Mosca e la geopolitica del gas

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di Riccardo Allegri

Nelle proprie relazioni con i Paesi dell’“Estero Vicino” e con i paesi dell’Europa Occidentale, la Federazione Russa ha spesso utilizzato una vasta gamma di strumenti che le hanno consentito di ottenere un certo grado di influenza, ponendole in una posizione di vantaggio rispetto all’interlocutore del momento. Di tutti questi strumenti, le risorse energetiche sono senza ombra di dubbio fra quelli più importanti.

La Russia occupa la prima posizione mondiale per produzione ed esportazione di gas naturale, possedendo un quarto delle riserve globali di metano. A livello petrolifero si colloca al secondo posto per produzione ed al terzo per esportazione mentre, per quanto riguarda il carbone, essa è la sesta produttrice e la terza esportatrice mondiale1.

Dal momento del suo arrivo alla Presidenza della Federazione Russa, Vladimir Putin ha cercato di mettere l’apparato produttivo al servizio delle esigenze della nazione ed il settore energetico non ha fatto eccezione, essendo di gran lunga il più importante asset economico nelle mani del Cremlino. L’epoca delle privatizzazioni selvagge, immediatamente successiva alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, aveva tolto allo Stato russo il controllo su tale fondamentale settore ma Putin era perfettamente consapevole della necessità di riportare all’obbedienza gli oligarchi che avevano fatto fortuna acquisendo le proprietà energetiche russe.

Se il Cremlino avesse potuto decidere in che modo allocare i profitti derivanti dalla vendita degli idrocarburi, avrebbe potuto risolvere parte dei gravi problemi interni che affliggevano la nazione al momento dell’insediamento di Putin. La cosa non deve sorprendere, se si considera che negli anni Novanta l’idea che la politica energetica dovesse giocare un ruolo fondamentale nella rinascita della potenza russa era molto diffusa, al punto che lo stesso Putin ne aveva fatto il tema della propria dissertazione di laurea nel 19972.

Ad ogni modo, egli riuscì nel suo intento e la congiuntura fu particolarmente favorevole in quanto per tutto il primo decennio del XXI secolo i prezzi degli idrocarburi furono decisamente elevati, consentendo alla Federazione Russa di veder crescere il proprio PIL di una quota annua pari, mediamente, al 7%.

Come detto in precedenza, l’importanza del settore energetico non era limitata alla sola crescita economica del paese. Gli strateghi del Cremlino sapevano perfettamente che gli idrocarburi potevano essere utilizzati come leve di pressione nei rapporti bilaterali con i Paesi che dipendevano dalle esportazioni energetiche russe. Lo stesso Putin affermò pubblicamente nel 2003 che Gazprom, la principale azienda energetica russa controllata dallo Stato, doveva essere un potente strumento politico ed economico per influenzare il resto del mondo3.

Quanto detto da Putin era confermato all’interno dei Concetti di Politica Estera approvati dal Presidente della Federazione Russa nel 2008, 2013 e 2016, ove si faceva espresso riferimento agli strumenti economici come leve di pressione da sfruttare al fianco degli strumenti prettamente militari.

Non bisogna dimenticare che già ai tempi dell’Unione Sovietica l’esportazione di gas naturale aveva consentito al Paese di rompere l’isolamento rispetto alle nazioni appartenenti al blocco occidentale. Nel 1970 Mosca firmò il primo contratto per la fornitura di gas con la Germania di Willy Brandt, la quale fece da apripista nell’apertura del mercato energetico europeo alle immense riserve russe. Negli anni successivi furono infatti numerosi i Paesi che seguirono l’esempio tedesco, generando forti preoccupazioni a Washington, ove si temeva per l’eccessiva dipendenza degli alleati dalle forniture energetiche provenienti dal blocco sovietico. In effetti i Paesi dell’Europa Occidentale rischiavano di trovarsi esposti al potere di ricatto di Mosca e la cosa preoccupava gli USA al punto che nel 1982 Ronald Reagan decise di imporre sanzioni economiche nei confronti di quanti avessero contribuito alla costruzione del gasdotto Yamal, il quale avrebbe convogliato il gas proveniente dall’URSS in Europa4. Ciò perché all’epoca gli accordi tra Mosca e le capitali europee erano del tipo gas for pipe, ovvero gas in cambio di tubazioni, mancando in Unione Sovietica la tecnologia necessaria alla costruzione di moderne pipelines.

