Informazione e propaganda nel mondo occidentale

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di Alessio Tosco

Ogni guerra ha bisogno di una giustificazione, è infatti innegabile come l’opinione pubblica, di tutti i Paesi del mondo, democratici o meno, è per sua natura restia a giustificare l’intervento armato del proprio Paese. Vuoi per mero egoismo, il fatto di poter essere chiamati alle armi e rischiare la propria vita, vuoi per una sorta di empatia nei confronti del popolo attaccato, vuoi per una sincera opposizione alle decisioni del proprio governo. C’è quindi il bisogno per i governanti di fare leva sui sentimenti più profondi del proprio popolo per convincerlo a intraprendere un’operazione militare che il più delle volte non prevede una chiara data di conclusione, un conflitto di una durata indeterminata e dai costi non quantificabili preventivamente. Il casus belli deve quindi provocare nella popolazione un vero sdegno, una condizione davanti alla quale è impossibile tirarsi indietro, e soprattutto deve creare un nemico disumano; una disumanizzazione dell’avversario per la quale il suo annientamento è giustificato dal fatto di essere dalla parte giusta della barricata, dalla parte dei buoni.

E questo è vero soprattutto nell’epoca contemporanea, a partire dalle guerre successive alla Seconda Guerra Mondiale, e in particolar modo a quelle degli ultimi tre decenni in cui l’utilizzo dei mass-media è diventato centrale nell’influenzare l’opinione pubblica. Va da sè che la manipolazione delle informazioni è divenuta centrale in questo periodo. Dall’11 settembre in poi nel nome della “sicurezza collettiva”, del “bene comune” e degli “interessi di tutti” si sono potute giustificare azioni estreme in contrasto con ideali e cultura dominanti, «azioni che in altri tempi sarebbero state inammissibili, ma che nel clima prodotto dalla “guerra al terrorismo” diventano quasi ordinarie, rientrano in una routine accettata dall’opinione pubblica in quanto necessaria» (Chiais M., Menzogna e propaganda. Armi di disinformazione di massa, Lupett-Editori di comunicazione, Milano, 2007, p.17)

Se è vero che un fatto esiste solo nel momento in cui viene comunicato, amplificato e “distribuito” alla popolazione, la sua negazione e inesistenza si ha con il suo occultamento, che ne nega l’effetto. In quest’ottica allora possiamo interpretare l’estromissione dei giornalisti dai territori in cui è in atto un’operazione bellica, non avere notizie da comunicare nega l’esistenza stessa dell’evento bellico; e in questo furono maestri gli USA che già nel 1983 a Grenada e nel 1989 a Panama negarono l’accesso ai giornalisti nei teatri operativi, per neutralizzare effetti negativi sul «piano della legittimità e dell’approvazione internazionale» (Chiais M. 2007:23)

Durante la prima Guerra del Golfo invece la manipolazione delle informazioni da parte del governo americano si avvalse di un metodo che potremmo dire opposto a quello utilizzato per le operazioni a Grenada e Panama. In questo caso infatti si ebbe quella che viene definita “manipolazione per inondazione di notizie”, i giornalisti infatti furono sommersi da documenti filmati e fotografici «ed ebbero la netta sensazione, almeno per i primi tempi, di essere veramente di fronte ad una struttura impegnata a fornire massima collaborazione», quando in realtà questa collaborazione di facciata non era altro che «un meccanismo di gestione dell’informazione preordinato a monte dagli esperti di comunicazione del Pentagono e della CIA, con l’aiuto di agenzie di Pubbliche Relazioni al soldo della famiglia reale kuwaitiana in esilio e della stessa amministrazione statunitense» (Chiais M. 2007:28). Questa massa di informazioni selezionate servirono a creare l’immagine di una guerra umanitaria, giusta. Il controllo, anche fisico dei giornalisti (irregimentati in strutture controllate e invalicabili), durante questo periodo di guerra fece successivamente coniare, per definirlo, il termine “giornalismo embedded” per descriverne la dipendenza rispetto al potere militare. Esempio eclatante di questa nuova guerra mediatica fu l’allestimento del centro operativo presso il Dhahran International Hotel per i 1600 giornalisti accreditati, unico dettaglio era che prima di «ottenere un bagde di accredito, erano tenuti a firmare delle “regole di comportamento” tali da limitare pesantemente ogni libertà di azione e possibilità di svolgere realmente la propria attività». (Chiais M. 2007:31)*

Chiaramente tutte le immagini di morte, distruzione e sofferenza che tutte le guerre inevitabilmente comportano, non vennero quasi mai mostrate: del massacro sull’autostrada Kuvait City-Bassora e sulla Jahra-Umm Quasr si venne a conoscenza solo anni dopo.

