Stefano Vernole risponde a Sputnik Espana: qual è l’obiettivo della politica estera degli Stati Uniti?

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INTERVISTA ORIGINALE IN LINGUA SPAGNOLA

“L’obiettivo fondamentale dell’aggressività americana è quello di creare un nuovo muro di separazione tra la Federazione Russa e l’Unione Europea, modellato su ciò che è accaduto durante la Guerra Fredda”, ha detto Vernole.

Nonostante le reiterate smentite da parte di Mosca, i mass media occidentali, inclusi quelli italiani, continuano a parlare di un imminente attacco russo contro l’Ucraina. Secondo Lei, quanto è reale lo scenario di guerra e quali sono i motivi che spingono gli USA e i loro alleati europei a insistere sul pericolo dell’invasione?

La sconfitta di Washington e dei suoi vassalli in Afghanistan ha fatto perdere la residua credibilità di cui gli Stati Uniti ancora godevano dopo aver abbandonato l’alleato georgiano nel 2008; il presidente Joe Biden – alla disperata ricerca di consensi – prova ora giocarsi la carta dell’ingresso di Kiev nella NATO e a mostrare i muscoli ma senza una reale volontà di combattere (al contrario del Pentagono che sembra essere molto più interventista). 

Tuttavia, la pressione statunitense continua ad essere forte non solo in Ucraina ma anche in Azerbaigian per il Nagorno Karabakh, in Bielorussia sulla questione dei migranti, in Siria dove USA e Turchia continuano ad occupare illegalmente porzioni di territorio e dove Israele bombarda quasi quotidianamente in spregio al diritto internazionale.

L’obiettivo fondamentale dell’aggressività statunitense è creare un nuovo muro di separazione tra Federazione Russa ed Unione Europea, sul modello di quanto accaduto durante la “guerra fredda”; ricordiamoci le parole di Brzezinski, “L’ Europa unita doveva fungere da strumento di colonizzazione Usa e testa di ponte verso il continente asiatico”, inoltre se la Russia perdesse l’Ucraina vedrebbe venir meno la propria identità eurasiatica e rimarrebbe alla mercè dell’espansionismo atlantista”.

La pandemia ha accelerato il ricompattamento dell’Alleanza Atlantica dietro all’Amministrazione Biden, mentre Parigi vede in Mosca il principale competitore geopolitico in Africa; qualche distinguo in Europa potrà perciò registrarsi solo all’interno dei singoli governi ma di certo non a livello sovranazionale. Ecco l’assoluto silenzio di Bruxelles di fronte alle violente provocazioni occidentali dei mesi scorsi: le manovre militari nel Mar Nero e nel Mare d’Azov, i consiglieri militari statunitensi e britannici che addestrano le truppe di Kiev, i missili Javelin e i droni turchi forniti all’esercito ucraino, insieme ad alcuni miliardi dollari di aiuti militari giunti a Kiev da USA, NATO e Gran Bretagna dal 2014 ad oggi. Solo nel mese di dicembre 2021, sono state registrate più di trenta sortite di bombardieri strategici statunitensi ai confini della Russia (fino a 20 km dai confini russi) nell’ambito dell’esercitazione Global Thunder, che prevede l’impiego di armi nucleari.

Soltanto lo scorso 1 febbraio, la missione degli osservatori OSCE sulla linea di contatto tra Ucraina e Donbass ha segnalato 192 violazioni del cessate il fuoco ma sono oltre 3.000 gli incidenti tra filo-russi e ucraini negli ultimi mesi. Gli Stati Uniti accentueranno le pressioni sulla Russia per togliere di mezzo il presidente Vladimir Putin, accusato di aver stretto un’alleanza con Pechino, il rivale strategico di Washington.

Per Mosca, infatti, gli sforzi per trovare una soluzione pacifica al conflitto in Donbass si appoggiano sugli accordi di Minsk 2, che prevedono l’adozione di misure per dichiarare un cessate il fuoco, il ritiro delle forze armate, la proclamazione di una amnistia, il ristabilimento dei legami economici e l’adozione di una riforma costituzionale in Ucraina attraverso il dialogo con le autorità autoproclamate, Repubblica Popolare di Donetsk e di Lugansk (RPD, RPL), volta a decentralizzare il potere e ad accordare uno statuto particolare ad alcuni distretti delle regioni di Donetsk e di Lugansk. Tuttavia, il processo di negoziazione è nei fatti al punto morto in ragione del rifiuto di Kiev di rispettare le disposizioni politiche degli accordi di Minsk. E in particolare Kiev è reticente ad annodare un dialogo diretto con la RPD e la RPL e ad inscrivere lo statuto speciale della regione nella Costituzione ed esige il controllo del Donbass. 

La risposta di Blinken a Lavrov sulle garanzie di sicurezza richieste da Mosca ci dice che le provocazioni continueranno senza sosta, indipendentemente dal fatto che accendano o meno una guerra; tali incidenti diplomatici aiutano a illustrare come le relazioni tra le due nazioni si stiano rapidamente deteriorando aumentando la prospettiva di un tragico errore di calcolo che potrebbe precipitare in una sanguinosa e prolungata conflagrazione

Negli scorsi anni Mosca ha adottato una strategia di logoramento delle istanze indipendentiste/atlantiste di Kiev, con l’obiettivo di ottenere un governo a lei favorevole. Visto il deteriorarsi della situazione sul campo e l’accentuarsi della pressione militare contro i suoi cittadini nel Donbass (720.000 dei quali hanno passaporto russo), la Russia ha deciso recentemente di abolire le restrizioni doganali e consentire la libera circolazione di merci tra il proprio territorio e le Repubbliche di Donetsk e Lugansk. Ciò permetterà non solo il riconoscimento del certificato di conformità dei loro prodotti ma anche la possibilità di venderli ufficialmente sul mercato nazionale: in pratica una vera e propria integrazione economica delle due regioni separatiste.

