025, una lista di misure di ritorsione già annunciata da tempo. L’elenco rientra nei negoziati in corso con Washington per l’eliminazione sia delle tariffe già applicate sia di quelle previste, e sarà sottoposto a consultazione pubblica fino al 10 giugno.

La Commissione europea ha dichiarato che le contromisure si applicheranno “se i negoziati in corso tra l’UE e gli Stati Uniti non porteranno a un risultato reciprocamente vantaggioso e all’eliminazione dei dazi statunitensi”.

L’elenco, che comprende oltre 4.000 prodotti identificati tramite codice doganale HS, include beni industriali e agricoli e prodotti simbolo come le Harley Davidson.

Le tre tendenze che si sono nel frattempo affermate nell’arena globale riguardano:

  1. Il multipolarismo, formalmente accettato dagli stessi Stati Uniti, i quali giocheranno la carta dell’esportazione della “democrazia” in maniera selettiva e congrua alla propria visione geopolitica;
  2. Il conflitto strategico Cina-Stati Uniti d’America;
  3. Il mercantilismo economico coniugato all’interesse nazionale in politica estera.

Secondo gli analisti, in una scala immaginaria della percezione del rischio geopolitico, in alto troviamo il conflitto russo-ucraino e in basso quello israelo-palestinese, mentre i dazi statunitensi si trovano quasi sullo stesso livello della pandemia dovuta al virus Covid-19.

Tali novità impongono alle imprese europee di allineare la gestione del rischio con gli obiettivi strategici e l’approvvigionamento di “terre rare” – metalli di cui la Cina è estremamente ricca – diviene determinante nella catena di approvvigionamento globale.

Le aziende del Vecchio Continente sono quindi costrette a:

  1. inserire il concetto di “rischio geopolitico” nei processi manageriali strategici, creando un team dedicato interno;
  2. ricercare nuovi equilibri tra compliance ed innovazione;
  3. diversificare i mercati;
  4. gestire le catene di fornitura, soprattutto per ricevere le materie prime;
  5. sviluppare partnership con aziende straniere e formare consorzi d’impresa;
  6. avere una visione di lungo periodo: l’incertezza nei prossimi anni diventerà la nuova normalità.

I tre obiettivi fondamentali che l’Amministrazione Trump mira ad ottenere con l’emanazione dei dazi sono:

  1. Far esplodere una parte dell’enorme bolla speculativa ricreatasi negli Stati Uniti dopo la crisi finanziaria del 2008, cercando nel contempo di incamerare un po’ di liquidità per fronteggiare il gigantesco debito pubblico e privato statunitense;
  2. Reindustrializzare il Paese costringendo le aziende più performanti a spostare la produzione negli Stati Uniti, evitando i dazi e attirandole con condizioni fiscali più favorevoli rispetto all’Europa. Ciò riguarda soprattutto il comparto dell’alta tecnologia, un esempio per tutte la taiwanese TSMC, leader nel comparto dei semiconduttori3;
  3. Lanciare una sfida strategica alla Cina, lasciando intendere ai vari Paesi colpiti dai provvedimenti commerciali statunitensi che se accetteranno le condizioni della Casa Bianca verranno esentati dai dazi e insinuando che in caso contrario il loro mercato potrebbe essere invaso dai prodotti cinesi “a basso costo”: in pratica, costringendo gli Swing States ad effettuare una scelta tra Washington e Pechino4.

Sostanzialmente, il nuovo Presidente U.S.A. replica quanto già aveva iniziato a fare Joe Biden durante la scorsa Amministrazione ma in maniera meno ideologica e più aggressiva.

Nonostante le serie divergenze in atto, finchè non acquisirà una vera autonomia strategica militare e tecnologica, l’Europa non sarà in grado di reggere una guerra commerciale con gli Stati Uniti e dovrà accettare duri compromessi.

Allo stato attuale, la Cina può intanto aumentare la propria azione diplomatica verso i singoli Paesi europei meno ricattabili dagli Stati Uniti, ad esempio l’Ungheria, la Slovacchia, il Portogallo, la Spagna e la Francia, nella speranza che l’Europa acquisisca una fisionomia geopolitica indipendente.

