di Leslie Varenne | 26 maggio 2025
Traduzione di Jean Claude Martini
I francesi avevano appena consegnato le chiavi della loro base militare di Port-Bouët alle autorità ivoriane quando gli americani hanno annunciato il loro arrivo. Questo valzer a due tempi consente al presidente Alassane Ouattara di colmare il vuoto lasciato da Parigi. Tuttavia, gli Stati Uniti sono stati costretti a ridimensionare le proprie ambizioni, a ulteriore dimostrazione dei profondi cambiamenti in atto nel continente.
FONTE ARTICOLO: https://iveris.eu/cote-divoire-etats-unis-autopsie-de-la-nouvelle-donne/
Il 25 febbraio 2025, il ministro della Difesa Sébastien Lecornu ha consegnato ufficialmente la base militare francese di Port-Bouët al suo omologo ivoriano, Téné Birahima Ouattara. Tale trasferimento ha sancito la fine di 50 anni di presenza francese in questo luogo. In questo Paese vi sono ancora un centinaio di uomini impegnati nella cooperazione e nell’addestramento, ma privi di una base e di un comando indipendenti. Questo modo di “partire restando”, o viceversa, simboleggia l’erroneità del pensiero dell’Eliseo sulla questione. D’altro canto dobbiamo riconoscere che il presidente Ouattara ha giocato la partita in modo molto intelligente. Da un lato, anticipando il vuoto lasciato da Parigi, ha firmato un accordo di cooperazione militare con la Turchia nell’ottobre 2024. Poi, ha siglato nuovi protocolli con gli americani nel novembre 2024 e, infine, ne ha concluso uno col Marocco nel maggio 2025. I nuovi sviluppi nel mondo, uniti al posto vacante lasciato dalla Francia, che stuzzica molti appetiti, hanno cambiato la situazione. Essi hanno permesso al presidente ivoriano di elaborare una strategia per non dipendere più da un singolo attore che lo aiutasse a difendere il suo territorio e a garantire la propria sicurezza prima delle elezioni dell’ottobre 2025.
Questa nuova redistribuzione delle carte gli ha permesso altresì di negoziare passo dopo passo con gli Stati Uniti. Chi l’avrebbe mai creduto possibile qualche anno fa?
Il colpo di Stato del luglio 2023 in Niger ha segnato una vera e propria svolta. Le nuove autorità costrinsero gli Stati Uniti a lasciare il Paese e ad abbandonare Agadez, dove si trovava la seconda base di droni più grande dell’Africa. Una svolta senza precedenti nella Storia … Da quella data, essi sono alla ricerca di un nuovo punto d’ancoraggio. Abidjan si è rapidamente affermata come un rifugio privilegiato grazie al suo orientamento geopolitico, alla sua posizione strategica nel Golfo di Guinea, alla sua vicinanza al Sahel e alla buona cooperazione tra i due Paesi. Inizialmente l’idea era di ricreare una grande infrastruttura simile a quella andata perduta dopo il colpo di Stato di Niamey. Per un po’ circolò il nome di Odienné, poi gli Stati Uniti puntarono su Korhogo: erano pronti a costruirlo. Ma alla fine, dopo le trattative, gli ivoriani gli hanno imposto Bouaké e ancora in formato ridotto. Per installare i loro droni è stato loro concesso di utilizzare solo la parte orientale della pista dell’aeroporto cittadino.
Nel corso della sua visita nella capitale ivoriana il 16 maggio, il generale Langley, capo dell’American Africa Command (AFRICOM), ha ufficializzato il suo arrivo senza clamori. Nel corso di questo incontro è stato menzionato un vago progetto di base per questi aerei di ultima generazione ad Abidjan, ma senza dettagli sui tempi, sul luogo e nemmeno sulle dimensioni di questa futura costruzione.
Tuttavia, non è detto che questa riduzione delle loro ambizioni disturberà molto gli americani. I negoziati con la Costa d’Avorio sono iniziati prima che Donald Trump si insediasse alla Casa Bianca. Sin dal suo arrivo, la sua Amministrazione ha apertamente messo in discussione la necessità di mantenere una potenza militare significativa in Africa. Il futuro stesso dell’AFRICOM è incerto; questa organizzazione, autonoma dal 2007, potrebbe tornare sotto il Comando Europeo (EUCOM) per razionalizzare personale e spese, analogamente a quanto avviene in altri servizi governativi.
