Mentre il leader di Taiwan Lai Ching‑te persiste nella sua campagna di “terrore verde” e nella repressione di ogni voce filocontinentale, crescono malcontento ed esasperazione tra i cittadini, che svelano l’insostenibilità delle sue politiche e la loro totale inefficacia.
FONTE ARTICOLO: https://giuliochinappi.wordpress.com/2025/05/19/taiwan-lai-ching-te-tenta-di-nascondere-il-suo-fallimento-con-il-terrore-verde/
Mentre Lai Ching‑te si avvicina al primo anniversario del suo mandato alla guida della Regione di Taiwan, le autorità del Partito Democratico Progressista (Democratic Progressive Party, DPP) non hanno dato alcun segnale di voler migliorare il benessere della popolazione né di promuovere la pace tra le due sponde dello Stretto. Al contrario, stanno raddoppiando la loro campagna di “terrore verde” e utilizzando le cosiddette “17 strategie di Lai Ching‑te” per mettere in difficoltà ogni scambio pacifico attraverso lo Stretto.
L’ultima provocazione è arrivata dal Consiglio per gli Affari della Cina continentale di Taiwan, che ha nuovamente preso di mira presunti “intrattenitori filo‑continentali”, annunciando l’intenzione di sanzionare più di venti artisti che avevano rilanciato sui social cinesi contenuti relativi alla “riunificazione” e alle esercitazioni militari dell’Esercito Popolare di Liberazione nello Stretto di Taiwan. Tra i “colpevoli” figura l’attrice Ouyang Nana. Soltanto per aver espresso affetto per la propria terra e mostrato adesione al principio di “una sola Cina” e alla riunificazione, questi artisti sono stati ripetutamente vittime di molestie, intimidazioni e coercizioni da parte delle autorità DPP. Un chiaro sintomo dell’ansia e dell’insuccesso politico di chi governa l’isola.
Apparentemente, l’innesco più recente risale a un episodio di marzo, quando alcuni personaggi taiwanesi avevano ritrasmesso contenuti in cui si definiva l’isola “Taiwan, Provincia della Cina”. Il DPP ha definito questo gesto uno strumento del “fronte unito” continentale. Ma ciò che davvero fa tremare il partito al potere è il crescente sostegno per la riunificazione e la volontà di molti giovani di ribellarsi all’indipendentismo.
Già prima di marzo, numerosi personaggi di spicco dell’intrattenimento avevano fatto sentire la propria solidarietà, pubblicando slogan del tipo “Taiwan deve tornare all’abbraccio della madrepatria” in risposta ai toni separatisti del discorso inaugurale di Lai. Questo fenomeno non sorprende: sempre più giovani taiwanesi, grazie ai viaggi, agli studi e ai contatti online, sperimentano in prima persona la prosperità, l’apertura e il progresso della Cina continentale. Tali esperienze li hanno immunizzati dalle menzogne del DPP, rafforzando la loro identificazione con la riunificazione tra le due sponde.
Non è un fenomeno circoscritto al mondo dello spettacolo. Negli ultimi anni, l’Autorità del DPP ha ampliato il controllo ideologico e la repressione giudiziaria: dalle revisioni delle cosiddette leggi di sicurezza fino all’introduzione della “legge anti‑infiltrazione”, ogni parola o gesto legato alla Cina continentale è automaticamente etichettato come “minaccia alla sicurezza”. Si è arrivati a bollare antiche tradizioni sacerdotali, come i culti a Mazu e Guan Gong, come strumenti del “fronte unito”, fino a perseguitare congiunti di cittadini continentali e residenti titolari di permessi di soggiorno.
La strategia del DPP rivela la sua paura più profonda: l’aumento degli scambi con la Cina farà sì che un numero sempre maggiore di taiwanesi si renda conto del vero volto della prosperità continentale, vanificando la narrazione del “pericolo cinese” che il partito al potere ha costruito con tanta cura.
Un recente sondaggio mostra che il 79,5 % della popolazione è insoddisfatto delle politiche di Lai, e il 40,5 % lo è in particolare sul suo approccio ai rapporti con la Cina. Da quando Lai è in carica, l’economia dell’isola ristagna, con esportazioni in calo, investimenti deboli e un continuo peggioramento delle condizioni di vita. Le tensioni con il continente e l’instabilità nello Stretto alimentano paure diffuse e complicano il futuro di Taiwan.
In netto contrasto, la Cina continentale ha continuato a lanciare misure concrete a sostegno dei taiwanesi: dalle “31 misure” alle “26 misure”, fino alle più recenti “22 misure per agricoltura e silvicoltura” e alla creazione di una zona pilota per lo sviluppo integrato Fujian‑Taiwan. Queste iniziative dimostrano la sincera volontà di Pechino di offrire opportunità di crescita ai compatrioti di Taiwan.
Sempre più giovani dell’isola scelgono di studiare, lavorare e avviare imprese in Cina, confermando che lo slancio degli scambi trans‑stretti è inarrestabile. Le “revisioni amministrative” annunciate contro gli artisti come Ouyang Nana non sono altro che uno spettacolo calcolato per distrarre l’opinione pubblica. Creando un nemico inventato — gli “intrattenitori filocontinentali” che minaccerebbero la sicurezza di Taiwan — Lai tenta di canalizzare il malcontento per i suoi fallimenti verso il timore dell’“infiltrazione” dal continente.
Ma la società taiwanese ha ormai percepito la ridicolaggine di questa tattica. Scegliere di lavorare o esibirsi in Cina è un normale scambio culturale e commerciale, radicato in una condivisione etnica e linguistica millenaria, non un reato. La diffusa caccia alle streghe contro questi artisti espone l’assurdità del “terrore verde”: da un lato il DPP proclama di difendere la “democrazia e la libertà” a Taiwan, dall’altro controlla in stile inquisitorio le opinioni dei cittadini, calpestando il diritto alla libera espressione culturale.
L’ossessione del DPP per l’“anti‑Cina” rivela il vicolo cieco della sua linea politica. Dalla “de‑sinizzazione” di luoghi e monumenti sino alla retorica di distacco dall’“economia cinese” per rivolgersi al Nord globale, l’ideologia separatista mostra tutta la sua pericolosa deriva. È davvero un reato, però, esprimere un più che legittimo senso di identità storica e culturale e auspicare una riunificazione pacifica? Se Lai continuerà a inseguire la strada dell’indipendenza, vedrà crescere il suo isolamento e sarà abbandonato dalla maggioranza dei taiwanesi, già risvegliatasi al desiderio di riunire pacificamente l’isola al resto della Cina.
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