Si tratta della stessa postura che Pechino sta assumendo verso diverse nazioni extraeuropee che si trovano nella medesima situazione, dai Paesi dell’Asean, al Giappone, alla Corea del Sud e alla stessa India.

Contemporaneamente, la Cina deve prepararsi ad ogni evenienza e, nel caso Trump insista con le sue minacce, predisporre un Piano B; accelerazione della dedollarizzazione, coinvolgimento totale dei Paesi del Sud Globale a favore di un ordine internazionale economico più equo, maggiore integrazione e coordinamento del formato BRICS plus.

Vista l’esigenza statunitense di accaparrarsi il più possibile terre rare e metalli per la competizione tecnologica e militare con Pechino, il terreno di scontro attraverserà l’intera Africa e Paesi come Myanmar, Vietnam, Thailandia, Brasile, Cile, Serbia ed Ucraina.

Gli Stati Uniti aumenteranno il peso del loro soft power anche in Paesi geograficamente importanti come l’Italia, alzando il livello della propaganda anti-cinese.

L’Europa, invece, deve capire che la cooperazione con la Cina non pone pre-condizioni politiche, perciò abbandonando la sua retorica ideologica otterrebbe risultati pratici vantaggiosi per tutti; la Repubblica Popolare Cinese contribuisce per oltre 1/3 allo sviluppo manifatturiero mondiale senza minacciare nessuno, seppure gli Stati Uniti la ritengano un pericolo per la propria supremazia. Questa è la ragione per la quale Washington vuole continuare a fare affari con la Cina pur definendola un nemico politico e continuando ad ingerirsi nei suoi affari interni, che si tratti di Taiwan o dello Xinjiang.

Se davvero vuole eliminare il problema dei dazi, l’U.E. dovrebbe scegliere il lato cinese, perché è importante sostenere fermamente le proprie posizioni quando si tratta con gli U.S.A. e denunciare congiuntamente le pratiche commerciali illegali statunitensi contribuisce ad allontanare il pericolo di una nuova guerra mondiale.

Al contrario, se persevererà nella propria ottusità, l’Unione Europea non solo rimarrà completamente isolata sul piano internazionale dopo aver accumulato problemi con tutti le principali potenze, dalla Russia agli Stati Uniti d’America, dalla Repubblica Popolare Cinese all’India, ma rischierà di mandare in frantumi le sue storiche aspirazioni appena i singoli Stati membri prenderanno coscienza che gli oneri dell’appartenenza ad un’organizzazione sovranazionale superano i benefici che attualmente ricevono dalla loro fedeltà a Bruxelles.

L’importanza globale della Cina può aiutare l’Europa ad affermarsi

L’ascesa pacifica della Repubblica Popolare Cinese negli ultimi 40 anni è stata decisiva per il miglioramento economico di una fetta consistente dei Paesi in via di sviluppo; ciò ha indubbiamente favorito la stabilità internazionale di alcune zone del Pianeta e molti investitori internazionali hanno preferito spostare i loro capitali in Asia.

Naturalmente è la stessa visione geopolitica della Cina a favorire un mondo equilibrato rispetto ad uno conflittuale che ne ostacolerebbe le iniziative commerciali; Pechino preferisce un modello basato sull’economia reale, produttiva, rispetto a quello post 1991 impostato sulle crisi scatenate dal Pentagono in combutta con la finanza speculativa a stelle e strisce.

I cinque principi storici per la coesistenza pacifica e l’Iniziativa di Sicurezza Globale che sono alla base della diplomazia cinese le hanno intanto permesso di risolvere pacificamente le varie controversie di confine con Paesi significativi come la Russia e l’India; con quest’ultima, in particolare, oggi la Cina condivide l’appartenenza ad almeno tre grandi organizzazioni internazionali comuni: i BRICS, l’OCS e il RCEP, mentre con Mosca sta armonizzando la B.R.I. con il progetto russo Razvitie5.

La Repubblica Popolare Cinese ha più volte tentato di convincere l’Unione Europea dell’opportunità strategica del loro rapporto; pochi anni fa stava per essere firmato un partenariato comune sugli investimenti, fortemente supportato da Angela Merkel (la Germania era l’unico Paese europeo in surplus commerciale con la Cina), che avrebbe abbassato notevolmente le tariffe doganali tra i due colossi economici, favorendo indirettamente lo sviluppo dell’Italia settentrionale quale tradizionale subfornitrice dell’industria tedesca.