I livelli di manipolazione delle informazioni a scopo propagandistico sono diversi. Possiamo quindi parlare di propaganda bianca, scoperta, quando il messaggio da promuovere è evidente; si parla di propaganda grigia quando invece c’è solo una parziale copertura delle fonti, c’è un’omissione di particolari fondamentali, mancata contestualizzazione, un gioco di conferme e smentite delle notizie che tendono a confondere il pubblico. Il livello più alto di manipolazione si raggiunge con la black propaganda, in questo caso la comunicazione tende a determinare una vera e propria distorsione della realtà nel pubblico, si ha allora una assoluta e reiterata mistificazione delle fonti, una costruzione artificiosa di notizie false. Il processo propagandistico per influenzare l’opinione pubblica, e indurla ad accettare le scelte politiche governative, soprattutto in situazioni che possono portare ad una guerra, è ben riassunto in fasi dal Prof. M. Chias, docente di Studi Strategici presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia in Menzogna e propaganda. Armi di disinformazione di massa, che qui riportiamo per esteso:

«demonizzazione del nemico, costruita e fomentata attraverso pratiche di black propaganda, quali la costruzione di prove fittizie, la pubblicizzazione di documenti inesistenti, la scoperta di atrocità mai commesse, l’attribuzione di dichiarazioni mai pronunciate, la denuncia di pericoli inesistenti, ecc.; trasmissione di informazioni contrastanti, utilizzo di fonti non verificabili, pubblicizzazione di ricerche, studi, sondaggi, immagini manipolate o decontestualizzate, al fine di determinare risentimenti e timori nell’opinione pubblica; sulla base delle operazioni precedenti, esaltazione dello spirito nazionalistico, o di gruppo, e dei valori ideologici, culturali, etici dei quali questo è portatore, denuncia del nemico e dichiarazione del proprio impegno nel nome del bene collettivo» (Chiais M. 2007:164).

Altro elemento fondamentale nella comunicazione politica volta a far accettare alla popolazione determinati impegni, e spesso sacrifici, nell’ottica di un superiore bene collettivo, è l’utilizzo dell’atrocity propaganda per alimentare un vero e proprio odio e rancore nei confronti dell’avversario diffondendo informazioni sui crimini commessi dai nemici in modo esagerato e spesso del tutto inventato. Tutto questo per creare nell’immaginario collettivo un nemico disumano, brutale, crudele fautore di crimini contro l’umanità. I crimini attribuiti al nemico saranno quindi nell’ordine: contro i deboli, in primis donne e bambini, contro luoghi sacri, contro civili inermi.

Gli esempi storici sull’utilizzo di queste tecniche sono molteplici: già durante la Prima guerra mondiale l’utilizzo di questa tecnica fu largamente usata da entrambi gli schieramenti, i francesi quindi scrivevano di un Kaiser tedesco che avrebbe «personalmente ordinato di torturare bambini di tre anni» e che prevedeva «un premio doppio» per i sommergibilisti che affondavano navi con donne e bambini, queste e altre notizie simili venivano raccolte nel “les atrocités allemandes” distribuito del Bureau de la presse francese. Non da meno i tedeschi del Die zeit in blind raccontavano di un prete francese «che portava al collo una catena fatta di anelli tolti dalle dita che aveva tagliato». Queste e altre falsità diffuse dalla stampa alleata durante la Prima guerra mondiale si possono trovare in Falsehood in Wartimes: Propaganda Lies of First World War del barone Arthur Ponsonby. Ovviamente tutte notizie mai confermate, semplici costruzioni artificiose per creare l’immagine di un nemico mostruoso. Questi esempi non sono dissimili da tutta la propaganda che si è avuta durante la Seconda guerra mondiale e successivi conflitti bellici.

Scrivono Gordon Allport e Leo Postman sulla rivista The Psychology of Rumor nel 1946: «durante una sollevazione o una guerra le voci corrono più veloci che mai, e in questo periodo di eccitazione il loro carattere riflette un acuto fanatismo. Talvolta si tratta persino di allucinazioni. Torture, violenze, assassinii vengono narrati in maniera delirante, come per giustificare la violenza usata e accelerare il processo di vendetta»

Un esempio particolare però segna il cambio di passo nell’utilizzo della costruzione artificiosa delle notizie, e il suo impatto nella creazione di una nuova realtà effettiva, il suo farsi storia: l’eccidio di Timisoara del Natale 1989.

