Istituita nel 1957 come una comunità volta al rafforzamento della cooperazione economica tra Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, l’Unione Europea, così ribattezzata nel 1992, ha assunto caratteristiche sui generis, e la cooperazione tra stati si è estesa ad ambiti quali l’asilo, la gestione dell’immigrazione, la giustizia, la sicurezza, l’energia, l’ambiente e la politica estera.
A parere del primo Presidente della Commissione Europea, Walter Hallstein “Una delle ragioni che hanno spinto all’istituzione della Comunità Europea è stata di permettere all’Europa di giocare un ruolo di primo piano negli affari internazionali globali. È di vitale importanza per la Comunità essere in grado di esprimersi con un’unica voce ed agire in modo compatto nelle relazioni economiche con il resto del mondo”. Di fatto, dunque, sebbene la comunità europea delle origini ambisse ad una integrazione di tipo economico, esistevano in nuce gli elementi essenziali per prospettare la progettazione di un agire comune nelle relazioni internazionali.
I diritti umani nella politica estera comunitaria
Il rafforzamento della politica estera dell’Unione Europea e dei suoi stati membri può essere attribuita ad una serie di fattori esogeni ed endogeni e l’avvio di questo processo può essere collocato nel tempo e nello spazio. La caduta del muro di Berlino, nel 1989, e la fine della Guerra Fredda, fatta coincidere simbolicamente con la caduta del regime sovietico in Russia nel dicembre del 1991, causarono un cambiamento nei valori predominanti nelle relazioni internazionali e portarono con sé nuovi equilibri di potere, in virtù dei quali la neonata Unione Europea ebbe modo di ricoprire una posizione più autonoma rispetto all’ingombrante alleato statunitense e anzi centrale nel traghettare i paesi dell’Europa orientale e centrale, orfani dell’Unione sovietica, verso il liberismo e il liberalismo occidentali, limitando al contempo i flussi migratori provenienti dall’area attraverso il rafforzamento delle frontiere esterne comunitarie.
Oltre che da est, si assistette in quel medesimo periodo all’aumento di richieste di asilo da parte di decine di migliaia di migranti provenienti dal continente africano, dove l’insorgenza di un islam politico estremista e radicale arrivò a causare lo scoppio, nel 1992, di una decennale guerra civile in Algeria. Di conseguenza, l’Europa cominciò ad interessarsi del rispetto dei diritti umani “non soltanto di un paese vicino ma di uno stato dall’altra parte del globo, con l’interesse di non diventare improvvisamente meta di un quantitativo ingestibile di rifugiati”.
Ad essere implementato fu dunque l’utilizzo della clausola di condizionalità: come riportato sul sito del Parlamento Europeo, a partire dal 1989 gli accordi commerciali bilaterali e i vari accordi di associazione e cooperazione tra l’Ue e i paesi terzi o le organizzazioni regionali prevedono una clausola sui diritti umani che stabilisce come condicio sine qua non il rispetto di tali diritti.
La prima clausola in materia venne inserita nell’accordo che stipulava il partenariato tra la Comunità europea e l’organizzazione internazionale ACP (Gruppo degli stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico), la Convenzione di Lomé IV, nella quale le parti dichiaravano “il loro profondo interessamento nei confronti della dignità umana e dei diritti umani”. Tuttavia, non vi erano riferimenti a specifiche misure a garanzia degli stessi e non era stata prevista nessuna misura per la sospensione dell’accordo in caso di mancato rispetto di tali diritti.
Gradualmente, è stato introdotto un approccio più sistematico con, da un lato, una “clausola dell’elemento essenziale” che comporta l’impegno delle parti nei confronti dei diritti umani e dall’altro, una ‘clausola di non esecuzione’ che consente l’adozione di misure adeguate in caso di violazione dei diritti umani.
Una prima versione della clausola di non esecuzione – nota anche come “clausola del Baltico” perché inserita per la prima volta negli accordi bilaterali di commercio e cooperazione con gli Stati baltici – consentiva solo l’adozione di misure appropriate in caso di gravi violazioni dei diritti umani. Questa disposizione è stata rapidamente sostituita da una più sofisticata clausola di non esecuzione, nota come “clausola bulgara”, a causa della sua prima inclusione nell’Accordo europeo con la Bulgaria. Quest’ultima prevede un processo di consultazione preventiva prima di l’adozione di misure appropriate. Solo in “casi di particolare urgenza” e in risposta a gravi violazioni dei diritti umani è possibile intraprendere un’azione diretta. Nella selezione delle misure di risposta, la priorità deve essere data a quelle che disturbano meno il normale funzionamento dell’accordo. Ciò implica che le misure devono essere proporzionali alle violazioni e che la sospensione dell’intero accordo deve rappresentare l’extrema ratio.
Negli accordi più recenti, la clausola di non esecuzione fa parte di un articolo più ampio sull’“adempimento degli obblighi”, che inizia con una clausola generale sull’impegno delle parti a prendere tutte le misure necessarie per l’adempimento degli obblighi.
Simili clausole, tuttavia, creano, a parere di una certa retorica sostenuta in primis dalla Cina, attraverso un ipocrisia doppio standard, un vulnus dei principi fondamentali che hanno per secoli regolato la società internazionale – la sovranità degli Stati, la loro eguaglianza giuridica, la non-ingerenza nella giurisdizione interna – ai danni di paesi deboli nel contesto della comunità internazionale.
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