Il dialogo sul trattato si è bloccato a causa dell’insistenza di Bruxelles sulle errate informazioni che riceveva riguardo al rispetto dei diritti umani nello Xinjiang, frutto anch’esse della mancanza di un sistema informativo europeo autonomo dalle influenze angloamericane6. Pechino l’ha logicamente interpretata come un’indebita ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano ed è iniziata da allora una querelle diplomatica con reciproche sanzioni.

La Cina, comunque, può diventare un partner indispensabile per il processo di transizione ecologica voluto dall’Europa e rilanciare la partnership bilaterale fornendo adeguate garanzie istituzionali.

La Belt and Road Initiative rappresenta ad oggi l’unico grande progetto infrastrutturale globale concreto, in espansione e costantemente finanziato da istituzioni finanziarie internazionali, fornendo un contributo concreto al rilancio del commercio mondiale dopo le due difficili pause dovute alla crisi dei mutui subprime nel 2008 e alla pandemia nel 2020.

La B.R.I. incarna idealmente l’antica Via della Seta, che è stata in grado di collegare Occidente e Oriente non solo dal punto di vista economico ma anche culturale. Pechino la concepisce complementare e non rivale di un analogo progetto infrastrutturale europeo, la Global Gateway: Bruxelles non potrebbe che trarne giovamento per uscire dall’attuale recessione economica7.

Il tentativo atlantista di aggirare la Belt and Road Initiative magari costruendo la “Via del Cotone” o IMEC (Corridoio economico India-Medio Oriente teorizzato dagli Stati Uniti) si scontra non solo con la penuria di capitali messi finora a disposizione ma anche con un fattore geografico ineludibile: per far entrare in Italia le merci provenienti dall’Asia, la destinazione principale sarebbe il Porto del Pireo, in Grecia, di proprietà cinese ed oggi più importante hub logistico del Mediterraneo8. Ogni tentativo di disaccoppiamento appare irrealizzabile.

Tale concetto è ben dimostrato dalla conclusione con una tregua (provvisoria?) della prima querelle sul protezionismo tra Stati Uniti e Cina. Dopo un intenso fine settimana di colloqui in Svizzera, le delegazioni dei due Paesi hanno annunciato un accordo che a partire dal 13 maggio mette in pausa per 90 giorni l’applicazione delle nuove tariffe reciproche, innescata dalla Casa Bianca lo scorso 2 aprile in quello che Donald Trump presentò al mondo come il “Liberation day”.

In base all’intesa, Washington ha accettato di ridurre i dazi imposti ai prodotti cinesi, schizzati dal 145% al 30%; Pechino ha accettato di fare lo stesso, portandoli al 10% dal 125% e revocando altre misure di ritorsione, come le restrizioni alla vendita di minerali e terre rare.

Pur mostrandosi ancora cauto, il Presidente cinese Xi Jinping si è limitato a sottolineare – aprendo a Pechino i lavori del Forum con la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac) – che “non ci sono vincitori in una guerra commerciale” e che il protezionismo “porta all’isolamento”. In una nota congiunta, Pechino e Washington hanno sottolineato l’importanza delle loro relazioni economiche, auspicando di avere rapporti commerciali “sostenibili, di lungo termine e reciprocamente vantaggiosi”.

 Nei prossimi mesi, fanno notare diversi osservatori, la Cina dovrà affrontare un dazio reciproco del 10%, esattamente come tutti gli altri Paesi, nonostante sia stata l’unico attore internazionale ad aver osato sfidare Trump. Gli economisti concordano sul fatto che gli Stati Uniti si sono visti costretti a una precipitosa marcia indietro dopo aver aumentato i dazi troppo rapidamente e ad un livello troppo elevato9. Nonostante questa pausa, sono in tanti a pensare che le relazioni bilaterali tra i due Paesi resteranno problematiche, e che l’imprevedibilità di Trump spingerà Pechino a continuare a diversificare i suoi mercati di esportazione e a cercare di stimolare una maggiore domanda interna.

I vantaggi geopolitici della partnership Cina-U.E.