Con il senno di poi, non possiamo certo dire che Reagan non ci avesse visto lungo considerando che, secondo le statistiche, nel solo 2015 circa il 37% di tutte le importazioni di gas ed il 30% di quelle di petrolio dell’Unione Europea provenivano dalla Federazione Russa. Il dato, però, deve essere leggermente ridimensionato considerando che se si prende in esame l’intero consumo energetico della UE, il gas russo occupa una quota pari al 6,5%, la quale pur essendo considerevole risulta meno allarmante rispetto al dato sulle importazioni5.

Esaminando ancora più nel dettaglio il mercato energetico europeo si possono poi evidenziare diversi livelli di dipendenza dal gas russo. Alcuni paesi, come Finlandia, Slovacchia, Bulgaria, Estonia e Lettonia importano quasi il 100% del proprio fabbisogno di gas dalla Federazione Russa, cosa che mette enormemente a rischio la loro sicurezza energetica. La Lituania è riuscita a divincolarsi dalla presa di Mosca grazie alla costruzione del suo primo terminale per l’LNG, vedendo diminuire le proprie importazioni dalla Russia fino al 50% del proprio fabbisogno energetico totale. La Germania importa dalla Federazione il 40% del proprio fabbisogno mentre Francia ed Italia rispettivamente il 18 ed il 20%6.

Ma se l’Europa dipende da Mosca per le proprie importazioni energetiche, Mosca dipende dall’Europa per le proprie esportazioni. Questa reciprocità è dimostrata dal fatto che la UE è il primo partener commerciale della Federazione Russa ed in ambito energetico Gazprom vende ai 27 Paesi membri dell’Unione il 61,2% della propria produzione di gas naturale, quota che raggiunge uno strabiliante 96,5% se si considerano l’Europa geografica e la Turchia7.

Ciononostante il potere negoziale dei paesi europei è sensibilmente inferiore rispetto a quello del Cremlino nella stipulazione degli accordi energetici. Mosca ha sempre preferito instaurare relazioni bilaterali con le singole capitali europee in quanto questo le consente di sfruttare a proprio vantaggio l’interdipendenza economica. Si tratta dell’applicazione moderna in campo economico della strategia del divide et impera che consente al Cremlino di fissare prezzi per gli idrocarburi differenti in ragione della dipendenza energetica dell’interlocutore. In particolare, Paesi come la Finlandia o gli Stati Baltici pagano un obolo sensibilmente più elevato rispetto a quello negoziato con la Francia e l’Italia. Se la UE fosse riuscita a creare un consorzio per l’acquisto di idrocarburi dalla Federazione Russa, avrebbe visto il proprio potere negoziale aumentare enormemente.

La totale incapacità dei Paesi dell’Unione di parlare con una voce sola, ormai divenuta proverbiale, è la più grande fortuna della Russia in campo energetico.

Il Cremlino non si è fatto nessuno scrupolo ad utilizzare le esportazioni di gas naturale come una vera e propria arma. Esemplare è il caso ucraino.

Nel 2004 la Rivoluzione Arancione portò alla ripetizione delle elezioni tenutesi nel Paese ed al conseguente ribaltone politico. Viktor Janukovič, il candidato filo-russo appoggiato da Putin che era sceso in campo di persona per spalleggiarlo durante le fasi finali della campagna elettorale, vinse la consultazione ma le accuse di brogli portarono alla ripetizione del voto e questa volta ad uscire vincitore dalle urne fu il suo avversario: il filo-occidentale Viktor Juščenko. L’Ucraina godeva di un trattamento di favore in riferimento al prezzo del gas che comprava dalla Federazione Russa in quanto esso era tenuto artificialmente più basso rispetto a quello di mercato.

