Quale Turchia dopo Gezi Park?

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Di Chiara Tavazzani

L’incontro “Quale Turchia dopo Gezi Park” organizzato dall’ISPI offre una panoramica generale dello scenario in Turchia a seguito delle proteste in opposizione ai piani di riconversione di Gezi Park, che si sono ben presto tramutate in manifestazione di dissenso rispetto all’approccio unilaterale e assertivo delle politiche del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan.

Monica Ricci Sargentini, inviata sul posto del Corriere della Sera, ci riporta le voci della protesta dalla sua esperienza sul campo. Prima di tutto, la giornalista tiene a sottolineare la varietà e complessità delle componenti che sono alla base del movimento di Gezi Park. Tra queste la spontaneità accompagnata da un incredibile grado di organizzazione del movimento rappresentano l’aspetto più immediato. Da non tralasciare però è soprattutto il fattore interculturale, in forza del quale anime intrinsecamente diverse ma solo apparentemente inconciliabili tra loro sono riuscite a convivere in armonia, rappresentando un esemplare paradigma di tolleranza.

Il movimento Gezi Park ha avuto il suo inizio alla fine di maggio, quando il 27/28 una cinquantina appena di ambientalisti, dopo aver presentato ricorso alla magistratura contro il progetto di riqualifica del parco di Gezi Park, vi si sono accampati per impedire l’abbattimento dei suoi antichi alberi. Questa proposta rappresenta solo una delle tante che sono in corso di esame presso gli organi decisionali del comune, ma rappresenta anche l’intervento più incisivo sia dal punto di vista simbolico, andando a colpire un area centrale della città, quanto da quello tecnico, visto che il progetto è stato approvato senza essere specificato nel dettaglio.

 

In ogni caso, solo a seguite dell’intervento violento della polizia con sgombro forzato e messa in fiamme delle tende degli ambientalisti, ha scaturito l’indignazione della popolazione che da quel momento si è mobilitata tramite il tam-tam dei social media quali fb e twitter. In ogni caso fino al 3 giugno le tende a Gezi erano ancora molto poche, infatti la maggior parte della gente si limitava a prender parte alla protesta di giorno, soprattutto la sera al termine del lavoro.

Solo a seguito delle accuse infondate e populiste di Erdoğan che li ha definiti “capulcu” vale a dire vandali, saccheggiatori, la protesta è divenuta un presidio costante su vasta scala. Da quel momento “chapul” è divenuto il leitmotiv di un campo super organizzato, diviso in quartieri solcati da sentieri ordinati e spazi predefiniti per lo spazio notte, la mensa, la lettura, la ricreazione dei più piccoli. La struttura altamente organizzata del capo rifletteva la partecipazione variegata alla protesta che tra tutti includeva ambientalisti, rappresentanti del CHP, curdi, movimento femminista e dei diritti degli omosessuali, sindacati e associazioni di ingegneri e architetti contro la cementificazione.

Appare evidente come l’unico comun denominatore di questo insieme variegato fosse l’opposizione a Erdoğan, che infatti non ha avuto molta difficoltà a separarli. Il movimento iniziava già a mostrare i suoi segni di divisione interna nell’opposizione tra pacifisti sostenitori della resistenza pacifica e passiva, e le ali più politicizzate fautori di un interventismo anche attivo alle violenze della polizia. In questo clima caratterizzato da pareri discordanti la proposta di compromesso lanciata da Erdoğan per la consultazione della magistratura in merito alla legittimità dell’iniziativa, e la successiva indizione di referendum consultivo spezzano del tutto il fronte comune dei manifestanti. A detta degli ambientalisti la soluzione decisa dalla maggioranza del movimento di Gezi Park era la fine dell’occupazione. Solo una singola tenda simbolica sarebbe stata lasciata a rappresentanza della vittoria del compromesso concesso per una volta tanto dal primo ministro. Quella che è emersa però è stata la linea dura dei più intransigenti che al contrario non era disposti a retrocedere. In ogni caso l’azione di sgombro forzoso della polizia, anche tramite il ricorso agli idranti e ai gas urticanti, è avvenuto quando oramai la maggior parte del campo era già stata spontaneamente smantellata. Ancora maggiore è stato dunque l’impatto mediatico di un intervento palesemente così sproporzionato rispetto all’opposizione cui andava incontro.