Grazie ad una rinnovata relazione politico-economica con Pechino, Bruxelles potrebbe andare a parlare con le nazioni del Sud globale in maniera molto più credibile, perché la Cina è considerata dai Paesi in via di sviluppo in Asia, Africa e America Latina una nazione che intrattiene rapporti di cooperazione paritari, win-win: “L’accordo tra Cina e Stati Uniti rispetto una riduzione temporanea dei dazi ha un costo economico, perché comunque lascia una situazione peggiore per il commercio internazionale di quella che c’era prima del 20 gennaio. Ma, soprattutto, ha un costo politico perché toglie forza alle scelte estemporanee di Donald Trump che si è trovato a dover fare un accordo con quello che è stato individuato come l’avversario principale. Certamente è possibile per il Presidente Usa rivendicare come il livello di dazi raggiunto fosse quello pensato fin dall’inizio e reso possibile solo tramite negoziazione, ma nel frattempo la credibilità degli Stati Uniti come partner stabile e affidabile è stata messa in discussione. Un prezzo che potrà essere pagato dagli Usa in Europa e in Asia, con Giappone, Corea del Sud e Asean, nel futuro”10.

Inoltre, oscillando tra diverse alternative geopolitiche, cioè aumentando o diminuendo la connettività economica con le varie regioni a seconda del loro comportamento, l’Unione Europea risulterebbe molto più appetibile come potenziale partner per le grandi potenze e verrebbe “corteggiata” maggiormente per evitarne lo scivolamento nel campo avverso. Finora, rimanendo incastonata nello schieramento atlantico e ideologicamente rigida, l’Unione Europea si è trovata isolata e non influente a livello internazionale, rischiando di infilarsi in un meccanismo di confronto a somma zero con Cina e Russia. Legandosi permanentemente ad una regione geoeconomica guidata dagli Stati Uniti, sia gli associati interni che gli attori esterni non hanno alcuno stimolo a prendere in considerazione gli interessi europei. L’impulso di Bruxelles ad utilizzare le sanzioni per correggere il “comportamento sbagliato” dei partner si traduce in azioni di autolesionismo contro la propria posizione geoeconomica e non tiene in considerazione il cambiamento nella distribuzione internazionale di potenza.

L’U.E. si trova in una posizione simile a quella della Turchia e dell’India, perciò dovrebbe attuare le medesime politiche di riposizionamento tra il partenariato transatlantico e l’Eurasia. In un contesto globale multipolare, le altre nazioni vedono in ogni caso l’Europa come uno dei poli geopolitici in concorrenza tra loro e non ne accettano l’autoproclamato primato morale, a maggior ragione perché non la considerano autonoma quando si tratta di prendere una decisione strategica.

Il precedente iraniano è esemplare al riguardo. L’Accordo sul nucleare del 2015, il “Joint Comprehensive Plan of Action” (JCPOA) era un’intesa raggiunta dall’Iran ed il gruppo 5+1, ovvero i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti) più la Germania, oltre all’Unione Europea. L’obiettivo primario del JCPOA è impedire all’Iran di sviluppare una tecnologia tale da permettergli di costruire ordigni atomici ma sufficiente a consentirgli di proseguire il programma volto alla produzione di energia nucleare ad usi civili.

Come conseguenza dell’accordo, all’inizio del 2016 erano state rimosse le sanzioni economiche in precedenza imposte dagli Stati Uniti (solo quelle secondarie, mentre le primarie, ovvero quelle che colpiscono cittadini statunitensi coinvolti in attività commerciali con l’Iran, non sono mai state nemmeno sospese), dall’Unione Europea e dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (emanate con la Risoluzione 1747). La decisione del Presidente USA Donald Trump nell’agosto 2018 di uscire dall’intesa e reintrodurre sanzioni economiche “al massimo livello” ha però scombussolato le carte (le prime sanzioni statunitensi contro l’Iran risalgono al 1981); il Governo di Teheran ha allora annunciato un forte disimpegno visto che gli altri partner firmatari del JCPOA non riuscivano a compensare le misure punitive adottate da Washington.

Il problema maggiore ha riguardato l’extraterritorialità delle sanzioni statunitensi che vanno a colpire indistintamente tutti coloro che direttamente o indirettamente vogliono commerciare con l’Iran, dalle imprese cinesi, alle multinazionali francesi alle banche italiane, mentre nel sistema finanziario le sanzioni sono aggravate dall’impossibilità di effettuare bonifici tramite il meccanismo di messaggistica bancaria SWIFT, storicamente sotto il controllo di Washington.

