LA “TALASSOCRAZIA” DI MARCO GHISETTI

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Originale: https://www.geopolitica.ru/it/article/la-talassocrazia-di-marco-ghisetti

di Luciano Pisani

Marco Ghisetti è un giovane e promettente collaboratore della rivista di geopolitica “Eurasia”, responsabile della collana “Classici” presso “Anteo Edizioni” e responsabile della “sezione anglosassone” al “Centro Studi Eurasia e Mediterraneo”.

La monografia “Talassocrazia” è stata pubblicata, a detta dell’autore, dopo un anno di ricerche sull’evoluzione dottrinaria del pensiero del mondo anglosassone concernente le relazioni internazionali, e in particolare del Regno Unito e degli Stati Uniti, nell’ottica di individuare le fonti originarie dalle quali esso si è sviluppato e sulle quali esso è stato costruito.

Il libro propone quindi un metodo di ricerca composto da un triangolo interpretativo che unisce le contingenze internazionali con i fatti geografici e, infine, l’elemento interpretativo e volitivo che caratterizzano l’attore politico. L’aggiunta dell’elemento interpretativo e volitivo (il terzo vertice del triangolo) costituisce un’originalità nella ricerca scientifica e si caratterizza per essere un pregio punto forza che accompagna tutto il libro; esso è un punto forza poiché riesce a sondare e rendere conto non solo delle motivazioni, ma anche dei desideri e delle paure che effettivamente influenzano le decisioni che l’attore politico prende di fronte ad un dilemma a cui deve dare risposta.

Ad esempio, la rivoluzione spaziale avvenuta in seno all’Inghilterra all’inizio del cosiddetto periodo colombiano (XVI-XIX), descritta da Ghisetti usando una cospicua mole di letteratura scientifica, riesce, descrivendo abilmente il contesto storico-geografico e l’orizzonte di senso entro cui l’Inghilterra si muoveva ed interpretava il mondo, a spiegare per quale ragione l’Inghilterra decise di tagliare, per così dire, il cordone ombelicale che la legava all’Europa e di diventare un “pesce-balena” (Carl Schmitt), inserendosi quindi in una rete di significato che la portò a ritenersi un Paese “dell’Europa, eppure non in Europa” che, infine, le fece praticare la più che nota politica dell’isolazionismo-interventismo e dell’equilibrio di potenza nei confronti del continente europeo mentre si estendeva lungo gli oceani del mondo, costruendo così il proprio impero transoceanico. Così facendo, Ghisetti riesce a spiegare per quale ragione un altro Paese, per esempio il Giappone, anch’esso situato in una congiuntura spazio-temporale simile a quella inglese (il Giappone è, come l’Inghilterra, un impero isolano che, da una parte, dà dirimpetto ad una enorme massa terrestre e, dall’altra, ha il vasto oceano) decise invece di chiudersi a riccio nei confronti del mondo esterno con la politica del Sakoku.

Nello specifico, il testo di Ghisetti pone particolare attenzione alla particolare “rappresentazione geopolitica” o “rete di significato” all’interno dei quali i vari attori internazionali sono situati, e per la quale scelgono di intraprendere certe scelte piuttosto che altre (ad esempio, chiudersi a riccio come il Giappone o estendersi sugli oceani come l’Inghilterra). Insomma, l’uomo è certamente un animale politico ma è anche un uomo geografico, poiché esso abita, vive ed interpreta lo spazio (o gli spazi); in poche parole, “geopoliticamente abita l’uomo”.

In particolare, Ghisetti pone l’attenzione alla rappresentazione geopolitica che caratterizza gli attori che decidono di seguire una politica di dominio mondiale di tipo talassocratico, la quale, evidentemente, consiste in una particolare rete di significato. Tutto ciò potrà apparire molto filosofico o fin troppo teorico, eppure il triangolo interpretativo che unisce, si potrebbe dire, lo spazio, il tempo e la cultura, e tramite cui l’Autore interpreta la riflessione e l’azione geopolitica di Stati Uniti ed Inghilterra costituisce un’originalità che è a nostro avviso molto promettente e grava di possibili ed ottimi sviluppi nel futuro della ricerca sulle relazioni internazionali.

