Il futuro del Pakistan dopo il cambio di regime. Intervista a Daniele Perra

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Il Pakistan è ritenuto il vero vincitore del rocambolesco ritiro statunitense dall’Afghanistan, vittoria che si aggiunge al sempre più solido legame di Islamabad con la Cina e all’aperto sostegno fornito alla Russia nei riguardi della guerra in Ucraina, oltre alla collocazione geograficamente strategica tra Medio ed Estremo Oriente e al fatto di essere l’unico Paese islamico dotato di armamento nucleare. È forse per questa ragione che si spiega la ragione dell’attuale crisi politica pakistana, con la quale sembra sia in corso un tentativo di cambio di regime (e quindi di rotta) all’interno della Terra dei puri. Ne parliamo con Daniele Perra, brillante e prolifico studioso di geopolitica che recentemente ha dato alle stampe il libro “La terra dei puri. Geopolitica ed ideologia del Pakistan” (scopri come acquistare il volume con il 20% di sconto), col quale fornisce un importante contributo alla comprensione di un Paese fin troppo ignorato e mal compreso nel panorama italiano.

Il dott. Perra darà anche una lezione proprio sul Pakistan nel nostro corso l’Asia vista da Mosca e Pechino.

Dottor Perra, il primo ministro pakistano Imran Khan ha recentemente denunciato quello che ritiene essere un tentativo di cambio di regime da parte di forze estere. Per quanto per ora Khan sia rimasto al potere, vi sono segni di forte tensioni interne, fomentate anche dai numerosi interessi che le grandi potenze nutrono nei confronti di questo Paese strategico. Come si stanno muovendo gli Stati mondiali nei confronti del Pakistan, e chi potrebbe essere interessato ad attuare un cambio di regime?

Innanzitutto è bene chiarire che la situazione è ancora in evoluzione. Imran Khan è riuscito inizialmente ad evitare il voto di sfiducia grazie ad una prima dichiarazione di incostituzionalità da parte del Presidente dell’Assemblea, ma, in un secondo momento, è stato messo in minoranza dal parlamento. Oggi, il nuovo Primo Ministro pakistano è il politico e uomo d’affari Shehbaz Sharif, fratello del più noto Nawaz Sharif, e presidente del Pakistan Muslim League (Nawaz): Partito fondato dallo stesso Nawaz nel 1993 dopo la dissoluzione dell’Islamic Democratic Alliance. Dunque, in qualche modo (per mezzo di una manovra parlamentare di compravendita di seggi, qualcosa a cui siamo abituati anche in Italia), il cambio di regime si è già concretizzato. A questo proposito, si rende necessaria un breve digressione per meglio capire il panorama politico pakistano.

Ad oggi, sono tre i principali Partiti politici in Pakistan: il già citato PML(N), il Partito del Popolo Pakistano (PPP), facente riferimento alla famiglia Bhutto-Zardari, ed il Pakistan Tehreek-e-Insaf (il Movimento pakistano per la giustizia legato alla figura dell’ex campione di cricket Imran Khan). I primi due Partiti hanno in qualche modo segnato la storia politica del Pakistan degli ultimi cinquanta anni, alternandosi al potere con periodi di dittatura militare. Il PPP venne fondato da Zulfiqar Ali Bhutto (padre di Benazir) sul finire degli anni ’60 del secolo scorso. Questo, inizialmente, aveva un orientamento di tipo socialista-nazionale. Bhutto nazionalizzò l’industria dell’acciaio pakistana e cercò di attuare una politica di bilanciamento tra Stati Uniti ed URSS che lo portò a stringere rapporti sempre più stretti con Pechino. Bhutto, inoltre, diede vita al programma nucleare pakistano (in larga parte attraverso fondi libici e sauditi) e garantì appoggio ai Paesi arabi coinvolti nel conflitto contro Israele del 1973. Tuttavia, nel corso del tempo (dopo la morte di Zulfiqar per mano della dittatura militare filo-USA di Zia ul-Haq), il PPP, soprattutto con la guida della figlia Benazir (legatasi al ricco uomo d’affari Asif Ali Zardari), si è trasformato in una sorta di Partito di famiglia: un agglomerato di interessi di una ben determinata fetta dell’élite pakistana dalle vaghe aspirazioni social-democratiche. Il PML(N), a sua volta, è inscindibile dalla famiglia Sharif, sebbene sia di orientamento liberal-conservatore. Di fatto, già sul sul finire degli anni ’70, i principali problemi strutturali e politici che ancora oggi affliggono il Pakistan si erano palesati in modo evidente. A questo proposito, non si può prescindere dal ricordare che esistono storicamente tre relazioni fondamentali (e interconnesse tra loro) che hanno dominato l’evoluzione del Pakistan: quella tra esercito e società civile; quella tra Islam e Stato; quella tra esercito e Islam. La politica pakistana, in questo contesto, si è sviluppata sin dal principio seguendo due direttrici fondamentali: il paternalismo e la repressione. Questo costituisce in tutto e per tutto un’eredità diretta del Raj Britannico che nei territori dell’odierno Pakistan aveva consolidato il suo sistema di potere da un lato attraverso l’alleanza con la classe dei ricchi possidenti terrieri (a cui, ancora oggi, appartiene larga parte della classe politica e di cui faceva parte lo stesso Bhutto) e, dall’altro, reclutando in maggioranza sudditi di etnia punjabi tra le fila dell’esercito.