L’Unione Europea ha varato lo “Special Purpose Vehicle” (SPV), un sistema per supportare gli scambi commerciali da e verso l’Iran, effettuando i relativi pagamenti senza esporre le aziende europee al rischio di ripercussioni da parte degli Stati Uniti. L’SPV avrebbe dovuto funzionare come una forma sofisticata di baratto o permuta: le esportazioni iraniane verso l’Europa avrebbero dovuto permettere a Teheran di accumulare un credito da utilizzare per l’acquisto di prodotti europei. Per esempio, vendendo merci iraniane a controparti francesi, l’Iran avrebbe ricevuto un credito corrispondente al valore della transazione da utilizzare per l’acquisto di merci italiane.

L’SPV si chiama ufficialmente INSTEX (“Instrument in Support of Trade Exchanges”) e ha come base “fisica” una società che gestisce il canale finanziario necessario ad effettuare gli scambi, senza il bisogno di transazioni bancarie dirette. Tale società, che ha i Governi di Parigi, Berlino e Londra come azionisti, è registrata in Francia.

Questa ripartizione di competenze – uno dei nodi più difficili da sciogliere, tanto da concorrere a ritardare il momento del lancio del Veicolo – veniva dettata dalla volontà di suddividere la responsabilità dell’SPV tra i principali alleati degli U.S.A. in Europa (nonché tra i Paesi che hanno partecipato al negoziato sul nucleare con l’Iran), ed evitare di esporre un solo Stato al rischio di ripercussioni statunitensi. Subito dopo l’annuncio della creazione del Veicolo da parte dell’Alto Rappresentante europeo Federica Mogherini, il Segretario al Tesoro statunitense Steven Mnuchin ha messo in guardia gli europei dal procederne all’implementazione, minacciando di punire qualunque meccanismo venisse sviluppato per evitare le sanzioni USA: “Se volete esser parte del sistema del dollaro, dovete attenervi alle sanzioni statunitensi”11.

Progressivamente, l’Iran si è sentito tradito dalle promesse europee e ha preferito firmare un partenariato strategico economico con la Russia e con la Cina, riprendendo i colloqui sul nucleare su richiesta della nuova Amministrazione Trump ma snobbando fondamentalmente l’Unione Europea ritenendola priva di sovranità (lo stesso sta avvenendo per i colloqui tra Russia e Ucraina).

Si è trattato di un evidente scacco per Bruxelles che nel Vicino e Medio Oriente ha interessi geopolitici non necessariamente coincidenti con quelli di Washington, come la questione palestinese ha dimostrato anche recentemente.

L’U.E. deve accettare che la sua egemonia nello spazio paneuropeo ed il suo primato globale con gli Stati Uniti sono giunti al termine; il peso politico deve riflettere la potenza effettiva, altrimenti il perseguimento di obiettivi irrealistici compromette la riuscita anche di quelli realistici.

Sempre più aziende europee comprendono che l’aumento della propria efficienza economica nel mondo multipolare richiede che ci si connetta maggiormente alla Cina. La Repubblica Popolare, certamente, preferirebbe avere a che fare con un interlocutore unico, unito e non frammentato in aree geoeconomiche sempre più distanti (differenze europee Nord-Sud- Est-Ovest e nel mercato interno) ma non avrebbe problemi ad adattarsi ad una nuova situazione di divisione continentale, data la mancanza di un attore indipendente con cui potersi relazionare.

Un’altra occasione è concessa dalla conclusione del primo vertice U.E.-Asia centrale (Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan) che si è svolto a Samarcanda lo scorso 4-5 aprile. Aldilà della solita retorica sulle note questioni e pur tradendo la subordinazione dell’Europa al doppio standard atlantico in materia di sanzioni e rispetto dei diritti umani, l’incontro ha segnalato la preoccupazione di Bruxelles e la sua volontà di cooperare nella regione su questioni concrete, quali:

la cybersecurity e le minacce ibride;

le minacce chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari;

la prevenzione e il contrasto della radicalizzazione e del terrorismo;

il rafforzamento della sicurezza delle frontiere;

la prevenzione del traffico di stupefacenti e della tratta di esseri umani;

l’avvio di un dialogo dedicato al contrasto del terrorismo e dell’estremismo violento e il potenziamento della resilienza della società contro la disinformazione.