 

Monica Ricci ci tiene però a spendere delle parole di solidarietà anche nei confronti della polizia, che troppo spesso è stata disegnata come braccio armato senza pietà. Al contrario, come denunciato dal sindacato dei poliziotti, fondato solamente dal marzo 2013, le forze dell’ordine sarebbero le prime vittime della loro stessa condizione in quanto sottopagati e sottoposti a condizioni lavorative al limite, che inducono gli agenti, esasperati da turni massacranti a reazioni irrazionali.

Il movimento di Gezi Park rappresenta certamente un segno di rottura rispetto all’apparente posizione di inattaccabilità di cui amava vantarsi Recep Tayyip Erdoğan, stabilmente al potere dal 2003 con crescente consenso popolare. Il segreto della forza di Erdoğan consiste nell’esser riuscito a presentarsi come il fautore del successo del Paese. La Turchia sta vivendo un decennio senza pari sotto tutti gli aspetti, a partire dalla crescita economica stabilmente al di sopra del 5% annuo. Parimenti, sul versante della politica estera, a seguito della così detta primavera araba, l’AKP è stato spesso considerato come modello di partito moderato di ispirazione religiosa per i movimenti di piazza dei Paesi arabi assetati di democrazia e libertà. Il successo maggiore di Erdoğan è stato indubbiamente rappresentato dall’apertura dei negoziati per l’adesione all’Unione Europea nel 2005. In questo senso, Lucio Caracciolo, direttore del Limes intervenuto all’incontro, tiene a sottolineare l’abilità di Erdoğan nell’aver saputo sfruttare a suo vantaggio il percorso di allineamento ai parametri europei, al fine di ottenere degli obiettivi già a lungo presenti nella sua agenda: da un lato la marginalizzazione delle forze armate, e dall’altro maggiori concessioni in fatto della libertà religiosa, che nello specifico della Turchia significa sdoganamento dell’Islam nella vita pubblica, in opposizione alla tradizione laicista kemalista. Erdoğan non ha però tenuto conto che la prosecuzione del percorso di avvicinamento all’Europa avrebbe anche significato una maggiore presa di coscienza dei suoi cittadini, non più disposti a rinunciare ai diritti e alle libertà ottenute durante la rivoluzione kemalista. Le opposizioni e l’instabilità sono ancora più marcate se si considera il profondo cambiamento culturale in corso nel Paese, dove il classico modello totalitario-paternalista è messo sempre più in discussione. Le nuove generazioni non si riconoscono più nelle figure di riferimento della Nazione. Questa perdita di autorità lascia spazi vuoti da colmare, e richiede nuove istanze di legittimazione. Al momento le risposte sono ancora molto diverse tra loro.

In questo senso l’ex ambasciatore d’Italia ad Ankara, Carlo Marsilli, offre una panoramica delle reazioni occidentali alla gestione del movimento di Gezi Park. Purtroppo i paesi dell’Unione Europea non hanno perso la loro occasione per esprimere voci discordanti. In particolar modo la Germania ha approfittato della situazione per rimandare per l’ennesima volta l’apertura di nuovi tavoli di negoziato come era al contrario previsto dal calendario del processo di adesione. Rimandare la ripresa delle trattative per l’adesione a ottobre, vale a dire a seguito delle elezioni generali in Turchia di settembre, offre una sponda facile ai sostenitori del complotto internazionale ai danni della Turchia, piuttosto che rappresentare un efficace incentivo alla democratizzazione. I prerequisiti formali per l’adesione richiesti dell’Unione non hanno per ora corrisposto alla conquista di maggiori libertà e eguaglianza di fatto, quanto piuttosto alla mera denigrazione dei militari e al ritorno di un Islam strisciante. In questo senso è assolutamente indispensabile per l’Europa tendere la sua mano come portatrice di veri valori democratici. Da questo punto di vista, molto più costruttiva è stata la linea promossa dal ministro degli esteri italiano Emma Bonino che invece ha cercato di mantenere aperti il più possibile il dialogo e il confronto. In linea con il pensiero della militante radicale, l’ex ambasciatore ad Ankara Marsilli ha sottolineato l’urgenza di raggiungere risultati significativi nel processo di adesione della Turchia all’Unione Europea, visto che al momento attuale, sarebbe proprio l’Europa a subire la perdita più grave in caso di fallimento delle trattative.

