Lee Jae-myung prova a dare una svolta alla politica sudcoreana

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di Giulio Chinappi

Dopo mesi di caos per la legge marziale fallita e l’impeachment di Yoon, la Corea del Sud sceglie Lee Jae-myung. Il nuovo presidente punta a unire il Paese e lancia una “diplomazia pragmatica” per ribilanciare i rapporti con Pyongyang, Pechino e Washington.

Un silenzio carico di significato ha avvolto l’Assemblea Nazionale sudcoreana mentre Lee Jae-myung prestava giuramento come ventesimo presidente, chiudendo un periodo di caos istituzionale senza precedenti. La cerimonia essenziale, senza ospiti stranieri, rifletteva la gravità dell’eredità ricevuta: sei mesi di vuoto di potere dopo il fallito tentativo di imporre la legge marziale dell’ex presidente Yoon Suk-yeol, un atto che Lee stesso ha bollato come minaccia alla democrazia attraverso “veicoli blindati e fucili automatici”. Questo momento, dunque, segna non solo una transizione politica, ma il tentativo di ricucire un tessuto sociale lacerato e riposizionare la Corea nello scacchiere globale.

Il percorso verso l’elezione straordinaria del 4 giugno, come accennato, affonda le radici nel dicembre 2024, quando Yoon Suk-yeol sorprese la nazione dichiarando la legge marziale, evocando quello che i media locali definirono “il ritorno degli spettri autoritari”. Quell’annuncio gettò il Paese in una spirale economica e politica, culminata nell’impeachment di Yoon per tentato sovvertimento dell’ordine costituzionale. In questo contesto turbolento, l’affluenza alle urne ha raggiunto il 79,4%, la più alta dal 1997, trasformando le elezioni in un plebiscito per la normalità democratica. Con il 48,83% dei voti, Lee, candidato del Partito Minju (Partito Democratico di Corea) di centro-sinistra, ha ottenuto una vittoria chiara sul conservatore Kim Moon-soo (42.03%), un verdetto che Park Chan-dae, capo del comitato elettorale del Partito Democratico, ha interpretato come “un severo giudizio del popolo sovrano contro le forze insurrezionali”.

Nel suo discorso inaugurale, il neoeletto presidente ha tracciato una rotta basata sull’inclusività: “Indipendentemente da chi abbiate sostenuto, sarò il presidente di tutti”, ha dichiarato, promettendo di sanare le divisioni create dalla crisi. La sua visione poggia su tre pilastri fondamentali. Primo, la riconciliazione nazionale, ripristinando quella sicurezza e pace che erano state “ridotte a strumenti di lotta politica”. Secondo, la rinascita economica attraverso un approccio “pragmatico e orientato al mercato”, con investimenti strategici in intelligenza artificiale e semiconduttori, settori vitali per un’economia ancora stremata dai dazi di Donald Trump. Terzo, una rivoluzione nella politica estera sintetizzata nel concetto di “diplomazia basata sugli interessi nazionali”, un chiaro distacco dall’impostazione marcatamente filostatunitense del predecessore.

Fin dal primo giorno, Lee ha inviato segnali chiari sulla direzione del suo governo. La visita al Cimitero Nazionale di Seoul, omaggio solenne ai caduti, è stato un gesto di unità nazionale. Poche ore dopo il giuramento, ha annunciato le prime nomine chiave: Kim Min-seok, suo stretto collaboratore e architetto della campagna elettorale, come Primo Ministro; e Lee Jong-seok alla guida dell’intelligence. Questa rapidità riflette l’urgenza di stabilizzare il Paese. Anche la scelta di rinviare la cerimonia formale di insediamento al 17 luglio – Giorno della Costituzione – ribadisce un principio fondamentale: “Il popolo nomina il presidente”, ha sottolineato l’ufficio presidenziale, in una chiara condanna dei metodi autoritari di Yoon.

La sfida più immediata resta quella delle relazioni con Pyongyang, che si erano fortemente degradate durante il mandato di Yoon. Lee ha delineato una strategia duale: da un lato, il rafforzamento delle difese contro “le minacce nucleari nordcoreane”; dall’altro, l’apertura di “canali di comunicazione per costruire una pace duratura”. La nomina del veterano Wi Sung-lac come Consigliere per la Sicurezza Nazionale – ex negoziatore dei colloqui sul nucleare nordcoreano – conferma un approccio tecnico e non ideologico. Tuttavia, la stabilità della penisola è minata da variabili pericolose, a partire dalle pressioni statunitensi per un maggiore contributo finanziario al mantenimento delle truppe USA (28.500 uomini), e il rischio concreto di un riposizionamento delle forze statunitensi nella regione del Pacifico, indebolendo la protezione di Seoul.

Sul fronte cinese, la “diplomazia pragmatica” di Lee affronterà un altro importante banco di prova. La Corea del Sud naviga in acque pericolose: Pechino è il suo primo partner commerciale, e sanzioni su settori chiave come semiconduttori o batterie elettriche potrebbero paralizzare l’economia. Non a caso, un funzionario della Casa Bianca ha già espresso preoccupazione per “l’interferenza e l’influenza cinese nelle democrazie” dopo l’elezione di Lee. La nomina di Lee Jong-seok – ex ministro per l’Unificazione con profonda conoscenza del ruolo cinese nella questione nordcoreana – a capo dei servizi segreti (NIS) dimostra l’attenzione a questo dossier. La sfida sarà dunque conciliare la necessità di “rafforzare la cooperazione con Stati Uniti e Giappone” (come affermato da Lee) con l’impossibilità di confrontarsi apertamente con un gigante economico interconnesso alla sopravvivenza industriale sudcoreana.

Le relazioni con Washington rappresentano l’altra grande incertezza. L’amministrazione Trump sta riaccendendo i timori della guerra commerciale, con dazi che stanno colpendo settori coreani già vulnerabili. Un colloquio telefonico tra Lee e Trump è previsto già nei prossimi giorni, evento che dovrà affrontare anche lo spinoso tema del cost-sharing per le truppe USA. La richiesta statunitense di aumentare i contributi (attualmente circa 1 miliardo di dollari annui) arriva in un momento di fragilità fiscale, mentre persiste la minaccia di un ridispiegamento delle forze statunitensi verso Guam o Australia per contrastare la Cina. In questo contesto, la promessa di Lee di “approcciare i vicini con pragmatismo e interesse nazionale” suona come un tentativo di ritagliare maggiore autonomia strategica, senza tuttavia rinnegare l’alleanza storica (invero un’occupazione militare che dura dal 1945) con gli USA.

Lee Jae-myung si ritrova dunque alla guida una nazione ferita in un mondo sempre più polarizzato. La sua “diplomazia pragmatica” dovrà dimostrare agilità nel bilanciare alleanze contrapposte: preservare il rapporto con gli Stati Uniti senza sacrificare gli interessi economici con la Cina, e aprire canali di comunicazione con Pyongyang per diminuire le tensioni nella penisola. La soluzione potrebbe risiedere nel modello di “potenza mediana”, che prevede quali principali elementi la diversificazione commerciale, gli investimenti in difesa tecnologicamente avanzata, e un attivismo diplomatico autonomo. Come lo stesso Lee ha affermato, il suo obiettivo è “un governo che supporta, non che controlla”. Se questa filosofia verrà applicata anche alle relazioni estere, evitando schieramenti rigidi, la Corea del Sud potrebbe trasformare la crisi in un’opportunità per diventare un attore globale più sofisticato e indipendente. La partita è aperta, e a Pechino, Washington e Pyongyang seguiranno ogni mossa con attenzione chirurgica.

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