I leader hanno convenuto che la cooperazione regionale globale e approfondita perseguita dovrebbe basarsi sulla piena attuazione degli attuali e futuri accordi bilaterali rafforzati di partenariato e di cooperazione (ARPC). Tali accordi stabiliscono quadri giuridici per una cooperazione bilaterale più efficace in un’ampia gamma di settori. Un ARPC tra l’UE e il Kazakhstan è già in vigore dal 2020 e i presenti hanno accolto con favore la firma dell’ARPC tra l’UE e il Kirghizistan avvenuta nel giugno 2024, attendendo ora con interesse quella con l’Uzbekistan e il Tagikistan.

I partecipanti al vertice hanno ribadito la necessità di sostenere la piattaforma di coordinamento per i progetti infrastrutturali critici lungo il Corridoio di Mezzo, ad esempio il corridoio di trasporto transcaspico. Il progetto porterebbe alla creazione di una rotta logistica moderna ed efficiente che collegherebbe l’Europa e l’Asia in 15 giorni o meno, rafforzando la connettività, agevolando la cooperazione e promuovendo la crescita economica tra le nazioni dell’Asia centrale12.

Conclusioni

Se la regione transatlantica ha reso gli Stati Uniti la principale potenza in Europa, almeno dal 2020 anche la Cina si è affermata nel Vecchio Continente come un attore geoeconomico di prim’ordine, divenendo il principale associato della U.E. nello scambio di merci.

All’interno della Grande Eurasia, la Cina tratta l’Europa come un’entità regionale autonoma ma, vista la situazione sopra descritta, ha sviluppato altresì approcci sottoregionali come il formato 16+1, un forum incentrato soprattutto su commercio, trasporti, infrastrutture e investimenti, o impegni bilaterali con i singoli Stati membri13. Il formato 16+1 che accoglieva Albania, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Montenegro, Macedonia del Nord, Polonia, Romania, Serbia, Slovenia e Slovacchia era diventato 17+1 con l’ingresso della Grecia nel 2019 per poi perdere negli ultimi anni i tre Paesi Baltici, ufficialmente per ragioni economiche ma in realtà per controversie geopolitiche dovute alla pressione statunitense.

In futuro, la Cina sosterrà l’Unione Europea nella misura in cui l’U.E. istituirà con la Cina un partenariato ufficiale che le assicuri un sufficiente accesso al mercato interno europeo; l’Europa può conseguire la propria autonomia strategica e tramutarsi in un polo di potenza indipendente all’interno della Grande Eurasia di cui è sostanzialmente la penisola occidentale, oppure vedersi smembrata dai vari schemi di connettività economica che ne minano la coesione interna. Gli Stati europei si trovano di fronte al dilemma se agganciarsi alla locomotiva economica cinese per essere geopoliticamente rilevanti oppure declinare sempre più velocemente all’interno di un progetto senza sbocchi positivi come quello transatlantico.

Cina e Unione Europea celebrano quest’anno il 50° anniversario dell’avvio delle relazioni diplomatiche in un contesto internazionale segnato da crescenti tensioni e sfide globali condivise. Il presidente Xi Jinping ha rivolto messaggi ufficiali ai vertici europei, Antonio Costa e Ursula von der Leyen, rilanciando l’importanza di una partnership solida, strategica e orientata al lungo termine. A Pechino, la Delegazione dell’UE ha organizzato una conferenza dal titolo “Promuovere l’equilibrio, mantenere gli impegni, assumersi responsabilità”, che ha riunito oltre 500 partecipanti tra diplomatici, studiosi ed esponenti istituzionali. Dal 1975, i rapporti tra Bruxelles e Pechino si sono sviluppati su basi di rispetto e mutuo vantaggio, il commercio bilaterale ha superato i 785 miliardi di dollari e il China-Europe Railway Express è divenuto un asse logistico cruciale14. Oggi, il dialogo resta il pilastro della partnership sino-europea: per entrambi gli attori, rafforzare il coordinamento multilaterale e affrontare congiuntamente le grandi sfide del nostro tempo è un obiettivo più che mai necessario.

