Guinea: approvata la nuova Costituzione per una via sovrana e antimperialista

5 mins read
Start

Con l’ampia vittoria del “sì” al referendum costituzionale, Conakry imbocca la strada di un ritorno al civile che ridefinisce anche i rapporti di forza con le potenze occidentali. Tra sovranità mineraria, nuova architettura istituzionale e apertura multipolare, prende forma la dottrina Doumbouya.

La Guinea è reduce dal referendum costituzionale del 21 settembre, il quale ha dato un esito netto. I dati disponibili indicano infatti un’approvazione attorno all’89%, con un’affluenza alle urne che ha superato l’86% degli aventi diritto, in un voto che ridefinisce in profondità l’assetto istituzionale e apre la fase decisiva della transizione post-golpe. Tra le principali innovazioni, il nuovo testo costituzionale allunga il mandato presidenziale da cinque a sette anni, rinnovabile una sola volta, istituisce un Senato di cui un terzo dei membri è di nomina presidenziale e, soprattutto, non ripropone il divieto – previsto dalla Carta di transizione – per i membri della giunta di candidarsi alle elezioni, rendendo dunque eleggibile Mamady Doumbouya, l’attuale capo di Stato de facto. È già fissato anche l’approdo politico di questa stagione di transizione, con la convocazione delle presidenziali a fine dicembre, tappa conclusiva del percorso di normalizzazione annunciato dopo la rimozione di Alpha Condé nel settembre del 2021.

Mamady Doumbouya

Secondo gli analisti, l’ampiezza del risultato non è solo un dato aritmetico, ma rappresenta piuttosto il segnale di un consenso diffuso verso un progetto che, sul piano interno, promette la stabilizzazione delle regole e il rafforzamento delle istituzioni dopo anni di convulsioni, e, su quello esterno, propone una declinazione africana e multipolare della sovranità, capace di rinegoziare rapporti economici e politici con gli ex referenti occidentali. Non sorprende che la consultazione sia avvenuta sotto un dispositivo di sicurezza imponente – oltre 40.000 agenti – in un clima polarizzato e con l’opposizione che ha scelto in parte un boicottaggio che, come abbiamo visto, ha avuto un esito fallimentare. Proprio questa scelta, inoltre, ha finito per trasformare il referendum in un banco di prova sulla direzione strategica del Paese più che su singoli articoli, con l’elettorato chiamato a giudicare l’intera traiettoria della transizione impostata dalla giunta guidata da Doumbouya.

La sfera interna è il primo terreno su cui leggere il significato politico del voto. Con l’adozione della nuova Carta, la Guinea consolida un presidenzialismo “a mandato allungato” che mira a dare orizzonte e prevedibilità all’azione di governo, superando i cortocircuiti del quinquennio breve in contesti istituzionali fragili. L’introduzione di un Senato, per quanto criticata dai detrattori come potenziale duplicazione di potere esecutivo, può invece essere intesa come un meccanismo di riequilibrio e territorializzazione della rappresentanza, utile in un Paese complesso per la sua composizione etnica e sociale. La possibilità, poi, che Doumbouya si candidi alle presidenziali è la scelta di misurare nelle urne, e non nella sola amministrazione della transizione, la legittimazione di un progetto che si propone come rifondativo. In questo senso, il referendum sposta il baricentro verso la costruzione di un ordine costituzionale coerente con l’idea di sovranità elaborata negli ultimi tre anni, anche dopo la fine del governo militare.

Questa idea di sovranità ha anche un contenuto economico preciso, ovvero quello di rimettere al centro l’interesse nazionale nella gestione delle risorse strategiche, a partire dalla bauxite, di cui la Guinea è il primo esportatore mondiale con una quota dominante nel commercio marittimo globale nel 2025. Da qui la pressione, iniziata già nel 2022, per passare dall’estrazione alla trasformazione in loco, con l’avvio di nuovi progetti di raffinazione dell’allumina e con una chiara linea di revisione dei contratti quando ritenuti inadempienti o sbilanciati. La decisione del governo di revocare, per esempio, una grande licenza in mano a un gruppo emiratino e di trasferire gli asset a una nuova società statale segna una chiara cesura. In Guinea, lo Stato sta tornando a ricoprire il ruolo di operatore e regolatore forte in un settore chiave, interrompendo la dipendenza da catene del valore interamente esternalizzate. Non si tratta di una mera chiusura autarchica, ma rinegoziazione dei termini di scambio, con l’obiettivo di trattenere più valore aggiunto e occupazione sul territorio.