Le prime notizie al riguardo iniziarono a girare sui media italiani il 19 dicembre, così scriveva quel giorno il Corriere della Sera in riferimento agli scontri avvenuti il 17 dicembre: «il vento della rivolta comincia a soffiare impetuoso anche nel regno del dittatore romeno Ceausescu, l’unico leader dell’Est che si ostina a bloccare l’ingresso della perestrojka nel suo Paese ridotto alla fame. Ieri sono arrivate altre conferme delle manifestazioni che sabato e domenica hanno sconvolto le città di Timisoara e Arad (in Transilvania) e che sarebbero state represse nel sangue dalla polizia con l’appoggio dell’esercito».

Mentre La Repubblica sempre il 19 dicembre scrive: «fonti dell’opposizione interna parlano di scontri violentissimi e di “trecento morti”, altri viaggiatori stranieri raccontano di aver visto cadaveri di giovanissimi abbandonati sul selciato».

Per “fonti” però sia i giornali italiani che quelli internazionali intendono sempre persone indefinite, senza nome, “un medico rumeno”, “un viaggiatore cecoslovacco”, “una donna tedesca occidentale” ecc. ecc. insomma fonti incerte e inattendibili. Non da meno sempre sul Corriere della Sera del 19 dicembre si può leggere di “testimoni oculari che parlano di un’orgia di violenza guidata dai carri armati” e del fatto che potrebbero essere “almeno mille i cadaveri portati all’obitorio”.

Il 20 dicembre l’emittente Radio Free Europe parla di una Timisoara “forse completamente distrutta” e di bambini schiacciati dai carri armati. La stessa emittente fa girare le prime cifre “ufficiali”: i morti sarebbero 4632 e i feriti 1282 (da notare l’estrema precisione dei numeri…).

In questo grande accavallarsi di notizie e numeri sull’eccidio di Timisoara passa in terzo se non quarto piano l’invasione di Panama da parte degli Stati Uniti, iniziata il 20 dicembre.

Scrive E. Petta sul Corriere della Sera del 21 dicembre: «il Governo di Bucarest ha negato anche ieri i morti di domenica. Le vittime, comunque, non sarebbero tre o quattrocento, ma duemila, probabilmente duemilacinquecento. Centinaia di cadaveri sono stati sepolti in fosse comuni, altri sono stati ammucchiati dai miliziani in sacchi di plastica e bruciati. E i miliziani stanno continuando la loro opera repressiva entrando nelle abitazioni private, interrogando e minacciando la gente, arre- stando elementi sospetti. Il quotidiano tedesco Die Welt ha scritto che decine di studenti sono stati portati via da Timisoara da camion militari per destinazione ignota».

La Stampa sempre il 21 dicembre parla di tre-quattromila morti.

La “conferma” dell’occultamento dei cadaveri in fosse comuni arriva sulla stampa internazionale il 22 dicembre; a darne notizia sono dapprima France Press e la tv di Stato ungherese e jugoslava e poi tutte le altre a ruota libera. Intanto iniziano a girare anche i primi filmati amatoriali sulle spaventose violenze.

Il 24 dicembre La Stampa parla di 12000 morti e così descrive la situazione sulle fosse comuni: «i cadaveri sono stati dissotterrati ma in molti casi il riconoscimento è stato quasi impossibile perché i volti erano stati sfigurati con l’acido. Numerosi corpi presentavano segni di torture, alcuni avevano i piedi legati col fil di ferro. C’era un bambino, c’era una madre col suo neonato. Sdegno, rabbia e disperazione tra la gente che nella notte, illuminando la scena con candele, scopriva il segreto più vergognoso di questi giorni di terrore. Secondo le prime ricostruzioni i cadaveri sarebbero stati portati alle fosse comuni con autocarri della raccolta rifiuti. Dopo la sepoltura i miliziani avrebbero ucciso anche gli autisti dei camion per cancellare ogni traccia della strage».