La ricerca di Ghisetti riesce, infatti ed inoltre, allo stesso tempo a mostrare (seppur indirettamente poiché non interessato a trattare questo specifico argomento nella presente monografia) quanto già un profondo quanto ignorato autore, Carlo Maria Santoro, ebbe modo di lamentare negli anni Novanta. Ovvero, come lo studio della politica internazionale, in particolar modo in seguito all’avvento del momento unipolare statunitense, sia prevalso un paradigma interpretativo di tipo economicista e fuso con un’altra e altrettanto grave deviazione concettuale, di matrice normativa, orientata ad illuminare il futuro con la fumigante torcia del passato recente. Secondo tale paradigma, che già costituiva una alternanza senza alternativa nel dibattito geopolitico presso i piani alti della società statunitense per lo meno dagli anni Cinquanta, si è egoisticamente imposto anche presso i circoli accademici e politici italiani ed europei (con la più piccola eccezione della Francia, forse perché ancora influenzata dal passato gollista).

Ebbene, secondo la tesi diventata anche in Europa maggioritaria in così poco tempo (tanto da farci chiedere se tale conquista delle menti non fosse stata gramscianamente teleguidata), il mondo doveva inesorabilmente marciare lungo la cosiddetta via del progresso, progresso che è invero interpretato come lineare ma il cui fondamento è piuttosto contenzioso quando non semplicemente mitico. E tale progresso, stando sempre al generale pensiero sulla politica mondiale che si era imposto, si sarebbe ora arrestato per via dell’azione controbilanciatrice di alcuni attori attori che, resistendo militarmente, istituzionalmente e culturalmente al dilagare su tutto il globo terracqueo di questa mentalità, non possono che essere interpretati come Stati canaglia e criminali, giacché impediscono ciò che è normativamente giusto, buono e desiderabile.

Ma è (anche) qui che il testo “Talassocrazia” si rivela utile, poiché, individuando “i fondamenti della geopolitica anglo-statunitense”, svela sia i concetti fondativi del discorso geopolitico contemporaneo, sia gli interessi gramscianamente dietro all’imposizione di certe idee e orizzonti di senso, sia le eventuali contraddizioni od insufficienze pratiche e teoriche, sia la loro eventuale desiderabilità.

Sarà anche facile, ad esempio, mostrare come le idee circa l’ordine mondiale che sono state accettate pressoché unanimemente ed immediatamente nel prosieguo della Guerra Fredda erano le idee della talassocrazia anglo-statunitense, ma ben più difficile è dimostrare come tali idee siano rappresentative quasi esclusivamente di certe frazioni del grande capitale statunitense, in particolare quello legato agli interessi multinazionali industriali e bancario-finanziari.

Ancor più difficile, inoltre, è dimostrare dove casca l’asino nella rappresentazione geopolitica di tipo talassocratico – per lo meno nel modo in cui essa si è affermata nella riflessione ed azione anglo-statunitense.

Eppure, il libro di Ghisetti riesce ad individuare il peccato originale della visione del mondo talassocratica di Stati Uniti Regno Unito. Se infatti, come Ghisetti scrive, la strategia mondiale talassocratica si fonda su un doppio movimento di isolazionismo e di interventismo, su una strategia che vuole dominare gli oceani del mondo (poiché il mare può essere solo dominato, non già organizzato o posseduto) e che per una potenza marittima il mare non costituisce il punto dove finisce la terra e il proprio imperio, ma una grande strada che collega le varie regioni del mondo, la promozione di un aggressivo espansionismo economico diventa pressoché obbligatorio per chiunque voglia intraprendere una strategia globale di tipo marittimo. L’entroterra del proprio Stato diventa allora solo una base, un’isola circondata da un mondo ostile e in cui ritirarsi dopo aver navigato il mondo e colpito i propri avversari: un colpire senza poter essere colpiti. E infatti Ghisetti rileva, commentando l’opera del “padre della geopolitica statunitense” Alfred Mahan, come questo ammiraglio, nel cercare di fornire una giustificazione normativa all’espansione statunitense ad alla conquista dei territori e delle basi oltremare, giunge a “promuovere l’occupazione di territori già abitati da altre popolazioni appellandosi alla necessità di sfruttare e rendere produttivi tutti i territori del mondo” attraverso un principio universale del “diritto all’occupazione” di cui i titolari sono “i più produttivi ed efficienti”. E, per via della relazione intima tra potenza economica e militare che caratterizza le potenze talassocratiche liberali anglo-statunitense, tale diritto giustifica anche dal punto di vista morale e normativo le operazioni di conquista anglo-statunitensi, mentre al contempo biasima e demonizza coloro che cercano di resistervi. Infatti, tale resistenza alla conquista e alla promozione dello “spirito occidentale” liberale e marittimo è un freno al progresso lineare che vuole estendere “l’oasi nel deserto” che, secondo Mahan, è la “civiltà” che ha come capitale Washington.