Putin fu fortemente indispettito dagli eventi occorsi a Kiev anche perché non fece mai mistero di sospettare che dietro alla vittoria di Juščenko ci fosse lo zampino dell’Occidente.

Per questo motivo il Cremlino decise di rinegoziare il prezzo delle forniture di gas, richiedendo inoltre il pagamento degli ingenti debiti ucraini nei confronti della Russia. Del resto non vi era alcun motivo per sussidiare un governo che non fosse recettivo degli interessi nazionali della Federazione Russa. La disputa tra Mosca e Kiev si protrasse senza alcuna soluzione fino a quando nell’inverno del 2006 ed ancora in quello del 2009 il Cremlino decise di tagliare le forniture di gas naturale all’Ucraina. Poiché il Paese era attraversato dalle pipelines che convogliavano il suddetto gas all’Europa Occidentale, il governo di Kiev prese la decisione di sopperire ai mancati approvvigionamenti appropriandosi di parte del gas diretto nella UE. Il risultato fu che a rimanere al freddo furono le capitali dell’Unione, cosa che danneggiò profondamente la reputazione di fornitore energetico affidabile della Federazione Russa, portando inoltre ad un ripensamento delle politiche di approvvigionamento di Bruxelles8.

Quelle che furono note come “guerre del gas” non erano motivate soltanto da questioni di tipo politico. Il Cremlino aveva ingenti crediti nei confronti dei Paesi che avevano fatto parte dell’Unione Sovietica ed i mancati guadagni derivanti dall’applicazione di prezzi sussidiati nei loro confronti erano piuttosto importanti. A Mosca si sentiva inoltre la necessità di normalizzare i rapporti economici con i Paesi dell’“Estero Vicino”, volontà che era perfettamente coerente con il nuovo approccio di modernizzazione pragmatica delle relazioni con essi. In sostanza il Cremlino riteneva che fosse giunta l’ora di passare da una fase di paternalistico aiuto nei confronti degli antichi alleati, ad una fase in cui questi ultimi sarebbero stati trattati come normali partner commerciali, tanto più che molti di essi avevano operato scelte di campo tali da essersi estraniati dall’orbita russa, volgendosi piuttosto verso Occidente.

Lo stesso Sergej Ivanov aveva affermato nel 2001 che il prezzo che Mosca aveva dovuto pagare per l’integrazione nella CSI dei Paesi che avevano costituito l’URSS era stato troppo elevato, suggerendo che la Federazione assumesse un atteggiamento più pragmatico, almeno nelle relazioni bilaterali. In linea con queste parole, Putin aveva affermato che la sola Ucraina deteneva un debito compreso tra i 3 ed i 5 miliardi di dollari9.

Ciò trova ulteriore conferma nel fatto che le “guerre del gas” non furono condotte soltanto contro i Paesi che si erano dimostrati più recalcitranti rispetto alla permanenza all’interno della sfera d’influenza della Federazione Russa, bensì anche contro storici alleati del Cremlino quali la Bielorussia e l’Armenia. In particolare, nei confronti della Bielorussia fu applicato un raddoppio del prezzo del gas, che divenne pari a 100 dollari per 1000 metri cubi. Inoltre Gazprom acquistò il 50% delle quote della compagnia statale bielorussa che si occupava della gestione delle pipelines, Beltransgaz. Senza contare che il nuovo accordo negoziato da Gazprom limitava fortemente la possibilità, per Minsk, di vendere a terzi il gas russo che acquistava. Secondo alcune stime, tali manovre consentirono alla Federazione Russa di guadagnare 4 miliardi di dollari10.

Ad ogni buon conto, la disputa tra Mosca e Kiev fu risolta in via definitiva nel 2009, quando il Primo Ministro ucraino Tymošenko firmò un accordo sul prezzo del gas decisamente sfavorevole per il proprio Paese, mettendo oltretutto in grave imbarazzo il Presidente Juščenko, che si era personalmente impegnato a non cedere alle richieste provenienti dal Cremlino.

