Andrea Fais: “Emergenza Italia: aumentare sicurezza, cooperazione e investimenti”

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Intervista a cura di Alessandro Iacobellis

Partiamo dalla stretta attualità: i fatti di Parigi e l’allarme terrorismo in Europa, concretizzatosi anche nel sanguinoso raid in Belgio. Il comun denominatore fra queste cellule è l’esperienza nel conflitto siriano. Eppure nessuno, né tra i leader politici né tra gli opinionisti del Vecchio Continente, si addentra alla radice del problema: il sostegno dato alla rivolta anti-Assad nel 2011 e tuttora in corso, con un’artificiosa divisione tra ribelli “moderati” ed “estremisti” che di fatto sul campo non esiste. Cattiva coscienza?

In assenza di prove schiaccianti e collegamenti diretti nessuno di noi può stabilire se da parte di alcune intelligence dei Paesi della NATO vi sia stata malafede o solo “eccesso di leggerezza”. Saranno l’ONU e/o le magistrature nazionali, eventualmente, a far chiarezza. Ad ogni modo, da quasi quattro anni diversi osservatori internazionali, tra cui anche alcuni esperti del vostro Centro Studi, denunciano la presenza di gruppi integralisti religiosi nelle file dei “ribelli” che hanno animato le primavere arabe. E’ opportuno precisare che le sigle e le organizzazioni che hanno operato o che stanno ancora operando sul campo in Libia, Tunisia, Egitto, Siria e Iraq non hanno tutte un’identica matrice ideologica o una comune provenienza. Tuttavia, la stragrande maggioranza di loro è facilmente ricollegabile alla pericolosa galassia del takfirismo, anche qual’ora apparisse nella sua veste più presentabile ed “elegante”, come nel caso dei Fratelli Musulmani o del movimento Hizmet del predicatore turco Fetullah Gülen. Molti governi occidentali si sono assunti responsabilità gravissime negli ultimi anni, sostenendo questo involutivo processo di transizione del mondo arabo verso l’estremismo e il fanatismo.

Sempre a proposito degli attacchi di Parigi: sembra che i fratelli Kouachi abbiano detto di agire per Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) mentre Ahmedi Coulibaly in un video ha prestato giuramento allo Stato Islamico? Al Qaeda e l’IS sono rivali soprattutto in Siria, anche se le radici ideologiche dei due gruppi di fatto differiscono poco. Cosa pensare di ciò?

Sì, l’ISIS prima di aggiungere quella “S” finale, ossia quando agiva nel solo Iraq, malgrado fosse a volte riottoso e difficilmente controllabile, restava comunque agli ordini di al-Qaeda. Poi, nel 2013, un ordine diretto di al-Zawahiri, leader di al-Qaeda, ha impedito all’ultimo momento che avvenisse la fusione definitiva dell’ISIS con al-Nusra, creando una spaccatura. Sia l’uno che l’altro gruppo, però, si avvalgono in Siria di guerriglieri provenienti da numerosi Paesi o regioni di tradizione musulmana, e cooperano a stretto contatto con l’Esercito Libero Siriano. Sebbene possano differire fra loro per modalità o sfumatura ideologica, tutti i gruppi armati che oggi agiscono in Siria e in Iraq contro i rispettivi governi eletti, vogliono rovesciare con la forza l’ordinamento vigente e creare uno Stato confessionale di matrice sunnita-takfirista, per “purificare” quei Paesi dagli elementi o dai gruppi ritenuti “apostati” o “infedeli”. Il presidente siriano Bashar al-Assad è alawita, il primo ministro iracheno al-Abadi è sciita, così come il suo predecessore al-Maliki, mentre il presidente iracheno Fuad Masum è addirittura curdo.

In Italia si registra un silenzio assordante sulla situazione in Libia, che pure ci riguarda molto da vicino sia per prossimità geografica che per legami storici e non ultimo per interessi strategici ed economici. Per l’informazione mainstream di casa nostra però pare che il conflitto sia finito il giorno dell’uccisione di Gheddafi, quando in realtà oggi il Paese è lacerato tra due governi in carica e l’insurrezione islamista che ha aperto le porte allo Stato Islamico (che si sta radicando in Cirenaica). Anche in questo caso si può parlare di cattiva coscienza? Quali le prospettive per il futuro (Renzi ha anche parlato di una possibile operazione di “peacekeeping” a guida italiana sotto egida ONU)?

In Libia, il nostro governo si è macchiato di uno dei più gravi e scellerati atti di politica estera degli ultimi venti anni. Nel marzo 2011, in una manciata di ore il nostro governo stracciò il Trattato di Bengasi, che ci legava alla Libia dopo decenni di tensioni e ostilità per il triste passato coloniale, permettendo al nostro comparto industriale strategico importantissimi investimenti e garantendo nei limiti del possibile sicurezza e legalità sui fronti caldi del Mediterraneo. A differenza della Germania, che prudentemente si dichiarò contraria ad un attacco militare contro Gheddafi, l’Italia decise di entrare immediatamente nel conflitto al fianco degli alleati statunitense, britannico e francese. Oggi raccogliamo quel che abbiamo seminato: un Paese distrutto, segnato da un caos permanente, continuamente minacciato dall’incombente pericolo islamista. L’unica salvezza è rappresentata dalla presenza del generale al-Sisi in Egitto, che blocca la costruzione di qualunque possibile “corridoio terroristico” tra la Siria e il Nord Africa. Un intervento italiano di “pacificazione” sarebbe percepito dalla popolazione libica come una beffa dal sapore amaro, dopo quanto avvenuto quattro anni fa, e rischierebbe di avvicinare all’estremismo religioso molti giovani libici senza più nulla da perdere. Invece, Roma dovrebbe sostenere il governo egiziano e il governo algerino, coordinando con loro operazioni di polizia militare mirate ad obiettivi precisi senza intervenire direttamente su vasta scala.

Andiamo più sul locale: il 2015 sarà l’anno dell’Expo a Milano. Appuntamento attesissimo e preceduto da numerose polemiche e scetticismo. Come per altre occasioni simili un composito movimento critico, il “No Expo”, che si fonda sostanzialmente sul rifiuto della grande opera in quanto tale perché ritenuta foriera di sprechi e affarismi. Critica naturalmente amplificata in tempi di austerity e crisi sociale ed economica. Quali prospettive può aprire a tuo parere un appuntamento come l’Expo per l’Italia? 

Bloccare l’Expo di Milano significherebbe decretare anzi tempo la fine dell’Italia. Chi protesta ha evidentemente poco chiare le dinamiche economico-sociali nazionali e internazionali. Le politiche di austerity contestate in piazza provengono da un diktat ingiusto dell’Unione Europea e bloccano il Paese in una spirale recessiva senza possibilità di uscita. L’Expo invece stimola gli investimenti a 360 gradi, sia stranieri in Italia che italiani all’estero, e apre le porte del nostro martoriato Paese ad una miriade di economie emergenti che possono restituire ossigeno alle nostre imprese, soprattutto a quelle piccole e medie, soffocate da una pressione fiscale ormai insostenibile. Basti pensare che la Cina sarà presente con ben tre padiglioni all’evento (uno nazionale, uno del colosso immobiliare Vanke e un altro ancora di un consorzio di imprese), per quantificare la fiducia riposta sull’Italia dalla prima economia al mondo per volume di commercio estero. E’ un appuntamento che, malgrado alcuni problemi logistici e organizzativi, deve essere rispettato e chiunque pretenda di bloccarlo o vive fuori dal mondo o campa di rendita.

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