Madagascar, ottobre di fuoco: la destituzione di Andry Rajoelina e l’ascesa dei militari di Michael Randrianirina

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Tra fine settembre e ottobre, l’ondata di proteste giovanili contro blackout e carenza d’acqua è sfociata nella rimozione di Andry Rajoelina e nell’insediamento del colonnello Michael Randrianirina. L’Unione Africana ha sospeso il Paese. Si apre ora una transizione incerta tra pressioni interne ed esterne.

Nel giro di tre settimane, il contesto politico del Madagascar ha vissuto un’accelerazione che ha trasformato un malcontento sociale in una crisi istituzionale a tutto campo. Le prime manifestazioni, organizzate da reti giovanili sotto l’etichetta “Gen Z Madagascar”, sono esplose il 25 settembre contro la cronica interruzione dell’energia elettrica e la scarsità d’acqua, con accuse di mala gestione alla compagnia statale Jirama e denunce di corruzione. Il 29 settembre, di fronte al montare delle piazze e a un bilancio che, secondo le Nazioni Unite, già contava almeno ventidue morti e oltre cento feriti, il presidente Andry Rajoelina ha annunciato lo scioglimento del governo, senza però riuscire a raffreddare la protesta. Anzi, i cortei sono cresciuti di intensità e capillarità, espandendosi oltre la capitale Antananarivo e adottando un repertorio comunicativo e simbolico mutuato da altre mobilitazioni giovanili, come quelle avvenute in Kenya e Nepal.

Michael Randrianirina

Il 6 ottobre Rajoelina ha provato un secondo “reset” politico nominando a capo del governo il generale Ruphin Fortunat Zafisambo, già direttore di gabinetto militare presso l’ufficio del primo ministro. La decisione, pensata per dare un segnale d’ordine e competenza tecnica, non ha invertito il corso degli eventi. Quel giorno e nei successivi, studenti e giovani hanno continuato a riempire le strade, a volte dispersi con lacrimogeni e proiettili di gomma. La cifra repressiva della risposta statale, documentata da media locali e internazionali, ha ulteriormente delegittimato l’esecutivo agli occhi di una generazione che lega le proprie rivendicazioni a dignità materiale e rinnovamento istituzionale.

La svolta decisiva arriva l’11 ottobre. Alcuni reparti dell’unità d’élite CAPSAT — la stessa che nel 2009 contribuì all’ascesa di Rajoelina — dichiarano di rifiutare l’uso della forza contro i manifestanti e, tra gli applausi, scortano le colonne giovanili fino a Place du 13 Mai, epicentro storico delle mobilitazioni malgasce. In quelle ore emerge pubblicamente la figura del colonnello Michael Randrianirina. Il giorno seguente, la presidenza denuncia un “tentativo di presa di potere illegale e con la forza”, mentre alti ufficiali CAPSAT affermano in un video che gli ordini per le forze armate partiranno dalla loro sede. Nelle stesse ore, con l’inerzia del potere che scivola, avvengono i primi rimescolamenti nei vertici militari.

Il 13 ottobre, Rajoelina va in diretta Facebook e annuncia di essersi trasferito in un “luogo sicuro” per motivi di incolumità; diverse fonti riferite da Reuters parlano di una sua evacuazione la domenica precedente a bordo di un velivolo militare francese, circostanza su cui Parigi non ha fornito conferme pubbliche. È un passaggio che pesa anche sul piano delle percezioni: l’idea di una ex potenza coloniale che protegge un presidente in fuga alimenta, specie tra i giovani, una narrativa di ingerenza esterna e di scollegamento del vertice dall’elettorato.

