di Matteo Marchioni

L’escalation tra Iran e Israele del mese scorso, conclusasi con l’attacco israeliano ad Isfahan, il 19 aprile, ha ridefinito drasticamente l’equilibrio militare tra i due Paesi, mettendo in luce le capacità e i limiti strategici di entrambi. Per Teheran questo ha significato un ridimensionamento della minaccia proveniente da Israele e un’autoaffermazione quale potenza regionale dalle notevoli implicazioni rispetto a tutti gli Stati del Golfo. Va tenuto a mente, però, che la scelta dell’Iran di alzare la posta in gioco quasi fino al punto di non ritorno risponde a impostazioni ben radicate nella propria dottrina militare.

La contro-risposta israeliana, effettuata il 19 aprile contro l’Iran e mirante a distruggere il sistema di difesa antiaerea S-300 localizzato ad Isfahan, ha sigillato la parentesi della pericolosa escalation tra le due nazioni, a sua volta innescata dall’attacco di Israele contro il consolato iraniano a Damasco (1 aprile). Benché controllata, una simile scommessa al rialzo da parte dei due attori regionali ha seriamente corso il rischio di far precipitare il Vicino Oriente in un conflitto, il quale è stato scongiurato dal fatto che nessuno dei due contendenti potesse trarre un vantaggio oggettivo dal tirare la corda fino a spezzarla. Ciononostante, il botta e risposta militare merita un’analisi sotto alcuni aspetti: muta radicalmente il rapporto di forza tra Tel Aviv e Teheran ed impone ai Paesi del Golfo un cambio di paradigma circa le proprie relazioni con la Repubblica Islamica, rispetto a cui l’opportunità di un confronto – sempre desiderato da Washington con il fine di isolarla – potrebbe risultare ora meno conveniente di una qualche forma di intesa o collaborazione.

Il bombardamento israeliano sul consolato di Teheran a Damasco, il 1 aprile, condannato da Russia e Cina, innescò la miccia che ha portato la Repubblica Islamica ad attuare una rappresaglia senza precedenti, una decina di giorni dopo. Il 13 aprile, l’Iran ha dato il via all’operazione “Promessa Vera” per vendicare l’uccisione dei sette funzionari del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (IRGC) a Damasco. La rappresaglia è consistita nel primo attacco mai condotto direttamente sul territorio israeliano e la cui entità è notevole. Si tratta di 300 vettori di vario genere, di cui circa 170 droni (Shahed-136 e 131), 120 missili balistici superficie-superficie e 30 missili da crociera. Tuttavia, stando a quanto riportato dai vertici delle forze aerospaziali dell’IRGC, l’Iran si sarebbe limitato all’impiego di vettori obsoleti, di cui dispone in abbondanza, e non ha fatto ricorso ai più moderni missili Khorramshahr, Sejjil o Kheibar Shekan-2. Sebbene la scelta di colpire Israele con un’ondata di centinaia di missili e droni sia stata significativa, non si deve ignorare il senso più generale che questa ha acquisito.

Infatti, Teheran ha optato per un arsenale facilmente intercettabile – i droni sono stati quasi tutti colpiti, mentre i missili sono stati attaccati dai sistemi Arrow, Iron Dome e David’s Sling di Tel Aviv – non ha colpito obiettivi civili o istituzionali – l’impatto è avvenuto principalmente presso la base di Nevatim, nel deserto del Negev – e, secondo fonti iraniane poi smentite dagli americani, avrebbe addirittura avvisato Washington dell’attacco imminente. Questi particolari portano a concludere che la contromisura dell’Iran abbia avuto più un valore simbolico e politico che sostanziale: si può dire che la rappresaglia sia stata preannunciata, mettendo gli alleati occidentali nella condizione di assistere alla difesa di Israele –  come poi è avvenuto, dal momento che Stati Uniti, Inghilterra e Giordania hanno partecipato attivamente – e sia stata compiuta nella consapevolezza che la maggior parte dei missili sarebbe stata intercettata.