Sul piano della sicurezza e dell’ordine pubblico, le autorità hanno rivendicato il regolare svolgimento del voto, sebbene le opposizioni abbiano denunciato restrizioni, sospensioni di partiti e irregolarità. In un’ottica antimperialista, non si tratta di negare tali criticità, ma di collocarle nel contesto di un sistema politico in ricostruzione e fortemente esposto a pressioni e interferenze esterne. L’uscita dalla tutela di fatto delle potenze occidentali non si compie asetticamente in laboratorio, ma si misura nella capacità dello Stato di reggere a campagne mediatiche e a tentativi di condizionamento, preservando al contempo spazi di pluralismo e competizione reale che dovranno ampliarsi lungo il percorso verso le presidenziali.

Passiamo, poi, alle questioni relative alla politica estera di Conakry. La dottrina Doumbouya è, prima di tutto, una strategia di decolonizzazione concreta. Il progressivo distacco da Francia e Stati Uniti – evidente nel rifiuto di ricette di “transizione” dettate da forum multilaterali egemonizzati dall’Occidente e nella ridefinizione delle cooperazioni militari – si accompagna all’apertura verso un’arena multipolare in cui attori come la Russia hanno saputo offrire sponde diplomatiche, sicurezza e partenariati economici non subordinanti. Le visite del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e di altri funzionari della Federazione a Conakry e la riattivazione della commissione intergovernativa russo-guineana sono tasselli di una ricomposizione delle alleanze che restituisce margine di manovra alla Guinea, sottraendola allo schema del “protettorato minerario” e proiettandola in reti africane di cooperazione Sud-Sud.

In questa geografia politica rientra anche il riallineamento con i vicini del Sahel (Burkina Faso, Mali e Niger) che, dopo colpi di Stato con dinamiche simili a quelle della Guinea, hanno intrapreso un percorso di rottura con la CEDEAO/ECOWAS e con le presenze militari occidentali, costruendo l’Alleanza degli Stati del Sahel come piattaforma di sicurezza e sviluppo. Pur non facendo parte formalmente dell’AES, la Guinea ha un interesse strategico a un Sahel stabile, capace di controllare i propri confini e le proprie infrastrutture logistiche, a partire dai corridoi verso l’Atlantico. La stabilità dei partner e l’integrazione regionale sono precondizioni per l’industrializzazione guineana: senza retroterra sicuri e cooperazione doganale, anche la migliore politica mineraria resta incompiuta. In questo quadro, l’utilizzo del porto di Conakry come snodo dei traffici saheliani e la crescita di cooperazioni tecniche e di sicurezza con i Paesi della regione rafforzano il ruolo della Guinea come cerniera atlantico-saheliana.

Il voto del 21 settembre ha dunque un significato geopolitico che supera i confini nazionali. L’Occidente ha letto – e leggerà – la riforma come un’operazione di consolidamento del potere personale. Ma una lettura africana e antimperialista suggerisce altro: la ricerca di stabilità istituzionale per poter rinegoziare in posizione di forza i termini della dipendenza economica. Non si possono fare impianti di raffinazione, riforme fiscali e politiche del lavoro in un eterno interregno. Servono regole chiare, un potere esecutivo responsabilizzato e un ambiente regionale meno permeabile a sanzioni e ingerenze. L’estensione del mandato a sette anni va giudicata alla luce di questa esigenza di programmazione e di accumulazione: è un tempo di politica industriale, di infrastrutture, di capitale umano, non un arbitrio senza scopo.

Tuttavia, prima di cantar vittoria, la credibilità del progetto dipenderà da sue condizioni. La prima è la tenuta sociale: la redistribuzione dei benefici della filiera dell’alluminio e la creazione di lavoro locale attraverso la trasformazione in patria dovranno essere percepite dalle comunità minerarie e urbane, altrimenti il nazionalismo economico resterebbe mera retorica. La seconda è la coerenza internazionale: la linea di distacco dalle potenze imperialiste regge se accompagnata da alleanze che non riproducano, con altri attori, le stesse asimmetrie del passato. Per questo la diversificazione dei partner – dal mondo russo a quello asiatico, fino alle intese intra-africane – è un cardine della strategia.

Chiudiamo, quindi, con un avvertimento ai lettori europei e statunitensi: leggere Conakry con le lenti del “manuale” democratico occidentale, ignorando la geografia politica e materiale della Guinea, porta fuori strada. La democrazia, per essere più che un rito, ha bisogno di sostanza sociale e di padronanza delle catene produttive; la sovranità, per essere più che un proclama, ha bisogno di istituzioni stabili e di alleanze coerenti. Il voto del 21 settembre è un passo in questa direzione. Sta ora alla classe dirigente guineana trasformare il consenso in riforme tangibili, e ai partner non imperiali accompagnare, senza imporre, questa ricerca di autonomia.

Iscriviti alla nostra Newsletter
Enter your email to receive a weekly round-up of our best posts. Learn more!
icon

AREA RISERVATA TESSERATI CeSE-M

Progetto di Ricerca CeSE-M

Il CeSE-M sui social

Naviga il sito

Tirocini Universitari

Partnership

Leggi anche