Di Pouia Tajali
Un nuovo rapporto fa luce su un inquietante modello di “controllo mentale distruttivo” all’interno dell’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano (MEK/PMOI), un gruppo di opposizione in esilio da tempo accusato di comportamenti settari e coercizione interna. Basandosi sulla testimonianza dell’ex membro Ehsan Bidi, i risultati rivelano manipolazioni psicologiche sistematiche, separazioni familiari e restrizioni alla libertà di pensiero che sollevano gravi preoccupazioni in materia di diritti umani ai sensi del diritto internazionale.
Fondato nel 1965 come movimento rivoluzionario che fondeva Islam e Marxismo, il MEK inizialmente combatté contro la monarchia Pahlavi e successivamente contro la Repubblica Islamica. Dopo la sua espulsione dall’Iran, il gruppo operò dall’Iraq, formando l’Esercito di Liberazione Nazionale con il sostegno di Saddam Hussein. In seguito all’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, i campi del MEK furono disarmati e successivamente smantellati, e i membri furono trasferiti in Albania tra il 2013 e il 2016 sotto il coordinamento dell’UNHCR. Il trasferimento avrebbe dovuto chiudere un capitolo di violenza, ma i resoconti di ex membri suggeriscono che le pratiche autoritarie del gruppo abbiano semplicemente cambiato sede.
Il signor Bidi ha trascorso quasi un decennio a Camp Ashraf in Iraq prima di fuggire nel 2011. Descrive il suo periodo lì come “prigionia fisica e mentale”, caratterizzata da rituali di “autocritica” obbligatoria, controllo sessuale attraverso il celibato forzato e isolamento dal mondo esterno.
Dopo essersi trasferito in Albania nel 2013, Bidi ha iniziato a denunciare pubblicamente la leadership del MEK, unendosi ad altri disertori nelle attività di difesa dei diritti degli ex membri. Nel 2020, le autorità albanesi lo hanno dichiarato persona non grata e lo hanno trattenuto brevemente nel Centro per Migrazioni di Kareç, presumibilmente sotto pressione del MEK. I suoi sostenitori sostengono che sia stato trattenuto senza un giusto processo, riflettendo preoccupazioni più ampie sull’influenza che l’organizzazione esercita sui governi ospitanti.
Sebbene il suo attuale status giuridico rimanga poco chiaro, il caso di Bidi simboleggia un modello più ampio: il silenzio e l’intimidazione degli ex membri che tentano di parlare.
Gli analisti dei diritti umani descrivono il regime interno del MEK come un intricato sistema di dominio psicologico simile a quello che gli studiosi chiamano “controllo mentale distruttivo”.
Questo comporta:
• Confessioni obbligatorie e sessioni di “pulizia ideologica”;
• Celibato forzato e separazione di famiglie e figli;
• Isolamento prolungato e prigioni disciplinari interne;
• Controllo totale delle informazioni e diffamazione dei dissidenti.
Si dice che queste pratiche mirino a distruggere l’identità personale e a sostituirla con la lealtà assoluta alla leadership del gruppo, in particolare a Maryam e Massoud Rajavi.
Valutazioni indipendenti, come il rapporto “No Exit” di Human Rights Watch del 2005 e lo studio di RAND del 2009, hanno documentato modelli simili, definendoli incompatibili con le libertà umane fondamentali.
Secondo il quadro giuridico internazionale, in particolare il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), tali sistemi coercitivi violano molteplici diritti fondamentali:
• Libertà di pensiero, di coscienza e di religione (articolo 18);
• Diritto alla libertà e alla sicurezza della persona (articolo 9);
• Diritto alla privacy e alla vita familiare (articoli 17 e 23);
• Libertà di espressione e di associazione (articoli 19 e 22).
Quando la pressione psicologica o fisica supera la soglia della sofferenza grave, può anche costituire tortura o trattamento crudele, inumano o degradante ai sensi della Convenzione contro la tortura. Oltre al caso specifico del MEK, il rapporto sottolinea una sfida più ampia per il diritto internazionale: come affrontare il “controllo mentale” e la persuasione coercitiva da parte di attori non statali. Sebbene nella maggior parte degli ordinamenti giuridici non esista alcun reato specifico di “lavaggio del cervello”, questi atti spesso si intersecano con reati come la detenzione illegale, il lavoro forzato e la tratta di esseri umani.
Gli esperti esortano gli Stati a elaborare linee guida per l’identificazione delle vittime e a formare le forze dell’ordine a distinguere tra associazione volontaria e sottomissione coercitiva.
Il rapporto esorta Albania e Iraq a garantire la trasparenza, a concedere l’accesso alle Nazioni Unite agli ex membri del MEK e a garantire processi migratori equi e privi di interferenze politiche. Raccomanda inoltre che i Relatori Speciali delle Nazioni Unite sulla libertà di religione, la tortura e i migranti indaghino congiuntamente sulla situazione.
Per il MEK stesso, la richiesta è chiara:
porre fine a tutte le pratiche coercitive, consentire la libera uscita e aprire l’organizzazione a un controllo indipendente. Il MEK si presenta come un movimento pro-democrazia, ma testimonianze come quella di Ehsan Bidi rivelano una realtà più oscura, in cui la lealtà viene imposta attraverso la paura e la libertà di pensiero viene sistematicamente repressa.
Se verificate, queste pratiche rappresentano non solo una cattiva condotta organizzativa, ma violazioni dei diritti umani universali, sfidando governi e organismi internazionali a sostenere gli stessi principi che difendono all’estero.








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