Il 25 dicembre su La Repubblica arriva la prima testimonianza diretta, il testimone oculare degli eventi in corso a Timisoara è lo stesso autore dell’articolo, Stabile scrive cosi: «Timisoara. L’orrore appare all’improvviso, appena varcato il cancello malmesso di un piccolo cimitero dei poveri con le croci di latta e le erbacce che imputridiscono nel fango. Nudi, tumefatti, straziati, sedici corpi giacciono uno accanto all’altro sopra bianche lenzuola, poggiati sulla terra bagnata, tragico manifesto di questa insurrezione che un potere irriducibile e malvagio ha voluto trasformare in guerra […] Dopo averli uccisi qualcuno si è accanito sui cadaveri. Tutti i corpi presentano una lunga cicatrice dal mento al bacino […] Ora si cercano gli altri corpi che dopo la mattanza di domenica e lunedì (3.600 i morti secondo la stima del fronte democratico rumeno, ma altre fonti parlano di dodicimila vittime)».

Così scrive invece il fiammingo Blik: «prima di essere falciati con una mitragliatrice e gettati nella gigantesca fossa, gli uomini sono stati legati mani e piedi con filo spinato, i loro corpi sono stati torturati, i loro organi genitali strappati».

Sull’emittente francese TF1 il 28 dicembre così veniva descritto il leader rumeno: «Ceausescu, malato di leucemia, aveva bisogno di cambiare sangue ogni mese. Giovani dissanguati erano stati scoperti nelle foreste dei Carpazi. Ceausescu vampiro? Come crederlo? Le voci avevano parlato di cimiteri. Li hanno trovati a Timisoara. E non sono gli ultimi».

I canali principali da cui queste notizie, riprese dai principali organi di stampa occidentali, entravano in Romania erano l’emittente Voice of America e Radio Free Europe.

Nicolae Ceaușescu e la sua coniuge vennero giustiziati il 25 dicembre presso Târgoviște da un tribunale improvvisato, l’accusa principale fu per il genocidio di Timisoara.

I primi dubbi sulla reale portata degli scontri di Timisoara iniziano a circolare il 24 gennaio, così si leggeva su France Press: «Tre medici di Timisoara hanno affermato che i corpi di persone decedute di morte naturale sono stati prelevati dall’istituto medico-legale e dall’ospedale della città ed esposti alle telecamere della televisione come vittime della Securitate».

Solo ad aprile del 1990 inizia ad emergere la totale infondatezza dei fatti raccontati su Timisoara, il francese Libération il 4 di questo mese esce con uno speciale dal titolo “Vera storia di Timisoara” : attraverso l’utilizzo di fonti ufficiali e certe conclude che i morti nel presunto eccidio furono 147 e i feriti 335. Le fosse comuni in cui sarebbero stati occultati i cadaveri massacrati dei “Martiri della rivoluzione” si dimostrò essere in realtà la pratica usata comunemente per la tumulazione dei cadaveri della parte di popolazione più povera che non poteva permettersi una sepoltura più dignitosa.

A distanza di tre anni, nel novembre 1993 uno dei più autorevoli giornali francesi, Le Monde diplomatique, definirà la narrazione sugli eventi romeni del Natale del 1989 un “vero e proprio deragliamento dell’informazione”, “il più grande inganno mondiale dopo l’invenzione della televisione”.

Al di là delle smentite, arrivate dopo mesi, se non anni, di distanza non si è mai arrivati a scoprire chi organizzò questa gigantesca campagna di mistificazione. L’unico fatto certo fu che nel giro di pochi giorni riuscì in pieno nel suo scopo, rovesciare il regime romeno.

Si può affermare che il successo di questa operazione fece scuola nel campo dell’utilizzo sistematico delle tecniche propagandistiche più estreme, e innegabilmente più efficaci.

Questo tipo di utilizzo dei media fu infatti utilizzato durante la Prima guerra del Golfo con la costruzione del personaggio del Capitano Karim, presunta guardia del corpo di Saddam Hussein, accreditato come fonte assolutamente sicura dal famoso giornalista francese Patrik Poivre di TF1. Con i suoi racconti da testimone oculare dei fatti delle immani atrocità compiute da Saddam Hussein ebbe un ruolo importante nel sensibilizzare l’opinione pubblica, non solo francese, sulla giustezza dell’intervento militare in Iraq, peccato che, a guerra conclusa, lo stesso controspionaggio francese conformò che si trattava di un impostore che non aveva mai conosciuto il dittatore iracheno.

