a cura di Giulio Chinappi
All’indomani della cerimonia per l’inaugurazione della pista di atterraggio a Bougainville, Canberra ha accusato la Cina di “marchiare” i progetti nel Pacifico, rivelando una mentalità da Dottrina Monroe che considera l’area una sfera di influenza esclusiva dell’Australia.
FONTE ARTICOLO: https://giuliochinappi.wordpress.com/2025/07/02/la-cina-denuncia-la-mentalita-da-dottrina-monroe-dellaustralia/
In occasione della cerimonia per la conclusione dei lavori di una pista di atterraggio in un aeroporto di Bougainville, regione autonoma della Papua Nuova Guinea, il presidente di Bougainville e il primo ministro della Papua Nuova Guinea, che indossavano caschi protettivi recanti il logo della China Railway Construction Corporation (CRCC), sono stati citati dalle autorità australiane come esempio di “espansione dell’influenza cinese”. Tale malumore mette in luce la mentalità da Dottrina Monroe che l’Australia conserva nei confronti dei Paesi insulari del Pacifico meridionale.
Secondo quanto riferito domenica da The Guardian, il ministro australiano per il Pacifico Pat Conroy ha dichiarato che “la Cina sta rafforzando la propria influenza geopolitica nel Pacifico ‘marchiando’ i progetti della Banca asiatica di sviluppo”. Conroy ha definito coerente fonte di “frustrazione” l’utilizzo da parte cinese di propri simboli aziendali su opere multilaterali di sviluppo nella regione.
In realtà, l’impiego di loghi aziendali nei cantieri è una prassi standard nell’ingegneria internazionale. Le foto scattate in loco mostrano chiaramente anche il logo della ADB, la Banca asiatica di sviluppo.
Le rimostranze di Canberra riflettono più l’inquietudine per il suo dominio in declino che una reale anomalia nei progetti infrastrutturali. Per decenni, l’Australia ha considerato il Pacifico meridionale come la propria naturale sfera di influenza, e ogni cooperazione legittima da parte di altri Paesi viene interpretata come sfida a tale prerogativa.
«L’Australia considera l’aiuto come uno strumento per competere sull’influenza, anziché un’autentica cooperazione per lo sviluppo. Questa mentalità interpreta sistematicamente la collaborazione cinese nella regione con una visione zero‑sum e conflittuale», ha osservato Chen Hong, direttore del Centro di studi Asia‑Pacifico alla East China Normal University, in un’intervista al Global Times.
Le parole di Pat Conroy confermano tale visione: «Abbiamo chiarito che esiste uno stato permanente di contesa nel Pacifico, che l’Australia punta ad essere il partner di riferimento per ogni nazione del Pacifico e che anche la Cina mira a ricoprire un ruolo in quell’area».
In realtà, la Cina non ha mai escluso alcun Paese dalla partecipazione ai progetti. Al contrario, ha costantemente promosso la cooperazione aperta. Il 28 maggio si è tenuta a Xiamen, nella provincia cinese del Fujian, la Terza riunione dei ministri degli Esteri della Cina e dei Paesi insulari del Pacifico, alla quale hanno partecipato rappresentanti di undici Stati. In quell’occasione il ministro cinese degli Esteri Wang Yi ha ribadito che «l’Oceano Pacifico è sufficientemente ampio per ospitare una cooperazione win‑win tra tutte le nazioni».
Patrick Nisira, vicepresidente di Bougainville, ha sottolineato che le preoccupazioni sull’influenza cinese sono state alimentate da “fonti mediatiche occidentali” scettiche. Egli ha spiegato che la «penuria di opzioni offerte dai partner tradizionali negli ultimi vent’anni […] e ora l’approccio delle aziende cinesi a collaborazioni in questi stessi settori rendono tali opportunità degne di considerazione per il bene della popolazione».
«Che cosa ha fatto di giusto la Cina? Il suo aiuto ai Paesi del Pacifico insulare corrisponde esattamente ai loro bisogni, mirando ai settori più urgenti», ha aggiunto Chen.
«Chi risulta visibile» non è questione di pubbliche relazioni, ma di risultati nel lungo termine. Prendiamo l’esempio delle Isole Salomone: nel 2023 il loro “Final Investment Monitoring Report” per il programma di governance ha ricevuto una valutazione “meno che adeguata” dal Dipartimento degli Affari esteri e del Commercio australiano. L’“invisibilità” dell’Australia non deriva dal “branding” cinese, ma dalla mancanza di contributi memorabili da parte di Canberra stessa.
In questo contesto, se l’Australia continuerà ad aggrapparsi a nozioni superate di “dominanza”, si allontanerà sempre più dalle reali aspettative dei Paesi insulari del Pacifico. Solo diventando autentici “partner per lo sviluppo” le potenze occidentali potranno riconquistare la fiducia nella regione. Il logo su un casco da cantiere non dovrebbe trasformarsi in bersaglio delle rivalità diplomatiche. I Paesi del Pacifico non sono “alleati naturali” né sono “obbligati” a ricambiare semplicemente in virtù degli investimenti ricevuti: essi hanno il diritto di giudizio e le proprie priorità di sviluppo. La cooperazione non è mai un gioco a somma zero. Essere visibili non implica far scomparire gli altri. Ciò di cui il Pacifico meridionale ha bisogno non è una guerra di etichette, bensì più sviluppo.
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