 

Al contrario, le pressioni degli Stati Uniti rispetto alla linea repressiva adottata contro i dimostranti sono state di certo più moderate rispetto a quelle degli stati europei. Questo atteggiamento è facilmente spiegabile con l’importanza strategica per gli Stati Uniti della Turchia, che rappresenta senza dubbio un alleato irrinunciabile per gli interessi statunitensi nel Medio Oriente. A questo va inoltre unita la consapevolezza degli Stati Uniti di godere di bassa stima presso l’opinione pubblica turca e del loro relativo basso – se non addirittura controproducente – impatto mediatico.

In ogni caso generalizzare eccessivamente e paragonare le proteste di Gezi Park a quelle di piazza Tahir sarebbe totalmente una forzatura fuori luogo. La Turchia stessa è ben consapevole di costituire un unicum e un caso isolato rispetto ai Paesi arabi, ai quali, piuttosto che come da modello da seguire, si è sempre proposta come “fonte di ispirazione”, come nelle parole del ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu. La Repubblica di Turchia è infatti una democrazia, che seppur ancora marcata da carenze in termini di libertà e rappresentanza, vanta un consolidato sistema pluripartitico, la garanzia – per lo meno formale – di uguaglianza di diritti per le donne, come anche un apparato istituzionale stabile. Innegabile è comunque il fatto che le proteste di Gezi Park abbiano messo a nudo delle significative criticità da tempo in sussulto nella società civile, quali ad esempio la questione della libertà di stampa e di espressione e la necessità di riforma di una Costituzione non più adeguata a gestire una società così dinamica e in evoluzione.

In questo senso emerge evidente la volontà riformatrice di Erdoğan a favore di un sistema presidenziale, che gli permetterebbe di restare al potere ancora a lungo. Dalla testimonianza del direttore del Limes, il negoziato tumultuoso tra quest’ultimo e i manifestanti può essere riassunto nel titolo ad effetto “il sultano contro i cospiratori”. Erdoğan ha infatti immediatamente stabilito un paradigma di contatto duro basato sulla delegittimazione della controparte. La sua strategia si basava sulla volontà di evadere il piano del confronto democratico tra legittime opinioni contrastanti, per spostarsi sul piano autoritario del complotto, dove un confronto paritetico è escluso ed ogni arma di contrasto ammessa. In questo senso, il suo dito accusatore era puntato contro il capitalismo profondo e le lobby dei tassi di interesse che cospiravano invidiose contro lo sviluppo e la prosperità della “sua” Turchia.

 

La spavalderia di Erdoğan deriva sicuramente, oltre che dalla sua personalità forte e carismatica, anche dal dato oggettivo dell’assenza di qualsiasi sfidante politico credibile. Infatti, il CHP, Cumhuriyet Halk Partisi – Partito Popolare Repubblicano, il maggior partito politico all’opposizione, non rappresenta di certo una minaccia per l’AKP che gode di un consenso talmente stabile, da restare solo marginalmente scalfito a seguito delle proteste di Gezi Park. Anche lo stesso movimento di Gezi Park è di carattere marcatamente apolitico. Sarebbe d’altronde molto difficile per le 116 associazioni partecipanti alle proteste darsi una struttura organica tale da potersi definire soggetto politico. L’opposizione che Erdoğan è chiamato a fronteggiare non è dunque malcontento di tipo politico quanto piuttosto espressione del disagio socio-culturale. Difatti i giovani che hanno preso la guida delle proteste si trovano in una condizione polarizzante: la crescita economica e il suo relativo benessere hanno regalato loro una vita molto migliore di quella dei loro genitori, ciò nonostante questo non ha spento in loro il desiderio per i valori fondanti della Repubblica quali diritti e libertà in senso lato. D’altronde, il grado di democrazia è un fatto di percezione della realtà, e in quanto tale estremamente soggettivo e cogente.