La vittoria di Khan alle elezioni del 2018 ha rappresentato una ventata di novità visto che il suo movimento non si legava in modo evidente a nessuno dei gruppi di potere tradizionali del Pakistan (non a caso, PPP e PML-N si sono alleati proprio per sconfiggerlo). Questa ha suscitato anche delle speranze tra la popolazione che, ancora oggi, vista la consistenza delle manifestazioni di sostegno allo stesso Khan, sembra continuare a nutrire fiducia nell’ormai ex Primo Ministro. Tuttavia, nei suoi quattro anni al potere, anche a causa di un maggioranza di governo abbastanza complessa, Khan è riuscito a fare ben poco per i superare i suddetti problemi politico-strutturali del Pakistan, nonostante la sua azione di contrasto all’epidemia di Covid19 sia stata decisamente positiva (se paragonata a quella della vicina India). Sicuramente, il suo periodo al governo è coinciso anche con un netto peggioramento delle relazioni con gli Stati Uniti e con un evidente avvicinamento alla Russia (la relazione privilegiata con la Cina non è mai stata messo in discussione). In particolare, la relazione tra Khan e Donald Trump è stata particolarmente complessa. E la situazione non è migliorata con l’amministrazione Biden. Proprio Biden, nel 2007, quando era ancora un candidato alle primarie democratiche, definì il Pakistan come il “Paese più pericoloso al mondo”.

Questo dimostra in modo evidente che i rapporti tra Islamabad e Washington erano nettamente peggiorati già prima dell’avvento al potere di Khan e che, negli ultimi quattro anni, questa separazione si è aggravata soprattutto in termini “retorici”, visto il lessico anti-imperialista utilizzato dalla guida del PTI. Infatti, già nel 2008, il politologo Tariq Ali parlava dell’inevitabile scontro che si sarebbe venuto a creare tra Pakistan e Stati Uniti, in particolar modo a causa dell’Afghanistan, dove Islamabad (sfruttando il Movimento talebano) pensava di costruire quella profondità strategica che la sua dimensione geografica allungata e priva di “rive geopolitiche” non può garantirle in caso di conflitto su vasta scala con l’India.

È emblematico il fatto che, nonostante i tentativi di Musharraf di purgare l’ISI degli elementi pro-talebani dopo la capitolazione pakistana di fronte ai sette punti di Washington del 2001, il servizio segreto pakistano abbia continuato a sostenere per vie sotterranee la resistenza degli studenti coranici nel Paese dell’Asia centrale (soprattutto di fronte al rischio che potesse venire instaurato a Kabul un governo filo-indiano). Dunque, è possibile che Washington, come afferma Khan, abbia cercato di influenzare la politica interna del Pakistan per rovesciare il suo governo? È sicuramente possibile che vi sia stata qualche spinta dall’ambasciata USA che non ha gradito i toni dell’ex Primo Ministro. E si spera che la crisi non venga spinta ulteriormente in modo da provocare una destabilizzazione del già fragile assetto istituzionale del Paese (scenario, forse, gradito a Washington). In questo senso, sarebbe sicuramente auspicabile e preferibile il ricorso a nuove elezioni senza esasperare ulteriormente gli animi.

Ma è necessario porsi un’altra domanda: questa crisi cambierà la politica estera del Pakistan storicamente (anche durante il periodo al potere di Khan) sotto diretto controllo dell’esercito e dell’ISI? La risposta in questo caso è no, visto che ha già assunto una direzione ben precisa. Basti pensare che anche il PML(N) è assai vicino alla Cina. Ad esempio, fu Nawaz Sharif a firmare con Pechino l’intesa per la costruzione del Corridoio Economico Sino-Pakistano: una delle infrastrutture strategiche più importanti del progetto di interconnessione eurasiatica della Nuova Via della Seta.

