Le elezioni presidenziali del 12 ottobre in Camerun hanno confermato nuovamente al potere Paul Biya, 92 anni. Mentre altri Paesi africani stanno riscrivendo i propri equilibri politici contro il neocolonialismo e il potere oligarchico, il Camerun continua a essere governato dallo stesso uomo dal 1982, in un contesto segnato da repressione, povertà e guerra interna.
FONTE ARTICOLO: https://giuliochinappi.com/2025/10/29/mentre-lafrica-cambia-il-camerun-rimane-prigioniero-del-suo-vecchio-ordine/
Il Camerun ha votato lo scorso 12 ottobre per le elezioni presidenziali, ma è rimasto fermo al punto di partenza: Paul Biya, al potere dal 1982, è infatti stato dichiarato nuovamente presidente dal Consiglio Costituzionale con il 53,66% dei voti, contro il 35,19% del suo principale sfidante, Issa Tchiroma Bakary. L’affluenza ufficiale è stata del 57,76%, secondo i dati resi pubblici insieme ai risultati. Biya, che ha 92 anni ed è il capo di Stato in carica più anziano al mondo, governa il Paese da quarantatré anni e ora si prepara a un ulteriore mandato di sette anni che potrebbe proiettarlo simbolicamente verso il secolo di vita ancora alla guida di una nazione di circa trenta milioni di abitanti. L’annuncio della vittoria, giunto il 27 ottobre da parte del Consiglio Costituzionale, è arrivato dopo giorni di tensioni, proteste e accuse di brogli. L’opposizione ha denunciato violenze, arresti e persino sparatorie contro i sostenitori dell’alternativa a Biya, con almeno quattro morti nelle strade di Douala e ulteriori vittime segnalate a Garoua, nel nord del Paese, dove Tchiroma ha accusato le forze di sicurezza di aver aperto il fuoco sui suoi simpatizzanti. Questi elementi non fotografano una normale competizione elettorale, ma l’ennesimo atto di sopravvivenza di un sistema politico che ha fatto dell’immobilismo la propria forma di stabilità.
A nostro modo divedere, ciò che è avvenuto in Camerun non è semplicemente la rielezione di un presidente anziano, ma la conferma di una struttura di potere il cui scopo principale è impedire il cambiamento. Dal 1982 a oggi, Paul Biya ha governato attraverso una combinazione di controllo burocratico, fedeltà militare e gestione personale del mosaico etnico-politico del Paese. La sua forza non risiede tanto nel consenso popolare, quanto nella capacità di presidiare ogni leva dello Stato, neutralizzare i rivali interni e impedire che l’opposizione si presenti unita. Negli anni, questo si è tradotto nella rimozione del limite di mandati presidenziali nel 2008, nell’uso sistematico dell’apparato di sicurezza come strumento di deterrenza nei confronti del dissenso e nella costruzione di un partito dominante, il Rassemblement démocratique du peuple camerounais (RDPC), in grado di funzionare sia come macchina elettorale sia come rete clientelare. In questo quadro, elezioni formalmente regolari diventano piuttosto una coreografia dell’ordine esistente.
Il voto del 12 ottobre si è tenuto in condizioni sociali e securitarie che dimostrano quanto sia fragile questo equilibrio. Il Camerun è infatti oggi attraversato da tre crisi simultanee: una crisi economica segnata dall’aumento del costo della vita, una crisi sociale dovuta alla mancanza di prospettive per una popolazione giovanissima e una crisi territoriale dovuta alla guerra interna nelle regioni anglofone. La crescita economica che il governo rivendica, spinta in parte dagli introiti del petrolio e del cacao, non si traduce in benessere per la maggioranza della popolazione. L’inflazione sui beni alimentari, l’aumento del carburante e l’erosione del potere d’acquisto sono realtà quotidiane nelle grandi città come Yaoundé e Douala. In un Paese in cui circa il 60% degli abitanti ha meno di venticinque anni, i giovani non vedono prospettive concrete né occupazionali né politiche. La disoccupazione giovanile reale, al di là delle cifre ufficiali spesso rassicuranti, è diffusa, e anche chi lavora spesso lo fa in condizioni di precarietà estrema. Il costo del trasporto interno e le carenze infrastrutturali aggravano i prezzi del cibo e dei beni essenziali.