Alle successive elezioni presidenziali del 2010 la vittoria fu di Janukovič, il candidato filo-russo, ed a dimostrazione dell’uso controverso che Mosca fa delle proprie risorse energetiche, egli ottenne un’immediata riduzione del 30% sul prezzo del gas, concedendo in cambio il prolungamento dell’affitto alla Marina russa della base navale di Sebastopoli. Era evidente come il Cremlino avesse utilizzato i rifornimenti di gas naturale per delegittimare il governo filo-occidentale uscito vincitore a seguito della Rivoluzione Arancione, per poi cambiare rotta una volta insediatosi un governo maggiormente allineato con le politiche della Russia, permettendogli di ottenere una piccola vittoria nell’annosa disputa sul gas.

Tale disputa consente di analizzare un altro aspetto rilevante di come Mosca abbia sfruttato i rifornimenti energetici a proprio vantaggio.

Le “guerre del gas” ebbero effetti geopolitici decisamente rilevanti. Come detto in precedenza, l’Unione Europea non riteneva più la Federazione Russa un partner affidabile e prese le proprie contromisure. In primis, la UE decise che fosse giunto il momento di diversificare i propri approvvigionamenti energetici, come sarebbe poi stato sancito dalla Strategia Europea per la Sicurezza Energetica del 2014. Secondariamente, si decise di implementare le misure contenute nel Third Energy Package firmato dai Paesi membri nel settembre del 2009.

Per ciò che concerne il primo punto, la principale questione che Bruxelles dovette affrontare era quella relativa al transito del gas. Non era infatti complicato trovare altri fornitori, il problema era l’assenza di infrastrutture per il trasporto della risorsa dai Paesi di produzione al territorio comunitario che aggirassero i confini della Federazione Russa. Tutta la rete di gasdotti dell’Asia Centrale faceva capo a Mosca ed era dunque necessario progettare linee alternative. Il principale di questi progetti era senz’altro quello per la costruzione della pipeline denominata Nabucco, che avrebbe consentito di convogliare il gas naturale dai paesi dell’Asia Centrale alla Turchia e da qui all’Europa Occidentale risalendo i Balcani per giungere all’hub austriaco di Baumgarten. Tale progetto godeva del poderoso appoggio degli Stati Uniti.

Per quello che riguarda il secondo punto, ovvero l’implementazione del Third Energy Package, esso prevedeva tutta una serie di norme che avrebbero consentito la regolarizzazione del mercato dell’energia entro i confini comunitari. Lo scopo era quello di creare un mercato maggiormente competitivo, in particolare tramite la separazione dei produttori dalla rete dei trasportatori, consentendo inoltre l’accesso di terze parti alle pipelines.

Era un tentativo di combattere i monopoli, impendendo che i produttori di risorse energetiche detenessero anche il controllo della rete di trasporto. Non vi è alcun dubbio su quale fosse la compagnia energetica maggiormente colpita da tale legislazione: ovviamente Gazprom11.

Non bisogna poi sottovalutare le politiche intraprese dall’Unione Europea a seguito dell’annessione russa della Crimea avvenuta nel 2014.

Il Primo Ministro della Polonia, Donald Tusk, propose la creazione di un’Unione Energetica che avrebbe consentito alla UE, per usare le sue stesse parole, di togliersi il cappio di Mosca dal collo12.

L’anno successivo, l’Unione Energetica Europea prese vita con lo scopo di creare un mercato comune dell’energia che garantisse la sicurezza energetica dei Paesi che ne erano parte. Contestualmente, seguendo l’esempio degli Stati Uniti, anche Bruxelles impose pesanti sanzioni economiche alla Federazione Russa, sempre a seguito degli eventi ucraini. Tali sanzioni andarono a colpire duramente, tra gli altri, il settore energetico.

