Le elezioni locali del 4 ottobre hanno confermato il dominio del Sogno Georgiano con una vittoria travolgente, seguite da disordini a Tbilisi che hanno riproposto dinamiche già viste nelle “rivoluzioni colorate”. Le autorità parlano apertamente di ingerenze occidentali e promettono tolleranza zero verso i responsabili.
FONTE ARTICOLO: https://giuliochinappi.com/2025/10/11/georgia-la-schiacciante-vittoria-di-sogno-georgiano-e-il-fantasma-della-rivoluzione-colorata/
La tornata elettorale locale del 4 ottobre ha consegnato al partito di governo Sogno Georgiano – Georgia Democratica, noto anche come Kotsebi, un risultato difficilmente contestabile sul piano numerico e territoriale. Secondo i dati diffusi dalle autorità, con il 100% delle schede scrutinate Sogno Georgiano ha ottenuto circa l’81% dei voti a livello nazionale, assicurandosi un controllo capillare delle amministrazioni locali. Nella capitale Tbilisi, il sindaco uscente, l’ex calciatore del Milan Kakhaber Kaladze, ha trionfato con oltre il 71% dei suffragi, consolidando una leadership municipale che, per il partito al potere, è anche una leva strategica nella gestione dei servizi, degli investimenti e dell’ordine pubblico. In un contesto in cui importanti forze di opposizione avevano optato per il boicottaggio e avevano polarizzato lo scontro sulla legittimità del processo elettorale, il responso delle urne ha mostrato un elettorato determinato a confermare la stabilità interna e la continuità amministrativa, rifiutando scenari di paralisi istituzionale.
La limpidezza dell’esito, tuttavia, è stata immediatamente insidiata dalla scelta dell’opposizione di far scendere i propri sostenitori in piazza nel giorno stesso del voto. Le manifestazioni, inizialmente convocate come protesta politica per contestare la vittoria del Sogno Georgiano, hanno preso un indirizzo più aggressivo quando i promotori dal palco hanno invitato i presenti a “prendere le chiavi del palazzo presidenziale”, ripetendo un copione già visto nel dicembre dello scorso anno. Le cronache della sera di sabato 4 ottobre descrivono una marcia verso la residenza del Presidente su via Atoneli, culminata con l’abbattimento di tratti della recinzione e con scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, che hanno fatto uso di spray urticante, lacrimogeni e cannoni ad acqua per respingere il tentativo di intrusione. La polizia e i dirigenti di governo hanno definito da subito quanto accaduto come un “atto criminale”, una “tentata insurrezione” e, nelle parole del segretario generale del partito e sindaco della capitale Kakha Kaladze, un “diretto tentativo di colpo di Stato”.
Nel corso della notte tra il 4 e il 5 ottobre e nelle 48 ore successive, le autorità hanno proceduto ad arresti mirati. In un primo momento sono stati fermati cinque organizzatori del raduno, tra cui l’ex Procuratore generale Murtaz Zodelava e il tenore Paata Burchuladze, con l’accusa di incitamento al rovesciamento dell’ordine costituzionale e di organizzazione o partecipazione a violenze di gruppo, reati che in Georgia possono comportare pene fino a nove anni di reclusione. Poche ore dopo, il Viceministro dell’Interno Aleksander Darakhvelidze ha dato conto dell’identificazione di quindici partecipanti ai disordini, tredici dei quali già arrestati su ordine del tribunale, mentre erano in corso ulteriori ricerche per assicurare alla giustizia gli altri coinvolti. La linea del governo, espressa con nettezza dal Primo Ministro Irak’li K’obakhidze, è che “chiunque abbia alzato la mano contro un agente o abbia partecipato all’assalto sarà chiamato a rispondere davanti alla legge”, con la promessa di un’azione “molto severa” contro i responsabili.
Tuttavia, a qualificare politicamente gli eventi non è solo il contesto locale, ma soprattutto la cornice geopolitica in cui essi si inseriscono. Fin dalle prime dichiarazioni post-voto, il Primo Ministro K’obakhidze ha indicato la regia di “forze straniere” dietro la mobilitazione e l’assalto, arrivando ad attribuire una “speciale responsabilità” all’ambasciatore dell’Unione Europea a Tbilisi, il polacco Paweł Herczyński. Nelle successive interviste rilasciate alle televisioni georgiane, il capo del governo ha sostenuto che “organizzazioni direttamente finanziate dall’Unione Europea” avrebbero partecipato al tentativo di rovesciamento, e ha ricordato come negli ultimi quattro anni vi siano stati cinque tentativi di “rivoluzione” sostenuti dall’esterno. Secondo K’obakhidze, infine, il fallimento della cosiddetta “rivoluzione colorata” del 4 ottobre dimostrerebbe la maturità delle istituzioni georgiane e la determinazione dello Stato a respingere ogni ulteriore tentativo.