 

Sotto questo aspetto, Carlo Marsilli, ex ambasciatore d’Italia ad Ankara concorda con Caracciolo nel sostenere come le opinioni nei confronti di Erdoğan siano agli antipodi. Il primo ministro viene salutato come portatore di crescita, sviluppo e progresso, o al contrario, viene marchiato come sultano intransigente portatore di un’islamizzazione strisciante camuffata da politiche moderate. Se da un lato, la matrice islamica di Erdoğan è innegabile in quanto egli proviene dai quartieri più poveri e religiosi di Istanbul, dall’altro è altresì indubbia la composizione eclettica dell’AKP che include anche correnti più laiche e liberali, decisamente ostili a qualsiasi deriva islamista. Particolarmente forte è stato dunque il disagio di tali correnti in questo ultimo mese. Ciò nonostante la struttura fortemente centralizzata basata sul leader carismatico dell’AKP impedisce per definizione ogni tipo di dissenso, per cui pena il collasso del partito stesso. Tentativi di manifestare di un pensiero divergente erano stati lanciati dal Presidente della Repubblica Abdullah Gül, che inizialmente aveva richiamato alla moderazione dei toni. Le sue dichiarazioni di solidarietà verso i ragazzi della protesta erano state interpretate come critica al primo ministro. Ben presto però il lungo legame che unisce le due cariche maggiori dello Stato, li ha portati a convergere nuovamente. A giudizio di Caracciolo, nonostante la formazione decisamente diversa di Abdullah Gül e dell’ex sindaco di Istanbul, una rottura tra loro è più che mai improbabile. Anche il tentativo del leader carismatico Fethullah Gülen di sondare il terreno per verificare la presenza di eventuali spazi di dissenso in seno all’AKP si è ben presto rivelata vana. Se in un primo momento Fethullah Gülen si era schierato a favore del movimento di Gezi Park, altrettanto rapidamente si era riallineato nella versione dominante dell’AKP di complotto internazionale.

La visione di Erdoğan della Turchia è indubbiamente di vasta portata, egli ambisce infatti a proiettarla a livello delle grandi potenze mondiali, come confermato da Caracciolo che sottolinea come il nazionalismo di Erdoğan non sia affatto di stampo regionale, quanto piuttosto di levatura globale. In ogni caso la Turchia non si è mai sentita parte della proprio regione, essa preferiva attribuirsi un ruolo di ponte e mediazione tra culture e mondi diversi: dall’Europa, ai Balcani, al Medio Oriente e al Maghreb. L’influenza e la presenza turca si spingono in territori remoti quali la regione autonoma cinese dello Xinjian popolata da una consistente minoranza musulmana di etnia turca, fino all’estremo opposto nei Balcani, dove la popolazione turca è rappresentata da rilevanti minoranze etniche risalenti all’Impero Ottomano, passando per Maghreb a Medio Oriente.

La politica estera dell’AKP, definita da alcuni di Neo-Ottomanesimo, si presenta in questo senso in netto contrasto con la linea storica così strenuamente sostenuta dai quadri del CHP con il sostegno dell’esercito. Fino al decennio scorso le relazioni internazionali della Turchia erano infatti focalizzate esclusivamente a Occidente: verso gli Stati Uniti, alleato irrinunciabile, come verso l’Europa, modello di ispirazione. Solo a partire dal processo di marginalizzazione del ruolo dei militari dalla vita politica attiva, questo spostamento ha cominciato a manifestarsi in modo sempre più definito. In particolar modo la nomina di Ahmet Davutoğlu come ministro degli esteri, ha segnato l’inizio di una strategia di impegno politico e partecipazione attiva alle vicende regionali, definita dal suo fautore come “politica del zero problemi con i vicini”. In questo senso la Turchia non ha esitato a presentarsi come attore di levatura globale, ergendosi a portavoce di tre istanze diverse: tutore delle minoranze etniche turche nel mondo, sostenitore dei processi di democratizzazione dei musulmani, e infine promotrice di un Neo-Ottomanesimo caratterizzato da uno spirito di fratellanza tra i gli stati del Medio-Oriente.