Rispetto a tutto questo, il Cremlino non rimase di certo a guardare. Per rispondere alla politica europea di diversificazione degli approvvigionamenti, Mosca si mise alla ricerca di nuovi acquirenti cominciando il proprio riorientamento verso il Pacifico ed in particolare verso la Cina, la cui fame di idrocarburi sembrava essere inestinguibile. Riorientamento che sarebbe stato completato negli anni successivi alla crisi di Maidan, quando i rapporti tra la Federazione Russa e l’Occidente divennero fortemente antagonistici.

Rispetto alla questione delle pipelines, invece, il Cremlino elaborò una propria strategia.

Tanto per cominciare, il governo russo decise che sarebbe stato necessario aggirare il territorio dei Paesi che si erano dimostrati ostili alle sue politiche, in modo tale da creare un collegamento diretto tra la rete di gasdotti russa ed i clienti europei. Ciò era fondamentale poiché qualora si fossero ripresentate vertenze sui prezzi delle materie prime con i paesi dell’Europa Orientale e Mosca si fosse trovata costretta a tagliare i rifornimenti, la UE non ne avrebbe fatto le spese. In aggiunta, la Russia non avrebbe più dovuto pagare le ingenti tasse di transito ai paesi dell’“Estero Vicino”.

Chi avrebbe subito il danno maggiore da questa strategia sarebbe stato senza ombra di dubbio l’Ucraina, lungo il cui territorio transitava l’80% del gas diretto in Occidente13.

Contestualmente, il progetto Nabucco, fortemente osteggiato dal Cremlino poiché il tracciato del gasdotto avrebbe aggirato il territorio della Federazione, naufragò. Secondo i piani esso avrebbe dovuto snodarsi per 3800 Km ma la costruzione della pipeline fu giudicata insostenibile e si optò per l’implementazione dei gasdotti denominati TAP (Trans Adriatic Pipeline) e TANAP (Trans ANAtolian Pipeline).

Ciononostante i Paesi dell’Unione Europea erano perfettamente consapevoli di non poter fare a meno delle risorse energetiche provenienti dalla Russia ed il Cremlino sfruttò a proprio vantaggio questo dato inconfutabile.

Con l’intento di porre una sfida diretta alla costruzione del gasdotto Nabucco, prima che il progetto venisse abbandonato, Mosca propose di sfruttare il cosiddetto “corridoio meridionale” implementando la pipeline denominata South Stream. Il tracciato di tale gasdotto prevedeva che le tubature fossero posate sul fondale del Mar Nero in modo tale da collegare direttamente la Russia con la Bulgaria (e di conseguenza l’Unione Europea), aggirando in tal modo l’Ucraina. Fu Romano Prodi, in quei giorni presidente della Commissione Europea, a spingere con forza in direzione dell’implementazione del progetto, ponendosi dunque in contrasto con Washington ed i membri orientali della UE che avrebbero preferito la costruzione del Nabucco14.

Il 23 giugno del 2007, l’amministratore delegato di ENI, Paolo Scaroni, firmò con Aleksandr Medvedev di Gazprom il memorandum d’intesa che serviva come atto fondativo del progetto South Stream. L’Italia fece inoltre pressioni sui paesi dei Balcani perché aderissero al progetto. In cambio dell’endorsement italiano al South Stream, ENI ed ENEL ottennero la possibilità di investire in numerosi progetti energetici all’interno della Federazione Russa, poterono acquistare alcune quote di Gazpromneft ed infine acquisirono alcune piccole società energetiche che operavano nel grande nord della Russia15.

Il progetto South Stream, la cui costruzione era iniziata nel 2012, fu abbandonato in seguito ad un duro scontro tra il governo russo e la Commissione Europea, la quale pretendeva il rispetto delle regole contenute nel Third Energy Package per la parte di pipeline che avrebbe dovuto attraversare il proprio territorio. In pratica non sarebbe stato consentito a Gazprom di essere parte del consorzio che avrebbe dovuto gestire questa tratta del South Stream in base alla norma sull’unbundling, ovvero la regola che prevede la separazione tra l’ente che produce la materia prima e l’ente che ne gestisce il trasporto di cui si è detto in precedenza. Mosca optò allora per il progetto Turkish Stream, cioè una pipeline che avrebbe dovuto passare per la Turchia e da qui convogliare il gas verso l’Europa, a tutto discapito della UE, che avrebbe sostituito un Paese di transito con un altro (l’Ucraina con la Turchia), senza ottenere un rifornimento diretto. Per Mosca, invece, l’obiettivo di aggirare l’Ucraina sarebbe stato raggiunto. Dopo una breve interruzione dei lavori a causa di un raffreddamento delle relazioni russo-turche dovuto all’abbattimento di un caccia russo da parte di Ankara, la costruzione del gasdotto Turkstream ha ripreso vigore ed il primo gennaio del 2020 la linea è diventata operativa16.