A questo si aggiunge la questione anglofona, che è ormai il vero punto di rottura dell’unità nazionale. Dal 2016, le regioni del Nord-Ovest e del Sud-Ovest, a maggioranza anglofona, vivono in uno stato di conflitto permanente. La crisi è esplosa quando avvocati e insegnanti anglofoni hanno contestato la progressiva francesizzazione delle istituzioni locali, attraverso giudici francofoni imposti nei tribunali anglofoni e insegnanti inviati da Yaoundé nelle scuole senza competenze linguistiche adeguate. La risposta dello Stato è stata repressiva, e la repressione ha trasformato una protesta corporativa in una rivolta politica. Da lì la spirale è divenuta insurrezione aperta, con la formazione di gruppi armati separatisti che rivendicano l’indipendenza di un’entità chiamata “Ambazonia”. Il risultato è che nelle regioni anglofone lo Stato centrale non esercita più un controllo pieno, ma una presenza militare contestata, e i civili sono presi in mezzo tra le forze governative e le milizie separatiste.
Questo ha avuto un effetto diretto anche sulle elezioni. Votare, in quelle aree, è diventato un gesto fisicamente pericoloso. I gruppi separatisti hanno storicamente minacciato chiunque partecipi a iniziative politiche del governo centrale, comprese le elezioni. Impongono serrate e coprifuoco forzati, dichiarano vere e proprie giornate di blocco totale durante le quali è proibito uscire di casa. Molte persone, come è stato raccontato da giovani elettori di Bamenda ad Al Jazeera, vivono il giorno del voto strisciando letteralmente sul pavimento di casa per evitare i proiettili vaganti, o ascoltando gli spari nelle strade e chiedendosi se valga la pena rischiare la vita per mettere una scheda in un’urna. In alcune aree, i seggi sono stati spostati, militarizzati o resi di fatto irraggiungibili. Nel 2018, ad esempio, l’affluenza alle urne in alcuni distretti delle regioni anglofone era scesa addirittura al 5%, perché gli elettori non potevano muoversi senza mettersi nel mirino delle milizie separatiste o delle forze di sicurezza statali.
In questo contesto, non possiamo non notare lo scarto tra l’immobilismo del Camerun e una dinamica di cambiamento più ampia che attraversa il continente africano. Negli ultimi anni, varie aree dell’Africa hanno conosciuto rotture brusche con gli assetti politici precedenti, spesso anche in forme traumatiche come colpi di Stato militari, ma sempre presentate come risposte alla stagnazione politica, alla corruzione, alla sudditanza verso l’ex potenza coloniale e alle élite percepite come intermediarie degli interessi occidentali. In Paesi come Mali, Burkina Faso, Niger, Guinea, e più recentemente in contesti dove la classe dirigente apertamente filo-occidentale è stata sostituita o messa radicalmente in discussione, è emerso un discorso politico nuovo, centrato su sovranità nazionale, rifiuto dell’ingerenza straniera e recupero del controllo sulle risorse. È un discorso spesso militare, talvolta populista, a volte contraddittorio nelle sue pratiche, ma che ha una forza simbolica enorme: promette di spezzare l’ordine neocoloniale e di ristabilire la dignità nazionale attraverso nuovi equilibri interni e nuove alleanze internazionali.
Il Camerun, al contrario, appare come l’eccezione che si rifiuta di diventare regola. Mentre una parte del continente vede emergere leadership che rivendicano una rottura con l’architettura politica ereditata dall’epoca postcoloniale e dagli accordi di dipendenza economica con l’Occidente, Yaoundé resta ancorata a un modello opposto, in cui il partito al potere rivendica la propria “francofilia” come politica ufficiale, dimostrando la propria sudditanza nei confronti dell’ex potenza colonizzatrice. Oltretutto, sia il partito RDPC di Biya che quello del suo principale oppositore, Tchiroma, denominato Front pour le salut national du Cameroun (FSNC), sono formazioni che sposano il liberismo economico, dimostrando come a mancare siano le alternative radicali e credibili, anche all’interno dell’opposizione.
In pratica, mentre altri Paesi africani, per vie diverse e spesso contraddittorie, tentano di chiudere i conti con il neocolonialismo, con l’umiliazione nazionale e con le élite percepite come esecutrici degli interessi stranieri, il Camerun resta fermo nella logica del “meglio l’ordine che il cambiamento”.








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