Ciò evidenzia come l’obiettivo reale di Teheran fosse quello dell’elevazione del proprio status di fronte alle provocazioni di Israele, oltre allo scardinamento degli equilibri di potere regionali, che vedono ora l’Iran e i suoi proxies e non più l’Egitto o altri Stati arabi fungere da ago della bilancia sulla questione palestinese.

Un duplice scopo, quindi, che è riassumibile nella ridefinizione del peso politico-militare iraniano nel Vicino Oriente e, soprattutto, nell’affermazione di una nuova formula di deterrenza vis-à-vis Tel Aviv: un’equazione che coincide perfettamente con l’essenza della dottrina bellica della Repubblica Islamica.

In questo senso, l’Iran ha dato prova di poter colpire direttamente Israele costringendolo ad accettare che uno scontro – sia esso anche solo di natura difensiva, come in questo caso – sarebbe troppo oneroso e, in ultima analisi, che non è possibile esporsi ad una guerra diretta contro il proprio nemico mortale senza subire pesanti ricadute. Che questo sia lo schema interpretativo più idoneo ad analizzare i fatti lo dimostra la contro-rappresaglia di Tel Aviv del 19 aprile: una mossa dettata dalla necessità politica di reagire allo smacco subito dall’Iran, ma che veicola inequivocabilmente il messaggio della propensione a una de-escalation.

L’innalzamento della tensione entro una soglia limite vale logicamente anche per Teheran, il cui nuovo paradigma di deterrenza con Israele è il riflesso di un’impostazione ben sedimentata nella propria dottrina militare.

In generale, le forze armate iraniane sono riluttanti ad andare oltre una forma di deterrenza difensiva e a servirsi della rappresaglia sproporzionata: le coordinate fondamentali sono quelle della sicurezza del regime, difesa del territorio, deterrenza dimostrativa e deterrenza di rappresaglia, cioè una minaccia in risposta ad una minaccia – entrambe queste ultime componenti si sono osservate durante la schermaglia con Israele.

Nel concreto, si tratta di ammettere una strategia di deterrenza atta a dissuadere il nemico dal ricercare l’escalation, tramite calcolate azioni di ritorsione. Un simile tipo di impostazione dottrinaria è figlio dell’esperienza maturata dalla Repubblica Islamica sin dai primi anni di vita della Rivoluzione (1979) e ha consentito la creazione di un sistema bellico ibrido, i cui elementi distintivi sono lo studio e la pratica di concezioni occidentali (specialmente statunitensi) e l’applicazione di principi ideologici e religiosi alle mutevoli situazioni sul campo.

Anche il conflitto con l’Iraq (1980-1988) rese evidenti i limiti della difesa aerea del Paese, accendendo così il motore del programma di ricerca missilistica capeggiato da Hassan Tehrani Moghaddam, a partire dalla metà degli anni ‘80: l’ingegnere e ufficiale delle forze aerospaziali dell’IRGC mise a punto la propria ambiziosa corsa alle armi a partire da ricerche sui vecchi missili Scud-B sovietici, ricevuti dalla Libia. Il fine era quello di colmare le lacune manifestate durante gli attacchi con vettori iracheni sul territorio iraniano.

In seguito, l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, come parte della “guerra al terrore”, contribuì ad instillare nella dottrina militare iraniana i concetti della guerra asimmetrica e della difesa dalla minaccia proveniente da un avversario tecnologicamente più avanzato, proprio come gli Stati Uniti.

Su queste basi, l’Iran ha fatto ampio ricorso a strumenti di deterrenza difensiva, relegando l’elemento offensivo all’ambito della guerra ibrida: vale a dire, tentare di esportare la rivoluzione all’estero e servirsi dei proxies in Medio Oriente per esercitare una leva di influenza politica, integrando e adattando progressivamente capacità di combattimento convenzionali a teatri di operazioni non convenzionali.

Per concludere, la concezione militare iraniana è prettamente di stampo difensivo, incentrata sulla dissuasione contro gli avversari e intesa ad evitare scontri diretti, specialmente se questi rischiano di coinvolgere gli Usa.

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