NOTE AL TESTO

1 Nel febbraio 2025 l’azienda statunitense Google ha accettato di pagare 326 milioni di euro allo Stato italiano per chiudere ogni pendenza con il Fisco, mettendo fine all’indagine della Procura di Milano che ipotizzava un’evasione fiscale di circa un miliardo di euro tra il 2015 e il 2019. L’inchiesta della Guardia di Finanza e della Procura di Milano era partita da un’ipotesi ben precisa: Google avrebbe generato miliardi di euro di ricavi in Italia senza dichiarare al Fisco una presenza fiscale stabile, sfruttando la sua sede legale in Irlanda, dove la tassazione per le multinazionali è significativamente più vantaggiosa rispetto a quella italiana. Secondo gli inquirenti, i server e l’infrastruttura tecnologica di Google presenti sul territorio italiano costituivano una “stabile organizzazione occulta”, un’entità che, di fatto, permetteva alla società di erogare i propri servizi digitali senza versare le imposte sui profitti generati nel nostro Paese. Oltre alla mancata dichiarazione dei redditi, veniva contestata anche l’omessa presentazione delle dichiarazioni annuali di sostituto d’imposta, in relazione alle royalties pagate a società estere del gruppo per l’uso di algoritmi, marchi e proprietà intellettuali. Non è la prima volta che Google si trova a dover regolare conti con il Fisco italiano. Nel 2017, la multinazionale aveva già accettato di pagare 306 milioni di euro per chiudere un’altra inchiesta per evasione fiscale che riguardava gli anni dal 2009 al 2013. Cfr. Cristina Volpe Rinonapoli, Google paga 326 milioni al Fisco italiano: il colosso chiude il contenzioso, ma l’ombra dell’evasione fiscale resta, “Italia informa”, 19 febbraio 2025.

2 Gian Maria Gros Pietro, Un’unione dei risparmi che superi la stasi attuale, “Il Sole 24Ore”, 19 marzo 2025.

3 Trump: Tsmc investirà almeno 100 miliardi in Arizona, “Il Sole 24Ore”, 3 marzo 2025.

4 Un esempio emblematico riguarda Panama. Il conglomerato CK Hutchison, creato dal miliardario di Hong Kong Li Ka-shing, su pressione del locale Governo incalzato a sua volta dagli Stati Uniti, aveva deciso di cedere le sue attività portuali mondiali al di fuori della Cina, tra cui due porti all’ingresso del Canale di Panama, a un consorzio guidato dal gestore patrimoniale statunitense BlackRock per un importo di 19 miliardi di dollari (17,6 miliardi di euro). Ma aveva fatto i conti senza la reazione di Pechino, che ha attivato i suoi strumenti per bloccare l’intesa: l’Antitrust cinese intende riesaminare gli accordi di vendita stretti tra il gigante di Hong Kong e il consorzio statunitense. L’iniziativa dell’Amministrazione statale per la regolamentazione del mercato cinese mira a “proteggere la concorrenza leale sul mercato e salvaguardare l’interesse pubblico”, ha dichiarato un portavoce dell’autorità, citato dal quotidiano Ta Kung Pao.

5 Laura Ruggeri, CINA E RUSSIA, RELAZIONI CULTURALI A UN LIVELLO SUPERIORE, “Italia-Brics”, 27 marzo 2024.

6 Alessandro Orsini, Casa Bianca-Italia. La corruzione dell’informazione in uno Stato satellite, Paper First, 2025. Il 22 marzo 2021 l’Unione Europea ha comminato sanzioni a quattro funzionari cinesi nonché ad un’istituzione cinese, che prevedono divieto di viaggio ed affari con la U.E.; la Cina ha a sua volta risposto sanzionando 11 funzionari europei tra cui parlamentari, accademici ed enti europei, ai quali è stato proibito l’ingresso in Cina, Hong Kong e Macao, mentre alle aziende e alle istituzioni coinvolte è stato proibito di fare affari con la Cina stessa.