Sempre nell’ottica di aggirare il territorio dei Paesi ostili nell’Europa Orientale, Mosca decise di raddoppiare il volume di gas che giungeva nel circuito distributivo della UE da nord. Il progetto, fortemente appoggiato dalla Germania, prevedeva di aumentare i rifornimenti garantiti dal già esistente gasdotto Nord Stream, che veicola verso l’Europa Occidentale 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno, tramite la costruzione di una nuova pipeline che avrebbe preso il nome di Nord Stream 2. Il tracciato seguito dalle tubazioni avrebbe aggirato il territorio dell’Ucraina congiungendo Vyborg al terminale tedesco di Greifswald, situato sul Mar Baltico.

Per conformarsi al regolamento sull’unbundling previsto dal Third Energy Package, Gazprom avrebbe detenuto il controllo sulla parte di gasdotto esterna ai confini dell’Unione Europea, mentre la restante parte sarebbe stata gestita da un consorzio di imprese del settore.

Ciò avrebbe consentito alla Germania di divenire il più importante hub continentale, almeno per quanto riguarda la regione nord-occidentale dell’Unione.

Del resto, già dai tempi della costruzione di Nord Stream, lo Stato tedesco si era dotato di una serie di gasdotti che avrebbero potuto distribuire il gas naturale nel resto della UE. Si fa riferimento alla pipeline denominata NEL, lungo la direttiva est-ovest, ed a quella nota come OPAL, lungo la direttiva nord-sud. In particolare quest’ultima raggiunge direttamente il terminale austriaco di Baumgarten, ovvero il più importante dell’Europa Centrale. Importanza che gli deriva dal fatto di ricevere buona parte del gas russo che transita attraverso Ucraina e Slovacchia17.

Qualora il Nord Stream 2 dovesse essere implementato, grazie ad OPAL il gas non passerebbe più dalla rete ucraina, arrivando da nord e dunque da Greifswald. Comprensibilmente, il progetto del nuovo gasdotto ha scatenato le vibranti proteste di Paesi come la Polonia e la Slovacchia, i quali negli ultimi anni sono riusciti a rimpinguare discretamente le casse dello Stato grazie al processo di “reverse flow”. In effetti, Bratislava e Varsavia rivendevano le proprie forniture supplementari di gas russo all’Ucraina, praticando il prezzo di mercato, ovvero un prezzo inferiore rispetto a quello negoziato tra Mosca e Kiev e per farlo sfruttavano i gasdotti in senso contrario. In questo modo, l’Ucraina era riuscita ad ottenere 10,6 miliardi di metri cubi di gas nel solo 2015, costringendo la Federazione Russa a tagliare le proprie esportazioni verso il proprio vicino dai 14,5 miliardi di metri cubi del 2014 ai 6,1 del 2015. Senza contare che il Cremlino era stato costretto anche a tagliare il prezzo del gas da 212 dollari per 1000 metri cubi a 200 dollari per 1000 metri cubi18.

Ad opporsi al progetto russo-tedesco non erano soltanto Polonia e Slovacchia ma anche i Paesi baltici, la Repubblica Ceca e l’Ungheria. Se per i primi valevano essenzialmente i tradizionali sentimenti anti-russi, i secondi erano guidati dalla necessità di mantenere il ruolo di Paesi di transito, facilitati nei propri rifornimenti di gas naturale. A causa di questa forte opposizione in seno alle strutture dell’Unione Europea il progetto Nord Stream 2 non è ancora definitivamente decollato, tanto più che anche gli Stati Uniti si sono schierati apertamente contro la Germania al Summit NATO di Bruxelles del giugno 2018, sottolineando come il progetto russo-tedesco non avrebbe in alcun modo risolto il problema della dipendenza europea dalle risorse energetiche della Russia ed al contempo avrebbe privato Kiev di 2,3 miliardi di dollari in tasse di transito19.