Non meno spettacolare fu la notizia dei neonati strappati dalle incubatrici e lasciati morire dall’esercito iracheno nell’ospedale di Kuwait City, in questo caso le fonti dirette, i testimoni oculari dell’evento, furano la quindicenne Nayirah, presunta volontaria dell’ospedale, e il dottor Behbehani, sempre presente durante gli eventi, che confermò davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di aver personalmente assistito all’uccisione di 40 bambini; peccato che poi si venne a scoprire che la prima non era nientemeno che la figlia dell’ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti e mai stata presente agli eventi, e il medico nient’altro che un dentista che a guerra finita ammise di aver mentito.

Ma questi non sono che esempi. Di narrazioni costruite ad hoc per scopi propagandistici se ne potrebbero citare molteplici: la storia del soldato Jessica Lynch durante il secondo conflitto in Iraq, che ha personalmente smentito la versione ufficiale della sua storia; la storia sulle armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein e della ormai imminente costruzione di una bomba atomica, smentite chiaramente dallo scienziato David Kelly l’una e dal direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica Mohamed el Baradei la seconda. E potremmo continuare con le false notizie diffuse durante la guerra jugoslava, in Cecenia, in Libia, in Siria, nell’eterno conflitto arabo-israeliano, ecc. ecc.

Chiaramente qui sono stati riportati gli esempi per quanto riguarda i media occidentali, dando per scontato che nei regimi autoritari e dittatoriali la manipolazione delle informazioni è prassi comune, non serve ad esempio citare tutte le dichiarazioni antiamericane dei vari leder arabi da Ali Kamenei, a Saddam Hussein, da Gheddafi a Ahmadinejad, per capirne l’intrinseca mistificazione della realtà.

Quello che si vuole qui evidenziare è che anche nei Paesi dove non esiste una propaganda di Stato in tempo di pace, al mutare della situazione internazionale, durante l’avvicinarsi a situazioni che possono portare ad un conflitto armato, allora, anche nei Paesi democratici, si possono attivare i processi appena descritti; è quindi necessario rivedere oggi queste tecniche, studiare i processi alla base di queste “narrazioni”. Con l’emergere dei social network, delle piattaforme di condivisione video, con la possibilità di “osservare” in tempo reale gli eventi bellici è oggi ancora più importante la conoscenza di come storicamente sono state diffuse notizie false allo scopo di avvalorare e far condividere scelte impopolari. La macchina della propaganda si è ormai attivata su tutti i fronti, riconoscerne il rumore è necessario, sentire la puzza delle sue emissioni nocive e spegnerla un dovere.

In definitiva possiamo chiudere questa breve riflessione su un argomento così vasto citando le parole di Edward Louis Bernays, padre dei moderni metodi per l’utilizzo del subconscio al fine di manipolare l’opinione pubblica, e che ricoprì un ruolo fondamentale nel successo dell’opera di persuasione dell’opinione pubblica americana del Creel Committee, istituito dal Presidente Woodrow Wilson nell’aprile del 1917 proprio allo scopo di convincere la maggioranza degli americani all’epoca contrari alla guerra ad entrare con la massima forza e convinzione nel Primo conflitto mondiale e superare il naturale isolazionismo americano. Leggiamo in Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia, una delle opere più affascinanti tra le tantissime pubblicate dall’autore : «la manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle idee delle masse è un aspetto importante del funzionamento di una società democratica».

Per completezza ricordiamo che Bernays è stato inserito, non a caso potremmo aggiungere, dalla rivista Life tra le 100 figure più importanti del XX secolo.

*Alcune regole riportate da Candoto M. in Dal nostro inviato di guerra. Cronache di un mestiere che cambia, erano: è proibito fotografare o filmare soldati feriti o morti; è proibito pubblicare informazioni sul tipo di armi, equipaggiamenti, spostamenti, consistenza numerica delle unità; è proibito descrivere con particolari e dettagli lo svolgimento delle operazioni militari, pubblicare notizie sugli obiettivi e sui risultati conseguiti dalle stesse operazioni; è proibito dare una identità precisa alle località e alle basi dalle quali partono specifiche missioni di combattimento; i servizi si possono identificare con frasi come “Golfo Persico”, “Mar Rosso”, “Arabia Saudita Orientale”, “Zona di confine con il Kuwait”; è proibito pubblicare informazioni sulla consistenza numerica e sull’armamento delle forze nemiche; è proibito dare particolari sulle perdite subite dalle forze della coalizione; possono essere usate definizioni come “scarse”, “moderate”, “gravi”; sono vietate le interviste non concordate.

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