Nel Suo libro spiega che il Pakistan si sta legando sempre maggiormente ai processi di tessitura eurasiatici, scelta che volta pagina al tentativo pakistano di caratterizzarsi come potenza egemone regionale o come testa di ponte per quelle potenze che invece vogliono prevenire detta tessitura. Come si spiega questa nuova linea strategica e quali conseguenze può avere per la regione?

Già il padre fondatore del Pakistan, Muhammad Ali Jinnah, nel 1948, definì il neonato Paese dell’Asia meridionale come il futuro “Stato perno globale”. Tale idea derivava dalla consapevolezza che la posizione geografica del Pakistan (suggerita dal poeta e pensatore Muhammad Iqbal durante un celebre discorso alla Lega Musulmana nel 1930) si trovasse all’incrocio tra le direttrici Nord-Sud ed Ovest-Est dell’Eurasia e che da tale posizione si potesse facilmente accedere sia allo spazio dell’Asia centrale (il “cuore del mondo” nella prospettiva del celebre geopolitologo britannico Sir Halford Mackinder) sia all’Oceano Indiano. Sulla base di questa precisa consapevolezza, Jinnah, quando molti osservatori europei gli facevano notare la relativa povertà delle regioni pakistane, ricordando come una delle ricchezze del Pakistan risiedesse proprio nella sua posizione geografica, nel mantenimento della sua integrità e stabilità interna, affermava: “I grandi cervelli che hanno tagliuzzato l’Europa rendendola un ridicolo miscuglio di Stati artificiali e conflittuali difficilmente possono parlare con noi di economia”.

Non a caso, una buona fetta degli introiti pakistani deriva proprio dal commercio transfrontaliero da e verso l’Asia Centrale. Introiti che sono stati costantemente messi a rischio dallo sviluppo e dall’intensificazione del contrabbando. Il giornalista pakistano Ahmed Rashid ha riportato che tra il 1992 ed il 1993, ad esempio, la perdita in entrate doganali per il Pakistan è stata di 3 miliardi di rupie; nel 94-95 è stata di 11 miliardi; nel 97-98 di 30 miliardi. Questa forma di “evasione” incontrollata e mai del tutto ostacolata, per anni ha contribuito anche ad arricchire svariati gruppi di potere (corrotti) all’interno del Pakistan. Negli anni ’90, inoltre, hanno iniziato a farsi sentire le ripercussioni della guerra per procura all’Unione Sovietica in Afghanistan. Questa, infatti, ha creato la cultura dell’eroina, del Kalashnikov e della madrasa wahhabita. In dieci anni di guerra, il profilo sociale del Paese è stato profondamente stravolto (senza considerare il fallimento dell’idea di Zia ul-Haq di creare un grande blocco sunnita tra l’Asia meridionale e centrale da opporre sia all’“eretico” Iran che alla “idolatra” India).

La principale fonte di sostegno per il Movimento talebano, prima ancora che l’ISI optasse per l’aperto sostegno sul finire degli anni ’90, di fatto, era il “pedaggio” pagato dagli autotrasportatori in cambio dell’apertura delle strade afghane al contrabbando. Appoggiando i Talebani, l’ISI ha cercato di sostituirsi ai gruppi criminali di Quetta legati al contrabbando. Quando i Talebani entrarono a Mazar-i Sharif nel 1998, i capi militari pakistani considerarono questa vittoria come una vittoria pakistana. Essi, inoltre, ritenevano che il governo talebano, a differenza di ogni precedente regime afghano, avrebbe riconosciuto la cosiddetta Linea Durand e tenuto a bada il nazionalismo pashtun. Tuttavia, si è verificato l’esatto contrario. La vittoria talebana ha virtualmente eliminato un confine (in linea teorica mai esistito) che già da decenni veniva comunque attraversato in entrambe le direzioni. Una situazione direttamente aggravata dall’intervento occidentale in Afghanistan che, di fatto, ha sancito il totale fallimento della strategia pakistana, tanto che, a partire dall’elezione di Obama, si è iniziato a parlare di AfPak e di estensione della “guerra al terrore” alle Province nord-occidentali del Pakistan.