Non si tratta però di sole questioni di bilancio: sull’Africa, come sull’Ucraina e l’Iran, la squadra del presidente è divisa. Da una parte i sostenitori di una linea interventista, dall’altra gli isolazionisti che vogliono restare concentrati sull’America First. A Washington sono in corso dibattiti parecchio intensi. In questo campo MAGA, alcuni funzionari della Difesa vicini a Donald Trump ritengono che la presenza americana in Africa non sia una priorità geopolitica e che, inoltre, i risultati nella lotta al terrorismo siano contrastanti. D’altra parte, alcuni esponenti del Pentagono e del Congresso mettono in guardia dai rischi di un ritiro o di una drastica riduzione delle risorse, che potrebbero creare un vuoto di sicurezza a vantaggio delle potenze concorrenti e indebolire la cooperazione con gli alleati africani, in particolare contro i gruppi jihadisti. Quest’ultima argomentazione è speciosa, poiché la presenza militare degli Stati Uniti in Africa non ha mai respinto né Al-Qaeda né lo Stato Islamico. Il Niger, dove sono rimasti per più di dieci anni, ne è l’esempio migliore. La lotta al terrorismo è spesso servita da pretesto per mascherare altri obiettivi. Nel corso della sua audizione davanti alla Commissione per le forze armate del Senato, tenutasi il 3 aprile scorso, il generale Langley ha in un certo senso attestato ciò. Pur avendo rispettato il passaggio obbligatorio di brandire la minaccia dei gruppi terroristici che, a suo dire, «continuano a minacciare l’America», egli ha concentrato il suo intervento principalmente sui rischi geopolitici. «Trascurare l’Africa significa esporci a un pericolo strategico a lungo termine» ha dichiarato, agitando poi il drappo rosso sino-russo: «Non possiamo permettere al Partito Comunista Cinese e ai suoi partner a Mosca di superarci strategicamente». Infine, come era prevedibile, ha implorato per la sopravvivenza della sua bottega: «La presenza dell’AFRICOM è essenziale per contrastare gli attori malintenzionati e proteggere gli interessi americani». Parlando in questo modo, il capo delle forze americane in Africa ha chiaramente scelto da che parte stare. Solo pochi mesi fa, le sue osservazioni sarebbero state considerate un discorso convenzionale che gli avrebbe consentito di salvarsi la pelle. Ma, da allora, Donald Trump ha ribaltato la situazione e il mondo è appeso a un filo in attesa che lui decida su tutte le questioni importanti.
Il gioco di equilibri del presidente americano, preso tra due fronti, non può continuare. La prima decisione che deve prendere riguarda il conflitto tra Russia e Ucraina. Il modo in cui verrà decisa la fine di questa guerra avrà importanti ripercussioni su tutte le questioni internazionali. Se rimarrà fedele alle promesse della sua campagna elettorale e alla sua linea isolazionista, Donald Trump sceglierà di negoziare con la Russia e di ritirarsi dal pantano ucraino. Questo sviluppo modificherebbe profondamente la strategia americana non solo in Europa, ma anche sul territorio africano. In questo scenario di equilibrismo, Washington cesserebbe di essere in diretto conflitto con Mosca in Africa. La presenza americana nel continente potrebbe ridursi ulteriormente, a favore di una maggiore concentrazione sul Pacifico. Pertanto, la risoluzione del conflitto ucraino fungerebbe da barometro per l’intera politica estera americana, ridefinendo alleanze, priorità e la natura stessa dell’impegno di Washington con le potenze concorrenti.
Ad ogni modo, qualunque decisione venga presa non cambierà nulla per il continente. I tempi in cui erano attori stranieri a prendere decisioni per i Paesi africani sono definitivamente terminati. La Costa d’Avorio, che sotto il regno di Alassane Ouattara è tuttavia un’alleata incondizionata dell’Occidente in generale e degli americani in particolare, lo ha appena dimostrato.
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