Tirando le somme, si può dunque chiaramente identificare l’uso geopolitico che Mosca fa delle proprie risorse energetiche, le quali in alcune occasioni sono state utilizzate come un’arma vera e propria, per punire i propri avversari o ridurre i margini di manovra dei Paesi recalcitranti. Nei rapporti con l’Europa Occidentale, gli idrocarburi svolgono un ruolo fondamentale e la partita a scacchi tra gli attori coinvolti si fa ogni giorno più interessante. Mosca è infatti riuscita ad aggirare le normative contenute nel Third Energy Package facendo affidamento su consorzi di imprese europee attive nel settore o facendo transitare le risorse energetiche attraverso il territorio della Turchia, che ambisce al ruolo di principale hub regionale nel Mediterraneo Orientale. Come detto, il più grande vantaggio del Cremlino nelle relazioni con l’Unione Europea deriva proprio dall’incapacità di quest’ultima di parlare con una voce sola. Si pensi al caso South Stream, appoggiato dall’Italia ma osteggiato dalla Commissione Europea allineata sulle posizioni statunitensi di sostegno al progetto Nabucco. O al Nord Stream 2, fortemente voluto dalla Germania nonostante la fiera opposizione dei Paesi Visegrad. Nemmeno l’Unione Energetica Europea voluta da Donald Tusk ha cambiato la situazione.

Con l’imposizione delle sanzioni economiche alla Federazione Russa dopo l’annessione, giudicata illegale, della Crimea, Bruxelles ha perso un’ulteriore occasione di far valere il proprio peso di primo e fondamentale partner commerciale di Mosca, in quella relazione di reciprocità che lega Russia e UE nel mercato energetico. Ciò perché il Cremlino ha operato il proprio riorientamento verso le economie in espansione dell’Asia Orientale, diversificando a sua volta il proprio portafoglio clienti. Il caso Navalny ha messo poi a repentaglio il successo del progetto Nord Stream 2, erodendo il consenso di cui godeva in buona parte del mondo politico tedesco. La situazione generale appare piuttosto fluida e la partita è ancora aperta.

1 Roger Kanet, Routledge Handbook of Russian Security, Routledge, Londra-New York, 2019.

2 Ibidem.

3 Mark Galeotti, Russian Political War, Routledge Londra-New York, 2019

4 Angela Stent, Putin’s World, New York-Boston, Twelve, 2019.

5 R. Kanet, Routledge Handbook of Russian Security, op. cit.

6 A. Stent, Putin’s World, op. cit.

7 R. Kanet, Routledge Handbook of Russian Security, op. cit.

8 Nikolas Gvosdev, Cristopher Marsh, Russian Foreign Policy, Washington DC, CQ Press, 2014.

9 Andrej Tsygankov, Russia’s Foreign Policy, New York, Rowman & Littlefield, 2019.

10 Ibidem.

11 Richard Sakwa, Russia Against the Rest, Cambridge, Cambridge University Press, 2017.

12 Ibidem.

13 Leonardo Bellodi, Russia ed Europa non possono ignorarsi, in “Limes” n.1/2016 p. 128.

14 N. Gvosdev, C. Marsh, Russian Foreign Policy, op. cit.

15 Ibidem.

16 Demostenes Floros, Turkish Stream: la Guerra per l’Energia tra Ankara e Mosca, in “Limes”, 1/2016, p. 134.

17 Margherita Paolini, Nord Stream 2, Colpo Doppio Oppure a Salve?, in “Limes” 1/2016, p.106.

18 Ivi, p. 107.

19 A. Stent, Putin’s World, op. cit.

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