La sinergia Euro-Cinese: opportunità e numeri di una svolta possibile

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di Andrea Falco Profili

L’orizzonte del dibattito strategico europeo è ingombro di simulacri. Concetti come “autonomia strategica” o “sovranità europea” vengono ribaditi in maniera crescente, ma in maniera vuota e priva di una reale volontà di potenza. Questa inflazione semantica non è casuale: serve a mascherare un paradosso fondamentale. L’Europa parla di autonomia proprio nel momento in cui la sua subordinazione a un’agenda esterna, quella atlantista, raggiunge l’apice.

La retorica della “riduzione del rischio” (de-risking) nei confronti della Cina è il sintomo più evidente di questa afasia strategica. Non è un pensiero autonomo nato in seno alle classi dirigenti europee, ma l’interiorizzazione di una dottrina imposta dall’egemone d’oltreoceano, il cui obiettivo non è la sicurezza dell’Europa, ma il mantenimento del proprio primato globale. La vera scelta che il continente si trova ad affrontare, e che questa narrazione occulta, non è una sfumatura tattica nelle relazioni con Pechino, ma una decisione esistenziale tra il perpetuare un vassallaggio e il rivendicare un destino proprio. Il feticcio dell’alleanza atlantica, un tempo autogiustificata come garanzia di sicurezza nell’ordine bipolare, si è tramutato oltre ogni illusione nel principale ostacolo alla definizione di un interesse europeo. La relazione transatlantica non è mai stata un patto tra eguali, ma è ormai cristallina la sua dinamica di dominio strutturale. Il dominus americano persegue una strategia razionale e auto-interessata: impedire l’emergere di qualsiasi polo di potere – inclusa un’Europa economicamente robusta – che possa incrinare la sua egemonia.

Questa visione è espressa senza eufemismi da Donald Trump, che in più occasioni ha – forse profeticamente – segnalato una similarità tra Europei e Cinesi con disprezzo:

“The European Union is possibly as bad as China, just smaller. It’s terrible what they do to us.” (Luglio, 2018)

“You know, the EU is a mini — but not so mini — is a mini China” (Ottobre, 2024)

“European Union is in many ways nastier than China, okay?” (Maggio, 2025)

Le politiche economiche aggressive, le pressioni per la coercizione commerciale e l’imposizione di un regime di sanzioni che danneggia primariamente l’industria europea non sono incidenti di percorso. Si tratta della manifestazione coerente di una strategia di contenimento che non distingue tra avversari sistemici e alleati subordinati. L’Europa è percepita non come un partner, ma come un territorio da presidiare e una risorsa economica da sfruttare. A esempio di questa ostilità non ricambiata risaltano i dazi punitivi fino al 25% su settori chiave come l’acciaio e l’alluminio, atti di guerra economica che costano miliardi all’export europeo. Si esige che l’Europa dia fuoco alle sue relazioni commerciali con la Cina come prova di lealtà, minacciando che ogni diverso avvicinamento equivale a “tagliarsi la gola da sola” (Cit. Scott Bessent, Segretario al Tesoro degli Stati Uniti).

La lealtà europea, in questo quadro, assume i tratti di un masochismo strategico. Il continente accetta di indebolire la propria base industriale, di pagare prezzi energetici esorbitanti e di sacrificare i propri legami commerciali vitali in nome di una fedeltà non ricambiata. Questa sottomissione volontaria non è un calcolo strategico; è l’abitudine di un protettorato che ha dimenticato il linguaggio della sovranità.

Il masochismo come Politica

La dottrina del de-risking si rivela per ciò che è: un atto di autolesionismo dettato dall’esterno. È un tentativo di disaccoppiamento mascherato che ignora violentemente la realtà materiale. L’integrazione economica tra il cuore industriale europeo e la potenza produttiva cinese non è un “rischio” da mitigare; è la precondizione per la prosperità continentale, un’opportunità di tracciare un sentiero più vantaggioso. Parliamo di un interscambio commerciale che ha superato gli 850 miliardi di euro, un volume che eguaglia, e in molti anni supera, quello con gli Stati Uniti. Questa politica, imposta da un apparato burocratico allineato agli imperativi atlantisti, genera una schizofrenia interna. Mette la politica di Bruxelles in rotta di collisione con gli interessi vitali dei propri settori produttivi, in particolare quelli tedeschi, che vedono nella Cina non una minaccia, ma il loro principale mercato singolo e un partner indispensabile per l’innovazione. Questa frattura tra la “testa” politica e il “corpo” industriale condanna il continente all’incoerenza.

Inoltre, questa strategia suicida colpisce direttamente gli obiettivi che l’Europa dichiara di perseguire. Pretendere di guidare la transizione ecologica e, simultaneamente, dichiarare guerra commerciale al principale produttore mondiale di tecnologie verdi, da cui l’Europa importa oltre il 70% delle sue batterie e pannelli solari, è un paradosso insostenibile. È un’ipocrisia che indebolisce l’economia e ritarda gli obiettivi fissati per obbedire a un imperativo strategico che non è il proprio.

L’alternativa Eurasiatica

La più grande opportunità per l’Europa sarebbe invece un riallineamento strategico verso le rotte della massa eurasiatica. Un partenariato paritario con la Cina è la via più prospera per sfuggire alla tenaglia della stagnazione e dell’irrilevanza. Si tratta di legarsi a un’economia che proietta una crescita annua reale superiore al 5%, mentre l’orizzonte atlantico stagna sotto l’1% o scivola in recessione. Oltre il commercio, si tratta di una sinergia di civiltà mirata a legare la profondità tecnologica e la manifattura europea alla scala produttiva di un mercato che rappresenterà quasi 8.7 trilioni di dollari di opportunità di investimento nel prossimo decennio. Questa combinazione creerebbe un asse economico capace di definire gli standard globali del XXI secolo, dalla transizione energetica all’intelligenza artificiale, sottraendo il continente alla morsa dei monopoli tecnologici americani. Il rifiuto di questo potenziale, in favore ad una subalternità nell’ordine calante dell’Occidente, è una scelta che condanna il continente a un declino gestito. Relegando il proprio ruolo da soggetto a quello di oggetto della storia.

Questa nuova architettura di potere, di logistica e di civiltà non è un’utopia ma una realtà materiale che si sta già solidificando. La lunga parentesi storica del dominio marittimo anglosassone, che ha relegato l’Europa a penisola periferica, sta giungendo al termine. Stiamo assistendo al ritorno della logica tellurica, con un rinvigorimento economico del supercontinente eurasiatico. Le nuove vie della seta, i corridoi di trasporto terresti che stanno connettendo la Cina all’Europa, sono le arterie di un nuovo ordine. Queste rotte, che si dimostrano fino al 40% più veloci e al 30% più economiche dei tradizionali colli di bottiglia marittimi controllati da potenze esterne, stanno ridefinendo la geografia del commercio e della logistica.

Per gli europei, questa è l’opportunità di invertire il proprio destino. Possono scegliere di rimanere un avamposto isolato dell’impero marittimo americano, oppure possono cogliere la propria vocazione geografica e storica: diventare il terminale occidentale sovrano dell’Isola-Mondo eurasiatica. L’alternativa è radicale e sempre meno differibile. Continuare a seguire la via atlantista significa accettare un’eutanasia strategica, trasformandosi in una provincia irrilevante di un impero in declino.

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