 

La questione siriana rappresenta un banco di prova molto interessante sulla

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coerenza delle teorie politiche professate dal ministro degli esteri Davutoğlu. A dispetto della retorica altisonante, l’iniziativa turca appare ondivaga: se da un lato numerosi sono stati i richiami a favore della democrazia, come anche le prese di posizione a favore dei ribelli, troppo forte permane l’insicurezza per quelli che sarebbero i possibili scenari futuri in caso di caduta del regime Assad. È indubbio che a seguito delle forte critiche al regime di Assad, la Turchia si sia apertamente schierata a favore del fronte dei ribelli tramite l’invio di informale di armi e sostegno logistico. Inoltre molto significativo è anche stato l’aiuto umanitario a favore dei profughi. Ciò nonostante l’imminenza delle elezioni politiche, l’opposizione della maggioranza della popolazione a vedersi immischiata in una guerra, come anche il mancato sostegno degli Stati Uniti a favore di un intervento scoperto sono tutti fattori significativi che hanno portato il governo turco a non spingersi molto oltre a semplici prese di posizione. In questo senso, l’ago della bilancia è certamente rappresentato dalla questione curda. A partire dall’inizio dei conflitti, la popolazione curda ha sempre mantenuto una posizione ambigua, evitando di schierarsi apertamente a favore del fronte dei ribelli come di quello governativo. Di certo i curdi siriani guardano con interesse al modello di governo lanciato dai loro connazionali nell’Iraq del Nord. Nonostante la Turchia stia sviluppando dei buoni rapporti con la cosiddetta Regione autonoma del Kurdistan, assolutamente escluse restano per Ankara qualsiasi tipo di ipotesi di autogoverno sui territori turchi meridionali a maggioranza curda, se non addirittura impensabili sono le concessione di indipendenza regionale. Il dialogo recentemente lanciato con il leader storico del partito PKK Abdullah Öcalan è un fattore di speranza, ma la sua esiguità e imprevedibilità inducono alla prudenza.

Nel 2023 in occasione del centenario della Repubblica di Turchia, Erdoğan si è impegnato a portare a termine una serie di progetti urbani e infrastrutturali da lui stesso definiti come “folli” per accrescere il fasto e la potenza della Turchia nel mondo. È tutto da vedere se a seguito di questo incidente riuscirà a mantenere il consenso e il sostegno necessari per portare avanti i suoi piani. Ci si può solo augurare che anche gli alberi di Gezi Park saranno ancora lì a vederlo. Mi piacerebbe concludere questo reportage con una poesia del famoso autore turco Nazim Hikmet evocata più volte durante le proteste di Gezi Park:

 

L’albero di Noce

Schiuma su schiuma, la mia testa è una nuvola

Il mio interno esterno è un mare.

Io sono un albero di noce del parco Gulhane.

Nodo su nodo, pezzo su pezzo un vecchio noce

ma né la polizia né tu lo sapete.

Io sono un albero di noce del parco Gulhane.

Le mie foglie brillano di uno scintillio

come un pesce nell’acqua.

Le mie foglie sono immacolate

come un fazzoletto di seta

strappale, o mia rosa, e asciuga

le lacrime dei tuoi occhi.

Le mie foglie sono le mie mani,

esattamente io ho centomila mani

e ti tocco con centomila mani, Istanbul.

Le mie foglie sono i miei occhi, e vedo con meraviglia

e ti guardo con centomila occhi, Istanbul.

Le mie foglie battono,

battono come centomila cuori.

Io sono un albero di noce del parco Gulhane

ma né la polizia né tu lo sapete.

 

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