Ecco dunque trovata una delle fonti del pensiero geopolitico liberale e statunitense e la ragione per la quale, una volta crollato, tanto statualmente quanto ideologicamente, il comunismo storico novecentesco, l’impiegato del dipartimento di Stato Usa, cioè l’impiegato dello stesso dipartimento che progetta i bombardamenti al fosforo bianco contro gli Stati canaglia (e che è erroneamente ritenuto filosofo e di nome fa Francis Fukuyama) decretava la “fine della storia”, ovvero l’unformazione completa delle mentalità, delle culture, delle tradizioni, tutte da diluire nell’oceano indistinto del liberalismo. La creazione cioè di un unico spazio mondiale, unito sotto l’egida del Presidente degli Stati Uniti, il quale altro non è che l’amministratore delegato che deve rendere conto a quei centri di potere dove si trova l’effettivo quadro di comando da cui dipende la stessa Casa Bianca: i colossali gruppi bancario-finanziari che dominano l’economia.

Ma la storia non è finita e d’altronde non potrebbe nemmeno finire: il padrone della storia non è l’uomo, e in ogni caso altri attori (geo)politici, che si possono inquadrare nel medesimo triangolo interpretativo offerto da Ghisetti al fine di individuare la loro diversità spaziale, culturale e temporale, hanno arginato l’inondazione talassocratica che in ogni parte del mondo si stava riversando. E di qui anche la capacità del Nostro Autore di proporre e creare nuovi quadri interpretativi per comprendere gli sviluppi nella teoria della politica mondiale che sarebbe meglio promuovere, perché più utili a capire le azioni e le riflessioni dei vari attori mondiali rispetto a quelli che si sono, dopo la Guerra Fredda, accademicamente e giornalisticamente affermati.

Quanto detto vale per l’ambito teorico. È opportuno tuttavia sottolineare che il libro di Ghisetti dedica in realtà più spazio alla discussione pratica e strategica che ha caratterizzato l’azione di Inghilterra e Stati Uniti (messa comunque in relazione al processo evolutivo teorico), che non ad approfondire il quadro teorico discusso da noi sopra. Ma anche qui, per quanto sia indubbio che il peso accumulato dei libri scritti sull’espansionismo nordamericano, sulla Guerra Fredda e sul momento unipolare americano sia già sufficiente per sfondare i più resistenti pavimenti delle biblioteche, il testo di Ghisetti si caratterizza per una lodevole originalità, che rompe con gli sterili schemi della ripetitiva e sterile discussione accademicamente affermatasi. Infatti, non solo il libro “Talassocrazia” riesce a mettere in ordine l’evoluzione dottrinaria della base del pensiero geopolitico (anglo-)statunitense (la nascita della vera isola continentale con Mahan, il conflitto tra isola e continente con Mackinder, l’unione di potenza militare statunitense con quella finanziaria con Bowman e il conflitto tra nuovo e vecchio mondo con Spykman), ma mette in relazione questa riflessione con l’azione effettiva, offrendo delle letture che potrebbero sembrare forse un po’ troppo coraggiose ma che, a chi vuol fermarsi un attimo ben pensare, dovrebbero invece essere prese con la massima considerazione e serietà.

Per esempio, fanno parte dell’immaginario comune le immagini della fuga con elicotteri dal Vietnam da parte delle forze statunitensi, così come i numerosi film su quella guerra in cui gli Stati Uniti cercarono di impedire la diffusione del comunismo nel Vietnam, inviando là migliaia e migliaia dei propri giovani a morire e sprecando una enormità di risorse per combattere una guerra che, nonostante l’indubbia superiorità militare, tecnologica e politica rispetto al Vietnam del Nord, gli Stati Uniti finirono col perdere rovinosamente. Ebbene, per Ghisetti la conclusione è ben diversa, poiché, afferma l’Autore, gli Stati Uniti in realtà vinsero quella guerra. Semplicemente, gli obiettivi primari erano ben diversi dall’impedire l’espansione del comunismo nel Vietnam.