7 Global Gateway è la strategia europea volta a promuovere collegamenti intelligenti, puliti e sicuri nei settori del digitale, dell’energia e dei trasporti e a rafforzare i sistemi della sanità, dell’istruzione e della ricerca in tutto il mondo. La Commissione europea e l’Alto rappresentante dell’UE hanno varato la strategia nel 2021. Global Gateway punta a mobilitare fino a 300 miliardi di euro di investimenti entro il 2027 attraverso l’approccio Team Europa, che riunisce l’UE, i suoi Stati membri e le relative istituzioni nei settori della finanza e dello sviluppo. L’obiettivo è generare un profondo cambiamento nei settori del digitale, del clima e dell’energia, dei trasporti, della salute, dell’istruzione e della ricerca. La strategia si concentra su investimenti intelligenti in infrastrutture di qualità, rispettando le più rigorose norme sociali e ambientali, in linea con gli interessi e i valori dell’UE: Stato di diritto, diritti umani e norme e standard internazionali. Il 19 maggio 2025, la Commissione europea ha tagliato le stime di crescita dell’Eurozona e dell’Italia nel 2025, confermando uno scenario di crescita “modesta” (0,9% per l’eurozona e 0,7% per l’Italia).

8 “Il progetto è stato immaginato per migliorare la connettività e l’integrazione economica tra l’Asia, il Golfo Arabo e l’Europa attraverso la realizzazione di due corridoi principali: uno orientale, che collega l’India al Golfo, e uno settentrionale, che collega il Golfo all’Europa. L’Imec dovrebbe includere una rete ferroviaria, un sistema di trasporto combinato nave-ferrovia e rotte stradali, così da facilitare il transito di merci e servizi tra India, Emirati, Arabia Saudita, Giordania, Israele ed Europa. Di questo progetto se ne parla ormai da due anni. Non è stato fatto un solo passo concreto per iniziare la sua realizzazione, eppure i media occidentali sono improvvisamente tornati ad elogiare l’Imec, definendolo quando un’alternativa alla Nuova Via della Seta cinese, quando un progetto necessario per unire Asia ed Europa tagliando fuori la Cina … Mentre i conflitti in corso a Gaza, Yemen, Siria e Libano rendono investitori e stakeholder esitanti ad impegnarsi in un progetto così volatile e rischioso, ci sono svariati attori rilevanti che non sono stati inclusi nel progetto e che dunque si oppongono alla realizzazione (Turchia in primis). Terzo punto da considerare, l’intero piano, dopo due anni dal suo annuncio, è ancora percepito come poco sviluppato e potenzialmente irrealizzabile … L’India mostra insomma segnali di rallentamento dovuti a varie contraddizioni interne, che Modi dovrà risolvere al più presto se vorrà davvero far entrare Delhi nel club dei Paesi sviluppati entro il 2047. Nel frattempo il tempo stringe per tutti e dell’Imec non c’è ancora ombra. Forse, per l’Italia e l’Europa, più che puntare su un solo progetto varrebbe la pena mantenere in piedi più piste parallele, onde evitare di scommettere sul cavallo sbagliato”. Cfr. Federico Giuliani, Che fine ha fatto l’IMEC? Il miraggio del corridoio economico indiano, “Inside Over”, 28 aprile 2025. Lo stesso recente conflitto indo-pakistano, per ora tenuto sotto controllo, rappresenta un’incognita geopolitica non indifferente alla realizzazione dell’IMEC.

9 ISPI, Dazi USA-Cina, guerra rimandata?, 13 maggio 2025.

10 Filippo Fasulo, ISPI, 13 maggio 2025.

11 Glenn Diesen, L’Europa, penisola occidentale della Grande Eurasia, Anteo, 2023, p. 219.

12 Consiglio Europeo, Primo vertice UE-Asia centrale, 4 aprile 2025. Principali risultati, consilium.europa.eu.

13 Tra questi progetti ricordiamo l’ammodernamento cinese della rete ferroviaria che va da Budapest a Belgrado con la riduzione del tempo di percorrenza da 8 a 3,5 ore, a cui si aggiunge una linea che arriva fino a Skopje.

14 Questa rete non solo migliora la connettività commerciale tra Cina ed Europa, ma supporta anche la crescita del commercio internazionale della Cina offrendo una soluzione logistica sostenibile ed efficiente. La tratta settentrionale è il corridoio principale per il trasporto merci ferroviario Cina-Europa, collegando città come Chongqing, Chengdu, Xi’an e Zhengzhou a destinazioni europee come Malaszewicze, Budapest e Duisburg, passando per la Russia.

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