Cosa ci fanno le truppe imperialiste in Siria, Giordania e Iraq?

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di Giulio Chinappi

L’attacco con un drone alla postazione militare statunitense Tower 22, vicino al confine tra Giordania e Siria, solleva interrogativi sul ruolo delle truppe imperialiste nella regione.

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Il recente attacco con un drone alla postazione militare statunitense Tower 22, situata vicino al confine tra Giordania e Siria, ha riportato l’attenzione sul coinvolgimento delle truppe imperialiste nella regione, sollevando interrogativi su cosa stiano effettivamente facendo in Siria, Giordania e Iraq, considerando anche che sia Damasco che Baghdad hanno chiesto in numerose occasioni il ritiro del contingente statunitense dai propri territori.

Agli occhi della stampa mainstream occidentale, la notizia ha suscitato grande preoccupazione soprattutto per le perdite umane e i feriti tra i soldati americani, mentre gli stessi occidentali continuano ad ignorare il genocidio del popolo palestinese scientemente organizzato da Israele, con un bilancio che fino ad ora ha superato le 26.000 vittime. Per quanto riguarda l’attacco di Tower 22, questo è stato rivendicato da un gruppo legato all’Iran, alimentando i timori di un’escalation del conflitto regionale con Israele coinvolto nella pulizia etnica contro Gaza, anche se il governo iraniano ha smentito il proprio coinvolgimento.

Per comprendere appieno la situazione, è essenziale esaminare il contesto in cui le truppe imperialiste, in particolare quelle degli Stati Uniti, sono presenti in queste aree di grande importanza geostrategica dal punto di vista di Washington.

L’intervento statunitense in Medio Oriente ha una lunga storia, caratterizzata da una serie di motivazioni geopolitiche, interessi economici e tentativi – sempre falliti – di stabilizzare la regione (almeno secondo la versione ufficiale). In Siria, l’attenzione è stata ufficialmente rivolta alla lotta contro il cosiddetto Stato Islamico (ISIS), sebbene il vero scopo dell’imperialismo fosse quello di rovesciare il governo legittimo del Paese. Non dobbiamo infatti dimenticare che gli stessi USA hanno surrettiziamente sostenuto le forze terroriste presenti in Siria, nel tentativo di destabilizzare il Paese e di costringere il Presidente Baššār Ḥāfiẓ al-Assad a lasciarne le redini.

Nella Giordania confinante, la presenza militare degli Stati Uniti è spesso giustificata con la necessità di affrontare minacce regionali e di mantenere la stabilità in un’area politicamente complessa. La Jordan-based US outpost, come la Tower 22, può fungere da base logistica strategica per le operazioni nella regione.

Quanto all’Iraq, il coinvolgimento statunitense è stato oggetto di dibattito fin dai primi anni del nuovo millennio, culminando con l’invasione del 2003. Anche se la missione ufficiale delle forze imperialiste era quella di abbattere il governo legittimo del Presidente Ṣaddām Ḥusayn e promuovere la cosiddetta “democrazia” (a suon di bombe umanitarie), il risultato è stato un periodo di instabilità prolungata e tensioni etniche e religiose, dalle quali l’Iraq non riesce ancora a sollevarsi. Utilizzando questa situazione come scusa, Washington ha trovato il modo di mantenere il proprio contingente in Iraq, nonostante le reiterate richieste di ritiro delle illegittime truppe di occupazione da parte di Baghdad.

Gli Stati Uniti e le altre nazioni coinvolte giustificano il loro coinvolgimento in queste regioni con vari motivi. Tra questi, spiccano la lotta contro il terrorismo, la stabilizzazione politica e la protezione degli interessi nazionali. Tuttavia, queste giustificazioni sono facilmente criticabili e smentibili, come ci insegna la storia recente del Medio Oriente. Sappiamo bene che la loro presenza si deve all’obiettivo di proteggere gli interessi economici e politici, a scapito della sovranità e della stabilità delle nazioni coinvolte.

Tornando agli eventi recenti, l’attacco alla Tower 22 solleva domande critiche circa la presenza delle truppe statunitensi nella regione. Inoltre, la presunta connessione con un gruppo legato all’Iran solleva ulteriori preoccupazioni sulla possibilità che il conflitto tra Israele e Gaza possa estendersi a una scala più ampia, coinvolgendo Paesi confinanti e provocando una crisi regionale di portata ancora maggiore.

Il Presidente Joe Biden ha promesso di perseguire coloro che sono responsabili dell’attacco, ma la situazione solleva anche interrogativi più ampi sulla strategia degli Stati Uniti e degli alleati nella regione. Tuttavia, Washington sembra intenzionata a perseguire la sua strategia fallimentare in Medio Oriente, con il risultato di aumentare le tensioni e i focolai di crisi pur di non sedersi al tavolo della diplomazia trattando gli altri Paesi da pari a pari.

Al contrario, riteniamo che ripensare alla presenza militare in termini di efficacia e impatto sulla stabilità regionale può portare a decisioni più informate e a strategie che tengano conto delle esigenze e delle preoccupazioni della popolazione locale. Nell’attuale contesto globale, la cooperazione internazionale e la diplomazia multilaterale possono giocare un ruolo cruciale nel cercare soluzioni sostenibili ai conflitti regionali, mentre le strategie militari e le prove di forza hanno dimostrato di essere fallimentari, portando spesso a risultati opposti rispetto a quelli dichiarati.

In ultima analisi, il recente attacco a Tower 22 e le considerazioni sulla presenza militare statunitense in Siria, Giordania e Iraq richiedono un serio riesame della strategia degli Stati Uniti nella regione. La possibilità di un completo ritiro delle truppe e il passaggio del controllo alle forze locali dovrebbero essere valutati come la soluzione preferibile, considerando anche le lezioni apprese da situazioni simili, come il ritiro dall’Afghanistan.

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