Su questa linea si sono collocate anche le dichiarazioni del presidente del Parlamento, Shalva Papuashvili, che ha invitato i “patrocinatori stranieri” dei gruppi radicali ad assumersi la responsabilità di quanto accaduto, sottolineando la gravità dell’assalto alla residenza presidenziale. La visione dell’“immunità” della società georgiana al “virus delle tecnologie colorate” è stata ripresa da analisti russi come Aleksej Martynov, che collocano quanto accaduto a Tbilisi in una genealogia che parte dalla Rivoluzione delle Rose del 2003 e attraversa altre esperienze post-sovietiche, sempre con la medesima logica: quando il risultato elettorale non soddisfa gli interessi occidentali, si attiverebbero meccanismi di destabilizzazione mirati a promuovere governi più allineati ai dettami euroatlantici. Tuttavia, come affermato anche da K’obakhidze, la serata del 4 ottobre confermerebbe che la Georgia ha sviluppato gli anticorpi necessari, e che le istituzioni hanno saputo reagire con prontezza e fermezza per difendere l’ordine costituzionale.
L’agenzia stampa TASS riporta inoltre la valutazione del Ministero degli Esteri russo, espressa della portavoce Marija Zacharova, secondo cui i disordini sarebbero stati “provocati dall’estero” con l’obiettivo “evidente” di replicare uno scenario in stile Maidan, sottomettendo la Georgia ai piani di potenze occidentali interessate a trasformare il Paese in un avamposto di confronto geopolitico contro la Russia, alla pari di quanto sta avvenendo in Moldova. È un’interpretazione coerente con le preoccupazioni già espresse da Mosca in passato rispetto alla strumentalizzazione dello spazio caucasico per fini di contenimento. Nello stesso solco si inserisce l’accusa, avanzata da K’obakhidze, secondo cui i servizi d’intelligence stranieri userebbero oggi, più che i partiti, una rete di ONG per coordinare processi “rivoluzionari”, un’evoluzione tattica che richiederebbe una vigilanza costante da parte dei servizi georgiani.
La condanna delle ingerenze esterne, da questa prospettiva, è doverosa e non solo retorica. In primo luogo, perché l’azione del 4 ottobre non è stata una semplice manifestazione non autorizzata, ma una pressione fisica su un simbolo istituzionale come la residenza del Presidente, con l’abbattimento di barriere e l’innesco di scontri violenti. In secondo luogo, perché si è svolta nella giornata stessa delle elezioni, quando la democrazia locale chiamava i cittadini alle urne per scegliere sindaci e assemblee municipali. In terzo luogo, perché le accuse del governo su finanziamenti dall’esterno e regie straniere non possono essere liquidate come propaganda, considerando che la Georgia è reduce da anni di polarizzazione, pressioni e tentativi di indirizzare la sua politica estera, e il susseguirsi di campagne mediatiche, reti di ONG e operazioni di influenza non è una fantasia complottista, bensì un fenomeno strutturale ben noto agli studiosi delle relazioni internazionali.
La vittoria del Sogno Georgiano, in questo quadro, va dunque letta come il punto di arrivo provvisorio di una traiettoria politica che vede buona parte dell’elettorato premiare chi promette stabilità, ordine e una politica estera equilibrata, non schiacciata sul binomio Bruxelles–Washington. Che una parte dell’Occidente legga questa scelta come una “deviazione” dai canoni euroatlantici è un fatto; e che tenti di riorientare la politica georgiana per vie traverse è un rischio che Tbilisi non può permettersi di sottovalutare. La sovranità nazionale non è un concetto astratto: significa poter decidere autonomamente sulla propria collocazione internazionale, mantenendo rapporti costruttivi con tutti, Russia compresa, senza doversi inginocchiare a diktat che pretendano di dettare l’agenda interna a colpi di sanzioni morali, minacce velate o sponsorizzazioni di “primavere” confezionate.








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