Alla luce di quelli che ritiene essere i fondamenti della geopolitica anglo-statunitense, Ghisetti ricostruisce che in Vietnam il vero obiettivo degli Stati Uniti fosse quello di evitare che si creasse un’intesa tra il rimland asiatico e lo heartland sovietico o cinese. Nello specifico, l’obiettivo era di fare in modo che il Giappone, che a quel tempo era la maggiore economia asiatica, giocasse la “carta asiatica”, ovvero decidesse o si trovasse obbligato a unire la potenza delle proprie industrie e della propria economia con la manodopera a basso costo e le riserve energetiche e di materie prime di Cina e Unione Sovietica. Tale obiettivo gli Stati Uniti lo raggiunsero proprio grazie alla guerra in Vietnam e ai vari colpi di Stato e destabilizzazioni anti-comuniste ed anti-maoiste che lanciarono in tutto l’Estremo Oriente mentre combattevano in Vietnam. Tale conclusione potrà sembrare strana, eppure nel libro è ben argomentata e, a pensarci bene, risulta essere proprio la più veritiera (e secondo noi è proprio quella vera) che non le affermazioni secondo cui gli Stati Uniti in Vietnam semplicemente persero o che l’obiettivo fosse di contenere il comunismo e non già mantenere a legato a sé il Giappone. Altrimenti, per quale ragione gli Stati Uniti non si fecero problemi a sostenere dittature, anche socialiste, ogni qual volta che ciò era nei loro interessi?

Allo stesso modo, la medesima chiave di lettura si può proporre per interpretare l’invasione dell’Afghanistan e l’attuale rovinoso ritiro, da molti giustamente comparato a quello vietnamita. E proprio per questa ragione, le teorie che affermano che l’azione statunitense in Afghanistan fosse stata di arrestare Bin Laden, distruggere al-Qaeda, accaparrarsi le riserve energetiche, imporre una transizione democratica, ecc., non sono per nulla soddisfacimenti nel loro complesso. Piuttosto, sembra essere molto più convincente la ragione che si può dedurre dal testo di Ghisetti, ovvero che l’obiettivo principale fosse di mantenere il mondo musulmano in una situazione di caos (la famosa geopolitica del caos) e di interporsi, anche militarmente, in una delle principali regioni congiunturali tra l’Estremo ed il Vicino Oriente e tra il cosiddetto cuore della terra e la terra di confine eurasiatica, nell’ottica di interporre il proprio esercito come diaframma divisorio tra le potenze eurasiatiche che, all’alba del XXI secolo, si erano caratterizzate per essere i principali candidati alla organizzazione del continente. Anche il frettoloso ritiro statunitense dall’Afghanistan, che ricorda precisamente quello vietnamita, si legge in quest’ottica: l’intenzione è di creare in Afghanistan un pantano ingestibile, delle sabbie mobili su cui far sprofondare ogni intesa tra Russi, Cinesi e Iraniani. Ragione per cui, la missione Afghanistan è stata, anch’essa, proprio come il Vietnam, un successo per le oligarchie statunitensi.

Queste considerazioni, come detto, potranno sembrare perlomeno curiose, eppure si fondano su un impianto concettuale davvero solito, e sono ben argomentate. Tale impatto concettuale, inoltre, si rivela ancor più solido se si tiene in considerazione i numerosi autori e strateghi che Ghisetti indaga nel comprendere l’evoluzione e l’influenza esercitata dall’impianto dottrinario americano: autori e strateghi che vanno da Zbigniew Brzezinski a Manlio Graziano, da François Thual a Aleksandr Dugin, da Tiberio Graziani a Henry Kissinger, da Yves Lacoste a John Mearsheimer, da Claudio Mutti a Colin Gray. Insomma, il testo è veramente solido e ben strutturato (mi si permetta la battuta: proprio come debbono essere i “fondamenti” di qualsiasi abitazione o sistema di pensiero), sia dal punto di vista storico-teorico, che da quello pratico-strategico. Tutto questo in un testo neppure troppo lungo e molto agile da leggere; un testo, in conclusione, che ha tutte le carte in regola per fare da vero e proprio “fondamento” alle future analisi e ricerche sulla materia in questione.

Marco Ghisetti
Talassocrazia. I fondamenti della geopolitica anglo-statunitense
Prefazione di Leonid Savin
Anteo Edizioni, 2021
Pagg. 200
€ 18,00

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