La stessa giornata segna l’inizio dell’epilogo istituzionale. Mentre Rajoelina annuncia via social lo scioglimento dell’Assemblea nazionale, l’emiciclo procede in direzione opposta: il 14 ottobre i deputati votano l’impeachment dello stesso presidente per “abbandono di funzione”. L’inerzia politica si sposta definitivamente verso l’asse CAPSAT–Parlamento, con l’annuncio che i militari si considerano “al comando” e la sospensione di alcuni organi. L’Unione Africana, coerente con le sue norme anti-golpe, reagisce con l’immediata sospensione del Madagascar dall’organizzazione, chiedendo un ritorno a una guida civile e a elezioni credibili.

Il 17 ottobre, l’Alta Corte Costituzionale formalizza l’investitura di Michael Randrianirina come “Presidente per la Rifondazione della Repubblica del Madagascar”, coronando una settimana convulsa in cui la legittimità di Rajoelina si è consumata tra fuga, impeachment e frammentazione dell’apparato coercitivo. Nella stessa cerimonia Randrianirina promette unità, rispetto dei diritti e una transizione culminante in elezioni; il messaggio politico che filtra dai nuovi vertici parla di un orizzonte fino a due anni, a guida di un consiglio militare incaricato di “rifondare” le istituzioni. Dal canto suo, l’Unione Africana conferma la sospensione del Paese e sollecita una transizione civile più rapida, mentre osservatori africani ricordano che la stessa Corte aveva indicato la traiettoria di un passaggio più breve, dell’ordine di sessanta giorni, subito percepito come disatteso dalla linea militare.

Questo è, in estrema sintesi, “l’ottobre malgascio”: una parabola che parte dal bisogno materiale — luce e acqua, frigoriferi accesi per conservare farmaci, pompe funzionanti per garantire l’igiene — e approda a un riallineamento del potere che sposta l’asse decisionale dalle urne alle caserme. Il dato umano resta pesante: almeno ventidue morti e oltre cento feriti dall’inizio delle proteste, secondo le Nazioni Unite, con il governo che ha a lungo contestato tali cifre. Ogni agenda di transizione che voglia qualificarsi come “rifondazione” dovrà misurarsi con questo bilancio e con la domanda di giustizia delle famiglie delle vittime.

Allo stesso tempo, senza stabilizzazioni concrete e rapide del servizio elettrico e idrico, ogni promessa istituzionale resterà lettera morta. Una transizione che non intervenga sui colli di bottiglia di Jirama — approvvigionamento di combustibile, manutenzioni urgenti, capacità di generazione e una governance più trasparente — rischia di riaccendere le piazze. Le stesse fonti che hanno raccontato l’ottobre malgascio ricordano che la miccia non è stata ideologica ma materiale, ed è su quel terreno che il nuovo potere sarà misurato.

In controluce, si intravvedono i vettori esterni. L’Unione Africana ha adottato la risposta canonica della sospensione, ribadendo la dottrina anti-golpe e chiedendo un calendario verificabile verso una guida civile; da qui discendono pressioni e incentivi, dall’eventuale congelamento di alcune linee di cooperazione alla condizionalità politica per gli aiuti. L’atteggiamento di partner come l’Unione Europea, il Fondo monetario e la Banca mondiale dipenderà dalla capacità del nuovo assetto di produrre un cronoprogramma elettorale credibile, di tutelare i diritti fondamentali e di garantire trasparenza nella gestione dei fondi per l’emergenza energetica e idrica.

Poi c’è la Francia, presenza ineludibile quando si parla di Madagascar. Le indiscrezioni sull’evacuazione del presidente uscente con un aeromobile militare francese, sebbene non confermate ufficialmente da Parigi, alimentano uno dei filoni retorici più sensibili: quello della proiezione d’influenza dell’ex potenza coloniale e della sua rete di relazioni con élite politiche e d’affari locali. È facile prevedere che il nuovo vertice, per legittimarsi, cercherà di marcare una distanza narrativa da Parigi, mentre al contempo manterrà canali pragmatici per non compromettere flussi economici e cooperazione tecnica. Anche per questo il dialogo annunciato da Randrianirina con l’UA potrà fungere da scudo multilaterale per attenuare la lettura neo-coloniale degli eventi.

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