Oggi, dopo vent’anni di disastrosa occupazione occidentale a Kabul (con tanto di aumento esponenziale della coltivazione di oppio e produzione in loco di eroina), si aprono nuove opportunità per la connessione infrastrutturale con l’Asia Centrale attraverso un Afghanistan finalmente stabilizzato. Dunque, si aprono importanti opportunità geoeconomiche per il Pakistan. Naturalmente, per fare ciò, è necessaria la stretta cooperazione di Islamabad con le potenze regionali: in primo luogo, proprio Russia e Cina, ma non è da sottovalutare il ruolo dell’Iran, entrato a pieno titolo nella SCO e disposto al dialogo con i Talebani dopo le frizioni del passato. In questo contesto, risulta invece nefasto il ruolo degli Stati Uniti che hanno visto bene di congelare 9 miliardi di dollari che la Banca Centrale Afghana aveva (non sorprendentemente) trasferito negli USA quando il Paese era ancora sotto occupazione e gestito dai governi fantoccio filo-occidentali. Biden ha fatto sapere che la metà di questi fondi andranno a risarcire le famiglie delle vittime dell’11 settembre. Non si capisce per quale motivo visto che, dei 19 attentatori, nessuno era afgano e che gli stessi Talebani si resero disponibili all’estradizione di Osama Bin Laden purché venissero fornite prove evidenti del suo coinvolgimento negli attentati e che venisse sottoposto a giudizio da parte di un tribunale islamico.

In un altro Suo testo, Essere e rivoluzione, Lei sostiene che l’Europa, al fine di ritrovare il proprio autentico spirito e quindi per potersi ricostruire anche istituzionalmente, deve legarsi ai progetti di tessitura eurasiatici, in maniera simile a quanto sta facendo il Pakistan, che è appunto uno stato istituzionalmente debole. Quali similitudini si possono trarre tra l’Europa e il Pakistan? Vi è un esempio che da italiani ed europei possiamo trarre dalle recenti esperienze e scelte politiche di Islamabad?

La mia idea è che l’Europa debba in primo luogo liberarsi dalla perniciosa influenza dell’atlantismo e della NATO che, più che un’alleanza, è uno strumento per mantenere il Vecchio Continente in una condizione di sudditanza/cattività geopolitica nei confronti della potenza egemone: gli Stati Uniti. Per fare ciò, si rende necessario partire da un processo di decolonizzazione mentale che non può prescindere dalla riscoperta delle nostre profonde ed autentiche radici storico-culturali. Heidegger parlerebbe di moto rivoluzionario da intendersi nel senso etimologicamente corretto del termine: ovvero, come “ritorno ad un punto d’origine” attraverso un percorso di introspezione collettiva. In questo senso, si ritrovano delle similitudini abbastanza evidenti con il pensiero di quello che è stato il padre ideologico-spirituale del Pakistan, Muhammad Iqbal, che parlava di costruzione della Nazione partendo dalla ricostruzione del “sé collettivo”.

Non dissimili sono state le riflessioni del padre teorico dell’eurasiatismo, lo storico e linguista russo Nikolaj S. Trubeckoj, che definiva il popolo in termini di “persona collettiva” legata da quella che Carl Schmitt riteneva essere la sua “sostanza comune”. Personalmente, ho apprezzato il fatto che Imran Khan, personalità assai sottovalutata in “Occidente”, abbia cercato di riportare al centro dell’insegnamento nelle scuole pakistane proprio il pensiero di Iqbal e di riproporre l’idea del Pakistan come “Stato ideologico” che deve necessariamente sviluppare la propria politica sia in funzione dell’interesse nazionale che di ben determinati valori (quelli dell’Islam tradizionale, nello specifico caso).

Per questo motivo, con molta fantasia, è stato addirittura accusato di fascismo dai suoi oppositori ancora legati ad una modalità di pensiero che li ancora a categorie politiche di produzione europea. Tuttavia, ritengo che non vi sia nulla di sbagliato nell’idea di fondo portata avanti da Khan. Certo, la sua messa in pratica è assai più complessa e suscettibile di enormi fraintendimenti. Ma la riscoperta delle proprie radici è l’unica via per riconquistare quella che l’ideologo cinese Wang Huning definisce “sovranità culturale”. Prendiamo ad esempio il disperato caso italiano, è onestamente impensabile che Mazzini, Gramsci o Gentile vengano studiati più all’estero che in Italia. Ed è impensabile che si debba fare professione di antifascismo prima di spiegare che il “fascio littorio”, nell’Antica Roma, rappresentava il potere di impartire giustizia secondo il volere divino (il Fas).

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