Ora vedremo cosa deciderà il Cremlino sul riconoscimento ufficiale delle due Repubbliche nel Donbass, il pericolo è che una provocazione militare di Kiev possa effettivamente innescare un conflitto più ampio e costringere le truppe russe ad intervenire per difendere i propri cittadini. A quel punto l’opinione pubblica occidentale farebbe ricadere la colpa sulla Russia, creando uno scenario molto simile a quanto già visto nella ex Jugoslavia a danno dei serbi. Ad esempio, l’allarme lanciato nelle scorse ore su una possibile ondata di profughi, ricorda molto l’operazione “ferro da cavallo”, un fantomatico progetto che a pochi giorni dall’inizio dei bombardamenti contro la Federazione jugoslava, il ministro della Difesa tedesco Rudolf Scharping aveva presentato alla stampa come prova inconfutabile della pulizia etnica condotta dai serbi ai danni dei kosovaro-albanesi, creato ad arte dai servizi segreti di Berlino.

Le maggiori testate italiane riproducono l’interpretazione americana della situazione in Ucraina, mentre il Governo si attiene ad una posizione più cauta. Come potrebbe spiegare questa differenza di approcci e quali, secondo Lei, sarebbero gli interessi italiani in questa crisi?

Dell’opinione pubblica italiana è inutile parlare, purtroppo tutti i media principali si trovano sotto il controllo della NATO. 

Rimanendo all’Italia, ricordiamo che secondo l’ultima relazione del Copasir sulla sicurezza energetica, “l’approvvigionamento è prevalentemente estero e origina in gran parte dalla Russia (42% dell’approvvigionamento estero), seguono Algeria (14%), Qatar (11%), Norvegia (9%), Libia (8%) e Olanda (2%) … Sulla carenza di gas ha inciso: la revisione dell’accordo di transito dell’export russo di gas attraverso l’Ucraina (passato da 65 miliardi di metri cubi nel 2020 a 40 miliardi di metri cubi nel 2021) e un incendio occorso in un impianto di lavorazione vicino a Novy Urengoy che ha interrotto i flussi sulla Yamal pipeline; i rallentamenti per la certificazione del gasdotto Nord Stream 2, che collegherà Russia e Germania attraverso il Mar Baltico, aggirando l’Ucraina, il cui avvio sembra sempre più lontano anche in considerazione delle recenti dichiarazioni del nuovo Cancelliere e del Ministro degli Esteri tedesco. L’incertezza sull’avvio dei flussi dal NordStream2 (che gli Stati Uniti stanno cercando di far saltare, n.d.r.), infine, aggrava la condizione di tensione sul lato dell’offerta. Secondo le stime di analisti di settore, le scorte di gas in Europa potrebbero arrivare a 4,4 miliardi di metri cubi entro marzo 2022. Il gas naturale sembra rappresentare una risorsa irrinunciabile nel breve-medio termine in attesa che possa completarsi la transizione energetica.”

Pur ammontando a solo l’1,5% dell’export totale italiano e nonostante il calo degli scambi commerciali dovuto alle sanzioni introdotte nel 2014, Roma rimane il terzo partner europeo di Mosca. Il 26 gennaio 2022, all’insaputa della Farnesina, una delegazione di 16 grandi imprese e banche italiane, tra cui Unicredit, Intesa San Paolo, Enel, Generali, Inalca/Cremonini hanno partecipato ad un colloquio telefonico direttamente con Vladimir Putin. A causa delle pressioni di entità non ben definite (il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha successivamente chiamato il Presidente russo per assicurarsi sulle forniture di gas all’Italia) ENI, Saipem e Snam non vi hanno partecipato; eppure la stessa ENI aveva pochi mesi rinegoziato la sua intesa con Gazprom, firmando un contratto a per la fornitura di gas a lungo termine e contraddicendo le pressioni europee per la stipulazione con la Russia solo di accordi spot (peraltro soggetti alle speculazioni borsistiche, essendo il prezzo determinato dalla borsa olandese TTF).

Se l’obiettivo immediato degli Stati Uniti d’America è sostituirsi alla Russia come fornitore affidabile, bisogna però ricordare che il gas USA è molto più lontano e costoso e non è in grado a breve e medio termine di competere con quello proveniente da Mosca.

Lo stesso può dirsi per il Qatar, recentemente sollecitato sia da Bruxelles che da Washington ad aumentare l’estrazione:  l’Emirato produce già ai massimi della sua capacità produttiva, cioè a 180 miliardi di metri cubi all’anno e anche volendo, non potrebbe fare di più. 

Tali interessi fanno sì che l’Italia stia in queste ore aumentando il proprio attivismo diplomatico per mantenere aperto un canale diplomatico con la Russia; credo che anche la conferma di Mattarella alla Presidenza della Repubblica vada nel senso di un approccio più vicino all’asse franco-tedesco che a quello angloamericano rappresentato da Draghi.

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